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La parabola della mucca

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Alcuni anni fa il prof. Giangiacomo Bravo ha pubblicato (“Rassegna Italiana di Sociologia”, 43, (4), 633-646 (ottobre-dicembre 2002)) una lunga documentata discussione sul problema dei commons, partendo da un libro di Olstrom e altri, “The drama of the commons”.

L’attenzione per i problemi dello sfruttamento dei beni collettivi da parte di privati è cominciata con un saggio, scritto all’alba dell’ecologia da Garrett Hardin, professore di ecologia umana all’Università di Santa Barbara in California, intitolato: “The tragedy of the commons”, Science162, 1243-1248 (13 december 1968); traduzione italiana col titolo: “La tragedia dei ‘Commons’”, Sapere70, (710), 4-10 (marzo 1969).

I “commons”, che danno il titolo all’articolo, sono, come è ben noto, terre collettive, come da noi quelle sottoposte ad usi civici, di proprietà o a disposizione degli abitanti di un villaggio, e in tali terre ciascun abitante può andare a raccogliere la legna o a pascolare, per le necessità proprie e della propria famiglia o per quelle degli altri abitanti del villaggio.

L’articolo di Hardin contiene una specie di parabola  che proverò a raccontare a modo mio: lo scenario è un pascolo collettivo, grande, ma non illimitato, anzi con confini ben definiti, fertile, attraversato da un ruscello ricco di acque pulite.

Un giorno uno degli abitanti del villaggio porta a pascolare nel prato la sua mucca: la mucca mangia l’erba, beve l’acqua fresca e pulita del ruscello e produce il latte che rappresenta il reddito del pastore. Gli escrementi della mucca cadono sul terreno e vengono trasformati in sostanze nutritive per l’erba del prato. Alla fine della stagione il pastore si è assicurato un certo guadagno ed è contento: la mucca è contenta perché ha avuto cibo buono e abbondante e acqua fresca per tutta l’estate; il prato è contento perché è pronto a fornire, l’anno dopo, ancora erba, e il ruscello è contento perché le sue acque sono ancora limpide e pulite.

Durante l’inverno il pastore pensa però che sarebbe possibile guadagnare di più producendo più latte e decide, la primavera successiva, di portare al pascolo non più una sola mucca, ma dieci mucche. A questo punto la presenza di tanti animali fa sentire i suoi effetti: gli zoccoli pestano l’erba che non è più disponibile per l’alimentazione, e rendono duro e impermeabile il suolo. Gli escrementi di tanti animali ristagnano sul suolo e non vengono assorbiti dal terreno e vanno a contaminare le acque del ruscello che non sono più adatte da bere.

Alla fine dell’estate forse il pastore ha guadagnato un po’ di più vendendo più latte, ma l’acqua del ruscello è stata inquinata, le mucche sono state infelici perché dovevano litigare per contendersi la poca erba, e il pascolo è stato distrutto e non sarà più utilizzabile l’anno dopo né gli anni successivi, né dal pastore né dagli altri abitanti del villaggio, che pure hanno, come il pastore, gli stessi diritti al suo uso.

La parabola si presta a varie forme di lettura: la prima è di carattere ecologico e biologico: in una terra di risorse naturali limitate, qualsiasi spazio o territorio ha una capacità ricettiva limitata sia per gli esseri viventi presenti, sia per lo smaltimento e l’assimilazione delle scorie e degli escrementi della loro vita. Il pascolo della parabola è proprio il nostro intero pianeta, grande, ricco di risorse naturali, ma limitato, al punto che le attività della popolazione umana impoveriscono le riserve di risorse naturali non rinnovabili e fanno peggiorare la qualità delle risorse rinnovabili, delle acque, dell’aria, fanno diminuire la fertilità del suolo coltivabile e la ricchezza delle foreste.

Come è ben noto, i biologi chiamano “carrying capacity”, capacità ricettiva, appunto, il numero massimo di individui – vegetali, animali, umani – che possono  soddisfare i propri bisogni vitali usando le risorse naturali disponibili in un territorio limitato.

Un limite alla popolazione che un territorio può accogliere esiste, naturalmente, anche per le popolazioni umane, per gli abitanti di una città, di una regione, di uno stato: per cui c’è seriamente da chiedersi se è possibile che la popolazione terrestre continui ad aumentare al ritmo di sessanta milioni di persone all’anno, come sta avvenendo attualmente, nel 2003.

Le continue conferenze internazionali sull’ambiente, sulla popolazione, sugli insediamenti umani, sull’alimentazione, hanno tutte espresso la preoccupazione per la crescita troppo rapida della popolazione mondiale rispetto alla disponibilità di cibo, di acqua, di spazio coltivabile e abitabile.

Ma la vera importante morale della parabola riguarda le cause della “tragedia” e della crisi dei beni collettivi: i disastri ecologici, le cause di insostenibilità del pianeta Terra derivano dal fatto che alcuni individui o popoli o comunità, nel nome del profitto privato e individuale, si appropriano e sfruttano eccessivamente i beni collettivi che non sono loro, che sono di tutti: la Terra, le acque, l’aria, i boschi, i pascoli.

Poiché tale sfruttamento si fa sempre più grave a mano a mano che aumenta il numero degli abitanti della Terra, Hardin parla della necessità di porre un limite alla libertà di procreazione, ma più ancora alla libertà individuale di sfruttare i beni della natura. Soltanto alcune regole, imposte da alcuni con la violenza, col potere, con le guerre, hanno stabilito che ci sia un “padrone” delle  acque, dei minerali, delle foreste, dei pascoli, che sono invece beni collettivi, “commons”, appunto.

Nel momento in cui gli interessi individuali, l’avidità, la ricerca del profitto privato, nel nome della libertà, cercano di appropriarsi di una parte di questi beni collettivi, che sono anche “di  altri”, tali beni in breve tempo vengono sporcati o distrutti o si esauriscono, e vengono meno all’avido speculatore – e questo non sarebbe un gran male, ma solo una giusta punizione per la sua avidità – ma purtroppo non sono più disponibili neanche per tutti gli altri che da tali beni non hanno tratto alcun vantaggio, benché gli stesi beni fossero in parte anche “loro”.

Ecco perché è insostenibile una società o uno sviluppo che, nel soddisfare i bisogni dei terrestri – o di una parte  dei terrestri – dell’attuale generazione lascia alle generazioni future terre impoverite, meno fertili, miniere e pozzi esauriti, acque contaminate: tale situazione di insostenibilità non è dovuta alla povertà della natura, di cui comunque vanno riconosciuti e ricordati i limiti fisici, ma al conflitto fra proprietà e interessi privati e beni collettivi.

L’auspicio dell’avvento di una società – “sostenibile”, come la chiamano – capace di lasciare alle generazioni future dei beni naturali e materiali in grado di soddisfare i loro futuri bisogni, è ipocrita se non si mettono in discussione i principi della proprietà privata, se non si ha il coraggio di porre alla proprietà privata dei vincoli nel nome e nell’interesse degli altri.

Il discorso non è poi tanto sovversivo: nella storia sempre sono stati posti dei vincoli alla proprietà privata nel nome di interessi e di valori superiori, “altrui”, dapprima riconosciuti ed enunciati da pochi, poi divenuti patrimonio di intere civiltà. Si pensi che appena un secolo e mezzo fa le leggi dei paesi bianchi e cristiani riconoscevano il diritto dei cittadini di “possedere” un altro essere umano, uno schiavo. Eppure nel corso di molti decenni almeno tale “diritto” è stato cancellato dalle costituzioni di tutti i paesi.

Se si vuole passare dalle ipocrite dichiarazioni di principio a concrete azioni ecologiche e sociali, bisogna mettere in discussione molti principi fondamentali dell’economia e del diritto e riconoscere che, come è colpevole un privato quando ruba ad un altro privato mettendogli le mani in tasca, così è un delitto che un privato, per i propri comodi, per non spendere soldi nei depuratori, per guadagnare di più, inquini, avveleni, sfrutti eccessivamente dei beni che non sono suoi, che sono di tutta la collettività.

Il cammino è lungo perché le regole del mondo dei saggi e dei sapienti vanno proprio in direzione contraria, sono ispirate alla logica del pastore che distrugge il pascolo per avere a breve termine un maggiore profitto individuale. Ma, alla breve o alla lunga, queste regole si ritorcono contro gli stessi che le hanno formulate e dovranno pure, un giorno, essere cambiate.

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