Per rallentare i cambiamenti climatici dovuti all’aumento della concentrazione nell’atmosfera dell’anidride carbonica (il principale dei “gas serra”) proveniente dalla combustione dei combustibili fossili, viene proposto di usare dei combustibili ricavati dai vegetali, sostanze anche loro ricche di energia e che possono ricrescere, una volta usate, grazie ai grandi cicli della natura. Su questo criterio è basata la produzione di biodiesel, un derivato dei grassi naturali usato al posto del gasolio o come additivo del gasolio petrolifero. Il biodiesel è costituito da sostanze derivate (esteri) dagli acidi grassi presenti in tutti i grassi vegetali e animali: si tratta di prendere dei grassi, per lo più vegetali, che costino poco e siano abbondanti e di trasformarli con reazioni chimiche negli esteri metilici dei loro acidi grassi.
La massima attenzione nel mondo dei produttori di biodiesel è rivolta all’uso degli acidi grassi dell’olio di palma, l’olio vegetale di cui vengono prodotti nel mondo circa 35 milioni di tonnellate all’anno. Ci vorrebbero delle quantità enormi di olio di palma se si volesse sostituire tutte le centinaia di milioni di tonnellate di gasolio usate ogni anno nel mondo, ma almeno è un passo avanti. Come risultato di questa innovazione tecnologica è aumentata la richiesta mondiale di olio di palma che si ottiene dal frutto della palma da olio; i botanici la chiamano Elaeis guineensis perché è originaria dello stato africano della Guinea dove l’ha trovata e descritta, nel 1763, il botanico olandese Nikolaus von Jacquin (1727-1807). Il chimico francese Edmond Frémy (18914-1894) ha analizzato la composizione dell’olio di palma ed ha identificato i due principali acidi grassi presenti, l’acido laurico e l’acido palmitico (che ha preso il nome dalla palma da olio), due acidi grassi saturi, cioè privi di doppi legami, solidi.
Ben presto l’olio di palma, l’unico grasso solido, proprio per questa proprietà, ha cominciato ad essere utilizzato industrialmente, nel corso dell’Ottocento, sia come grasso alimentare, al posto del burro, sia per la fabbricazione di saponi e di candele e anche come lubrificante per macchinari. Nel 1848 gli olandesi iniziarono la coltivazione della palma da olio a Giava e nel 1910 lo scozzese William Sime e il banchiere Henry Darby, che avevano già delle piantagioni di gomma in Malesia, pensarono di introdurre la coltivazione della palma da olio in Malesia, allora colonia britannica. La richiesta mondiale di olio di palma aumentò continuamente; dopo l’indipendenza della Malesia le piantagioni furono nazionalizzate, “malesizzate”, e oggi la Malesia è il principale produttore e esportatore di olio di palma.
Il frutto della palma pesa da 6 a 20 grammi e contiene una polpa e un seme. La polpa, che contiene circa il 50 percento di grasso, viene sterilizzata con vapore, e, dopo separazione dei semi, viene cotta e pressata; l’olio di palma che se ne ricava è di colore rosso per l’elevato contenuto di beta-carotene. Il seme a sua volta contiene il 50 percento di grasso (olio di palmisto); dopo estrazione dell’olio resta un panello proteico adatto per l’alimentazione del bestiame, simile all’olio di palma. La maggior parte dell’olio di palma e di palmisto trova impiego per usi alimentari, nell’industria dei detersivi, ecc, ma la produzione di biodiesel sta rapidamente aumentando e di conseguenza è aumentata la richiesta di olio di palma. Circa la metà della produzione mondiale, si ha nella Malaysia, che è anche il grande esportatore mondiale, seguita dall’Indonesia e dalla Nigeria.
Tutto bene quindi? Un aumento della produzione di biodiesdel e quindi una minore emissione di anidride carbonica per ogni chilometro percorso da un automezzo, l’aumento della produzione di olio di palma in Malaysia e Indonesia, con conseguente vantaggio economico di questi due paesi emergenti, nuove attività nell’industria chimica: sembrerebbe che le azioni per la difesa del clima siano accompagnate da vantaggi economici. Fino a un certo punto, perché la crescente richiesta di olio di palma ha indotto gli abitanti dei due principali paesi produttori ad estendere le coltivazioni in terreni fino allora occupati dalle foreste tropicali che da anni vengono selvaggiamente tagliate o bruciate per lasciare spazio alle nuove colture.
La distruzione delle foreste tropicali non solo contribuisce, come si accennava prima, al peggioramento del clima, ma comporta anche una perduta di biodiversità, essenziale per la stabilità degli equilibri ecologici e per l’alimentazione delle popolazioni locali. Inoltre le foreste tropicali crescono in terreni ecologicamente e geologicamente poveri e instabili; distrutte le foreste, ben presto le piogge tropicali provocano rapidi fenomeni di erosione che rendono poco produttivi i terreni che erano stati liberati nella speranza di grandi guadagni. Nelle scelte ecologiche future bisogna quindi vigilare, attraverso una ricerca scientifica lungimirante, per non uscire da una trappola tecnologica e cadere in un’altra: davvero, ci piaccia o no, in natura, ogni cosa è legata a tutte le altre.