Nel 1562 si contano 10 mulini di proprietà privata disposti sui canali della città di Brescia, mentre altri 34 sono attivi all’esterno delle mura, nelle Chiusure: da qui carri carichi di farine prendono la direzione della città e del contado e sfamano migliaia di famiglie, le guarnigioni militari, botteghe e mercati, rifornendo fornai e dispense di conventi e monasteri. E per la verità non pochi di questi ultimi posseggono mulini, sia in città che all’esterno delle mura. Il convento di S. Bartolomeo era comproprietario del mulino di S. Agata, i Benedettini di S. Faustino erano proprietari di un mulino sul Garza e di uno sul Bova nei pressi della loro chiesa. Le suore di S. Caterina possedevano i mulini di S. Alessandro, mentre i Cappuccini, dal 1587, gestiranno un mulino utilizzante le acque del vaso Molin del Brolo. I frati dell’ex monastero di S. Salvatore, ora presso S. Afra, possiedono sin dal XV secolo un mulino sul fiume Grande, chiamato “mulino di S. Salvatore”, vicino all’antico mulino detto “de Porticu”, citato dal 1432, che rimarrà attivo sino al Novecento E vi erano, ancora, il mulino di S. Pietro, mentre, più a valle era attivo il mulino detto “dell’Imperatore”. A sud di quest’ultimo era il mulino Saino, proprietà dell’Ospedale maggiore. Sul fiume Grande erano pure noti i mulini di S. Rocco (nei dintorni dell’incrocio fra le attuali vie Milano e Donegani).
Mezzo secolo dopo, nel 1610, il Da Lezze citava 11 mulini esistenti in città. Ma, scriveva il nobile cittadino nel suo “Catastico”, oltre ai mulini altre ruote giravano grazie ai canali urbani. “Fra tutti questi fiumi – scriveva il Da Lezze – possono esser rasseghe da segar legnami et oltra questi vi sono edificij da molar ferri, armadure, spadarie, cavedoni, ferri da lettiere et simili, da pistar polvere et per servicio dell’arte dei corami”.
Nella seconda metà del Seicento le acque dei canali rimangono determinanti per l’economia di Brescia. Dentro la città troviamo un filatoio di azze e di seta in piazza del Novarino; un altro simile, di privato, in Mercato nuovo; un mulino di due mole sulla Garzetta, a Sant’Agata, di ragione dell’Abbazia di S. Bartolomeo; un filatoio di seta a San Zenone; un altro filatoio di seta ed uno di azze in via Larga; il mulino di due mole al Fontanone presso la chiesa di san Giuseppe, dopo del quale veniva un edificio per molare i ferri, di ragione del Monte di Pietà; una conceria in vicolo San Tomaso; un mulino a Porta Bruciata, un altro al partitore al Serraglio, dove il Bova diventa Garzetta per un ramo e Molin del Brolo per l’altro.
Sul Bova abbiamo un molino al Carmine. A San Lorenzo un mulino di tre mole della Disciplina di S. Faustino, uno a Sant’Alessandro, dove abbiamo anche un filatoio di refe, due mulini sul vaso Molin del Brolo, in via Martinengo da Barco, dove vi sono pure tre mulini della famiglia Chizzola ed un altro mulino appartenente alla Chiesa di San Bartolomeo. Altri filatoi di azze e di seta si trovavano uno a San Francesco, uno a S. Cosma, altri alla Misericordia, a S. Caterina, alle Cossere, a S. Marco, a S. Clemente, vicino alla Mercanzie, ed altri due in diverse località urbane. Tre molini privati si trovavano a porta di S. Giovanni e altri tre sotto i Ronchi.
Fuori della città, dovendo il terreno restare per 400 passi (circa 700 metri) senza alberi né fabbriche, per ragioni militari, non esistettero opifici dentro tale limite per diverso tempo. Più lontano, a nord della città, si potevano contare altri mulini sul Fiume Grande, appartenenti ad istituti religiosi. Altri opifici erano attivi a nord a San Bartolomeo e, a sud, alle Fornaci, dove esistevano anche segherie, concerie ed opifici per molare ferri, armature, spade e per pestare polveri. Per la produzione della polvere da sparo gli opifici si andarono localizzando nella porzione orientale della città, dove, sul Molin del Brolo, si sarebbe insediata, rimanendovi sino al Settecento, una polveriera nei pressi del “tezon del salnitro”, nella zona dell’attuale via Spalto S. Marco.
Nel Seicento si diffusero inoltre i filatoi o mulini per seta, detti “holoserici”, secondo il modello delle macchine idrauliche messe a punto nel XIII secolo. Nel 1676 l’imprenditore Lorenzo Curtiolo chiese di poter impiantare un meccanismo per la filatura sul vaso Dragone, nei pressi della Pallata, “pro volvenda machina eius artis holoserici”. Un anno dopo lo stesso Curtirolo ottenne di costruire un simile congegno sul Bova, mentre un altro filatoliere (1674) inoltrò la richiesta per insediare tre ruote idrauliche sul Dragone, in contrada di S. Francesco. L’impianto alla Pallata non fu autorizzato, ma l’imprenditore ebbe nel 1678 la concessione per costruire il filatoio sullo stesso Dragone, vicino a Porta di S. Nazaro.
Sul Celato, fuori le mura, ancora agli inizi del Settecento si segnalava il mulino delle monache di Santa Chiara (di fronte all’attuale galleria del castello), quindi un altro mulino a due ruote ove ora sorge un supermercato a nord di piazzale Golgi; altri due mulini si trovavano all’altezza dell’odierna via Schivardi; risalendo era attivo un mulino per macinare la rusca di legno per ricavarne colorante per concerie; a lato del seminario novecentesco giravano le ruote del mulino “Zamberto” e verso nord, presso l’attuale scuola Nikolajewka, sorgeva il mulino di proprietà Valotti. A Mompiano, ancora, funzionavano sul Celato almeno 3 mulini, mentre altre ruote erano mosse ancora più a monte.
Dentro e fuori le mura: più acqua per meno opifici
Gli aspri confronti fra possessori di fondi da irrigare e titolari di opifici e ruote rimangono naturalmente in primo piano. Nel 1643 si ha notizia della usuale contesa interna alle tre branche dell’Università del Celato, ovvero conciatori e possessori dei mulini contro i proprietari dei campi. Nel corso del Settecento le acque continuano a muovere decine di ruote di vari opifici. Le varie Compartecipate tentano di mediare fra esigenze della città e quelle dei possessori di terreni fuori le mura: per entrambi l’acqua è bene necessario, da secoli utilizzato secondo un delicato equilibrio fra diritti, ore d’acqua festive o notturne per uso irriguo, bilanciati doveri di manutenzione.
E quando il meccanismo si inceppa, è l’autorità veneta che interviene d’ufficio (come spesso indicato nei vari Statuti e regolamenti delle Universitas), ordinando nuovi lavori o convocando direttamente l’assemblea delle utenze per dirimere gravi questioni. Interventi rapidi, decisi anche nel caso di mancate cure ai canali nella parte esterna alle mura, negligenze che alimentavano l’intasamento dei vasi, provocando rigurgiti con danni nei cortili e nelle cantine delle case.
Così, per esempio, i “Giudici alle Vettovaglie” della magistratura bresciana, Ferrante Terzi Lana e Nicola Faita, non ci pensano due volte nel luglio 1717 a prendere carta e penna e stilare un pubblico annuncio, “a suon di tromba pubblicato ed affisso a luoghi soliti e dove transita essa acqua”. La ragione è dettata dalla constatazione di come “transitando l’acqua del fiume Dragone per più case di codesta Città, né essendo curato il suo vaso per vigor di Statuti è tenuto, valendosi di detta acqua per adacquare suoi beni, la qual per mancanza di dette curazioni apporta gravissimo danno a possessori di dette case, non avendo l’acqua il suo libero corso”. Richiamandosi alle norme statutarie, i due giudici decidono quindi di ordinare, agli aventi diritto d’uso, la curazione del vaso entro venti giorni e sotto pena di 100 planet “a cadaun inobbediente”, riservandosi azioni ulteriori in caso di inadempienza. Nel contempo dispongono l’indizione dell’assemblea dei possessori di casa interessati al problema, incontro da tenersi alle ore 20 della domenica presso il Convento di San Francesco. Per gli assenti era prevista una multa di 25 lire planet.
Per tutti continua a valere il diritto di concentrazione delle acque nel Mella in caso di siccità. Lo ribadisce un’ordinanza del 4 luglio 1722 a firma dei “Giudici alle Vettovaglie” cittadini, che su indicazione del Capitano Piero Delfino, intendono porre fine ad alcuni prelievi non autorizzati, “continuando nei presenti tempi li soliti disordini che causano la privazione delle acque necessarie per i mulini, che scorrono a questa città per mantenere le farine in questa siccità”. Si ribadiva la proibizione a trarre acque dal Mella nei territori di Villa, Cailina, Carcina, San Vigilio, Concesio, Collebeato e nelle Chiusure cittadine, “eccettuato per servizio delli suoi mulini per macinare, dovendo però ricondurre dette acque nel vaso del Mella”. Vietato pure procedere alle irrigazioni, ad alzare chiaviche o porre nuove travate, lasciando scorrere le acque nel solo Bova e Fiume Grande. Nemmeno da questi due ultimi canali era possibile trarre acqua per usi irrigui, tranne che “tutte le domeniche e feste di precetto di Santa Madre Chiesa”, dalle ore 22 della vigilia alle 22 della festa stessa.
All’inizio del Settecento la situazione delle prese dal fiume Mella vede una derivazione sulla riva destra per la seriola “Villa”, che rientra presto nel fiume sotto Villa Carcina, uscendone nuovamente col nome di seriola “San Verzilio”. In località Pregno, dalla riva sinistra deriva la seriola “Carsina”, che sotto località Codolaga esaurisce la propria funzione irrigua. In località Costoro fuoriesce la roggia Marchesina, che cede le sue acque al Celato e in minima parte rientra nel Mella. Più a valle dalla riva destra del Mella si deriva la seriola “Cobiada”, che scendendo si intreccia con la roggia Cobiadella e si incrocia con le seriole Uraga e Porcellaga. In località Campagnola di Concesio, dalla riva sinistra si stacca la seriola Masserola (detta anche “seriola che va alla Ca’ del Simo”). Più a sud, dopo località Stocchetta, si deriva il Bova, che riceve anche le acque della Masseria. Ancora più a valle, dalla riva sinistra del Mella si apre la bocca che origina il Fiume Grande: lungo quest’ultimo si apre poi dalla riva destra la roggia Fiumicella.
Frattanto qualche timido movimento di spostamento di alcune attività produttive nei sobborghi contraddistingue l’avvio di una dinamica che solamente nel secondo Ottocento troverà sempre più rapida attuazione. Nell’anno 1782, sul Bova fuori città i mulini attivi erano ben 12 e sul Celato in numero di 15 (erano 28 gli edifici a ruota solo nel 1720 circa, con ben 28 ruote complessive).
Sulle acque del vaso Molin del Brolo sin dal XVI secolo è attiva una polveriera. I monaci Teatini, interessati all’area occupata dalla polveriera, dopo aver preso possesso del convento che era stato dei Padri della Pace, acquisirono nell’anno 1755 l’officina pubblica costruendone, in permuta, una fuori città, a S. Eustachio, sul corso del fiume Grande, non distante dall’altra polveriera costruita sul fiume nel 1688. Il nuovo impianto viene completato nell’anno 1757, ed aperto alla produzione dopo il collaudo effettuato dai due periti Domenico Corbellini e Antonio Turbino.
Di certo il controllo sui canali e sul prezioso liquido non viene mai meno. “Bene il più importante, per il quale necessario è un pronto rimedio che non porti seco dilazioni quando si abbia a conservare con giustizia distributiva un sì bel tesoro delle acque che fregia e distingue singolarmente la città nostra”. Così un cronista cittadino si esprimeva alla fine del XVIII secolo, avanzando qualche giustificato timore intorno alla gestione idrica di una Brescia che era stata, per secoli, decantata città d’acqua. In fondo, per tutte le civiltà, anche per quella moderna, la capacità di reperire ed utilizzare acqua resta elemento essenziale e di vitale importanza per la sopravvivenza: la canalizzazione e la sua distribuzione ove necessario, l’equa suddivisione delle utenze, il controllo gestionale, rientrano sempre di più fra le capacità tecniche e sociali espresse dalla città settecentesca.
Acque e mancate rivoluzioni
L’ubriacatura rivoluzionaria della primavera del 1797, che conduce alla creazione del Governo Provvisorio Bresciano, porta immediatamente ad una sottolineatura della proprietà dei diritti d’acqua alla Municipalità, con i vecchi utenti richiamati ad un godimento precario delle ore d’acqua spettanti. Sono ordinanze emesse dal “Comitato Viveri”, in nome del “sovrano popolo bresciano”, naturalmente rammentando ai cittadini la possibilità di riscontrare “da questa provvidenza quanto il vostro Governo Provvisorio si occupi per formare in qualunque occasione le si presenti la vostra felicità”. La deliberazione, datata 31 luglio 1797, riassume antiche usanze e nuove norme:
“Repressi gli arbitrj de’ Proprietarj de’ beni soggetti alli tre Fiumi, Bova, Celato, e Grande, quali ne’ tempi dell’irrigazione con violenze, ed atti ingiusti sotto l’ex-Governo deludevano ed insultavano con evidenti trapassi le statutarie disposizioni. Può il Comitato dietro alle più esatte informazioni, e lumi stabilire delle discipline che senza pregiudicare alli sacri principj de’ Fiumi suddetti reprimono gli arbitrj, e tolgono le fonti della discordia, e nel tempo stesso pongono ad un livello di Eguaglianza l’irrigazione de’ campi”.
Per tali ragioni il Comitato decretava dunque di ritenere valida la massima
“che qualunque utente, e pretendente diritto sulle acque delli tre Fiumi indicati, non è che per una precaria concessione dell’ex-Città, ne nasce quindi la conseguenza che la Nazione può pigliare quando alla medesima aggrada la pienezza della sua proprietà. Li Fiumi predetti essendo stati formati per mantenere l’andamento degli edifizj, e mulini, e per comodo della Città; così le presenti discipline saranno operative nel solo caso che non pregiudicassero agli edifizj predetti, ed al comodo come sopra”.
La città doveva dunque essere la prima beneficiaria nell’uso delle acque dei tre canali ed era sacrificato ad essa anche l’andamento degli opifici. In via ordinaria, comunque, era possibile utilizzare le acque secondo nuove precise norme orarie: “alli Possessori tutti aventi ragione precaria sulli detti Fiumi, e sulle Seriole intermedie Cobiata, e Maseriola complessivamente sono accordate in ogni giorno ore sei dalle ore 24 sino alle sei della notte coi metodi di eguale distribuzione, e disciplinare dettaglio sopra il numero di Piò di terra aradori, quale disciplinare dettaglio verrà approvato dal Comitato”. Cessava quindi l’utilizzo per i soli opifici, che rimanevano privati dell’acqua dalla mezzanotte alle sei. I possessori ed i coltivatori dei fondi erano dunque privilegiati rispetto al passato: per loro l’acqua era utilizzabile tutte le notti per usi irrigui, oltre alle tradizionali ore dei giorni festivi.
I controlli venivano resi più rigidi, con l’ordine di provvedere alla nomina di “tre adacquaroli per cadaun Fiume, ed un adacquarolo per cadauna Seriola, Cobiata, e Maseriola stipendiati delle Chiaviche e Bocchetti, quelle aprire e chiudere giusto il riparto, ed ordine stabilito”. E, ancora, “tutte le Chiaviche de’ soprannominati Fiume, e Seriole dovranno essere tenute bene acconcie, ed otturate in modo che non traspirino le acque; saranno munite di chiavi, e catenacci con apposita catena sotto la sorveglianza, e risponsabilità de’ Sindaci di detti Fiumi”. Infine, veniva confermata la possibilità di utilizzo per usi irrigui secondo le esatte condizioni precedenti: “tutti i giorni festivi principiando dalle ore sei della notte antecedente sino alle ore ventidue le dette acque saranno per l’irrigazione de’ Prati destinate, sotto l’ispezione de’ suddetti Adacquaroli come al solito, bene intesi che tutte le spese di qualunque natura occorrenti saranno ad aggravio delli predetti utenti delle acque, delle quali risentir ne devon il benefizio”.
E diveniva di ordinamento pubblico anche la possibilità, sorpassando le autorità dei Consorzi, di richiedere con autorità l’esecuzione di lavori e di curazione dei canali. Nel mese di aprile del 1797, per esempio, lo stesso Comitato ai Viveri deliberava,
“per il pubblico bene, che sia fatta la curazione del Fiumi Grande, Bova, e Celato, tanto in Città, che fuori, non che dei Fossi interni; perciò si ordina che ciascuno, che spetta, entro giorni dieci, incominciando dal giorno sei del venturo Maggio, in cui saranno levate le acque, debba far curare in buona, e laudabil forma le porzioni di essi Fiumi, e Fossi interni a cadaun incombenti, e così pure faccia acconciare le rispettive Chiaviche, Bocchetti, e Sottane ne’ modi, e forme solite sotto pena di lire cinquanta piccole”.
Con ordinanza del 21 agosto 1797 la “Municipalità dei quattro Rioni” (così era suddiviso il governo cittadino) sospese l’utilizzo delle acque per l’irrigazione, a causa della scarsità d’acqua necessaria ai molini, riportandosi alla pratica della “concentrazione delle acque dei canali” seguita come visto ancor prima della Serenissima Repubblica Veneta. Ed è proprio il Governo Provvisorio che nell’anno 1797 procede alla deviazione delle acque del Garza: da quella data, con la chiusura dei due passaggi fra le mura di Porta Pile, il torrente cessa di attraversare la città, dopo averlo fatto per secoli. Nel suo vecchio alveo abbandonato, dentro la città continueranno però a scorrere le acque del Bova e del Celato, prendendo il nome di “Garza di fossa”.
Nell’età napoleonica, particolarmente attenta alle esigenze di carattere militare, l’arsenale per la fabbricazione di armi viene trasferito all’esterno delle mura, sul fiume Bova, all’incrocio tra la via Arsenale e via del Manestro. Ed anche alcuni laboratori di tintoria e di conceria lasciano il centro della città, per chiudere definitivamente o spostarsi all’esterno, a sfruttare le acque di Bova e Fiume Grande.
Nemmeno la Repubblica Cisalpina, che seguì il percorso istituzionale voluto da Napoleone, nonostante i proclami rivoluzionari e di immediata modifica di abitudini e privilegi, intese mutare alcunché. Viceversa, il richiamo alla tradizione ed ai diritti consolidati dal lungo passato divengono elementi per una confermata titolarità. La Municipalità di Brescia pubblica infatti un editto datato 20 ventoso anno VI (ovvero 10 marzo 1798), il quale richiama in vigore le discipline già contenute nelle norme statutarie emanate nell’anno 1637. Qualche anno più tardi i1 codice francese, reso esecutivo nel territorio bresciano nel 1806, non introdusse nessuna modifica sostanziale: esso attribuì al Demanio soltanto i fiumie i canali utilizzabili per il trasporto, lasciando immutata la situazione esistente per Compartecipazioni di privati e rapporti con le autorità.
Il Regolamento del 20 maggio 1806 prevedeva inoltre che le disposizioni legislative circa le acque pubbliche
“non devono pregiudicare gli attuali possessori negli usi, edifizi e diritti relativi, dei quali a tenore delle leggi e legittime consuetudini godessero con giusto titolo: che dove altrimenti non disponesse il nuovo Regolamento, s’intendevano conservati i metodi e le discipline fin allora praticate nell’estrazione, nella condotta e nell’uso delle acque per le irrigazioni, per gli opifici ecc.; e che finalmente tutte le leggi, le gride, gli editti, le condanne, le multe emanate contro le usurpazioni delle acque s’intendevano mantenute in pieno vigore dove non fosse diversamente provveduto dal Regolamento medesimo”.
Il lungo Ottocento
L’inchiesta austriaca voluta da Carl Czoernig fra il 1835 ed il 1839 riepiloga gli utilizzi irrigui dei vari canali trasportanti le acque del Mella: “Nei luoghi piani di S. Bartolomeo, Urago-Mella, Fiumicello, Roncadelle, S. Nazzaro, S. Alessandro, si praticano le irrigazioni per mezzo di certe gore o roggie derivate dal Mella /…/. Tutte queste irrigazioni sono dirizzate parte a beneficio di prati stabili, parte ad innaffiare ortaglie e parte a garantire i trifogli e il formentone dalla siccità: qui il frumento d’ordinario non ne abbisogna. Generalmente le diverse acque sono ripartite per consorzi, e questi in certi luoghi ne usano a periodi di ore stabilmente determinate ne’ vari giorni della settimana: in altri per ogni turno vengono le ore da apposito adacquarolo assegnato sopra certa regola, e con avvisi stampati e scritti distribuite. Nella parte occidentale di S. Nazzaro l’irrigazione è affatto incerta”.
In quegli stessi anni il medico municipale Wilhelm Menis descrive le acque bresciane in termini particolarmente positivi, richiamando l’idea di canali in grado di garantire igiene e pulitezza alla città: “L’idrografia sotterranea di Brescia attesta l’accorgimento degli antichi suoi abitanti, i quali non badarono a spese ed a difficoltà per donare al loro paese un lustro che non si trova altrove”. Il Celato e il Bova, giudicati i padri di ogni altra derivazione scorrente del sottosuolo bresciano, venivano descritti dal Menis come benefici purificatori della città, “diramati a molte contrade si fanno servire a più usi, ma principalmente a raccogliere le civiche sozzure”. E, ancora, nelle campagne poste a sud della città queste acque, scorrendo, risultavano “di straordinaria fertilità nel suolo che vanno a fecondare. Per tale beneficio le ortaglie suburbane fanno pompa in ogni tempo di lussureggianti verdure e di tutte quelle produzioni vegetabili che sono destinate al giornaliero consumo de’ cittadini”.
Il Bova diviene, nel corso del primo Ottocento, una vera e propria asta in grado di fornire tutta la forza motrice di cui, fuori città, opifici e laboratori avevano bisogno in misura sempre maggiore. Nell’anno 1804 vengono segnalati 14 impianti, dei quali 11 mulini. Nel 1835 si elencano mosse dalle acque del Bova 17 officine a ruote idraulica, con la presenza di varie tipologie produttive. Fra i possessori si segnalano pure alcuni imprenditori di nazionalità diverse: gli svizzeri Giovanni Giacomo Baebler, dal 1853 operante – grazie all’energia ricavata dal Bova – con un opificio per scardatura di cascami della seta e poi con una conceria; Gaspare Hosslitz, che apre nel 1837 un cotonificio; il francese Antoine Chevalier, che nel 1814 possiede una conceria sempre sul Bova. I filatoi per seta trovano nuovo impulso: nell’anno 1834 solo sul Bova ne sono attivi 6, approdo di una filiera della seta che dava lavoro ad oltre mezzo migliaio di bresciani.
Sono stagioni durante le quali avanzano nuove modalità produttive e inediti percorsi di innovazione di prodotto. Nel 1831 si contano, sui corsi d’acqua a nord di Brescia, 43 ruote da mulino di cui 30 legate, direttamente o indirettamente, al Mella. Fra questi vi sono vecchie macine ora destinate alla triturazione della valonea, la corteccia di quercia o castagno dalla quale si ricavano sostanze tanniniche necessarie alle concerie, ma anche per lo zolfo, il gesso, la rusca di legno. Acque che, una volta entrate in città, oltre al movimento dei sempre meno numerosi mulini (solo 4 nell’anno 1804), sono utilizzate per raffreddare le serpentine di liquorerie e per alimentare i nuovi macchinari per la concia delle pelli, mediante il rivolgimento entro botti rotanti, dette “vascelli” (i primi modelli giungono a Brescia nel 1811 e sono istallati sul Vaso Dragone, presso l’attuale via Battaglie).
Ma le acque del Bova sono utilizzate pure per rifornire fontane decorative ed innaffiare scenografici giardini, mentre anche l’Ospedale Maggiore utilizza una ruota sul Bova per macinare sostanze richieste dalla sua rifornitissima farmacia.
Sul fiume Grande le acque non mancano di alimentare una vasta pluralità di attività. Qui sono attivi mulini, polveriere, magli (che diedero il nome all’attuale via del Sebino), concerie, filande, segherie (che diedero il nome a via Razziche), che si trasformeranno nel secondo Ottocento nei luoghi della moderna produzione industriale. Sul fiume Celato, nell’anno 1829 risultavano attivi 12 impianti dotati di ruota e destinati a varie attività. Nel 1831 gli opifici e le officine a ruota idraulica insediate sui tre canali bresciani, Bova, Celato e Fiume Grande, dalle bocche di derivazione alle porte della città, risultavano in numero di 77.
Entro la città, sul vaso Molin del Brolo, gli impianti presenti continuavano ad essere 3: il mulino di S. Alessandro, poi trasformato in mola intorno al 1845, nell’anno 1866, divenuto di proprietà municipale, viene chiuso nel 1866; il mulino detto dei Cappuccini, trasformato nel 1830 in mola e successivamente in sega di legnami; il filatoio per seta di S. Gaetano, trasformato nella seconda metà dell’Ottocento in macina di zolfo.
Norme imperiali, consuetudini bresciane
Non è certo possibile dar conto, neppure per linee molto sommarie, di tutte le iniziative che lungo l’età austriaca sono volte a rimodellare, almeno dal punto di vista istituzionale e formale, il sistema idraulico urbano. Il codice austriaco del 1816, dichiarando beni “universali o pubblici”le strade maestre, i fiumi, le riviere, non intese togliere i diritti e gli usi già concessi sulle acque dei canali che, vennero mantenuti come già previsto precedentemente nel regolamento napoleonico del maggio 1806.
L’applicazione di questi (vecchi e nuovi) regolamenti non tarda a venire. Nell’anno 1823, per esempio, nella vertenza che vedeva contrapposte la Congregazione municipale di Brescia e l’Universitas del Celato, la Delegazione provinciale – con proprio decreto datato 3 maggio 1823 – non esitò a riconoscere i diritti di utilizzo degli utenti così come riconosciuti dai precedenti ordinamenti, salvo l’autorità superiore del Comune di Brescia, ad utilizzare le acque del Mella “e dei fiumi che dal Mella derivano” per scopi di interesse generale. Fra l’altro il medesimo decreto rammentava come fosse d’obbligo la presenza, durante le assemblee deliberative dei Consorzi, del delegato della Congregazione municipale.
Un diritto di prevalenza delle decisioni cittadine che alcuni comuni contermini tendono a non riconoscere: il tentativo è ora quello di attribuire alla Imperial Regia Delegazione Provinciale ogni autorità, lasciando a questa, e non al Municipio di Brescia, il decidere circa i “singoli casi il bisogno della concentrazione e il tempo che dee durare”. E’ però l’autorità governativa milanese del Regno Lombardo-Veneto che, in data 25 settembre 1832, rigetta ogni ricorso. La deliberazione è chiara: l’esistenza di una contestazione non poteva alterare lo stato di diritto acquisito dalla città, “il quale dovea mantenersi integro ed illeso. Non potersi imporre restrizioni nemmeno alla facoltà di applicare le pene nelle contravvenzioni alle discipline degli antichi statuti”.
Per il governo asburgico, dunque, l’interesse comunque pubblico da potersi attribuire agli utenti possessori di fondi non poteva superare quello “all’ uso degli acquedotti inservienti alla giornaliera sussistenza di una numerosa popolazione coll’animare i molini, ed importantissimi eziandio nei rapporti di sanità e salute pubblica, col servire alla nettezza e pulizia delle strade e delle case”. I tentativi di ribaltamento da parte di alcune Universitas – fra cui quelle principali del Celato, Bova e Fiume Grande – dei diritti acquisiti dalla città si scontrano così inevitabilmente nei gradi di giudizio portati innanzi alla Pretura di Brescia e al Tribunale d’Appello.
Resta il fatto che, ora, l’autonomia della municipalità risulta di gran lunga più ridotta che in passato, e l’applicazione delle norme finirà spesso per risultare non sempre imparziale, a maggior ragione dopo la rivolta del marzo 1849 – le Dieci Giornate – e il giro di vite voluto dal governo militare.
L’Universitas del Celato prende atto di ogni inutilità di ulteriori manovre con proprio atto del 30 gennaio 1841. Nelle nuove norme statutarie si accenna alla volontà di tener conto dei decreti governativi 14 marzo 1824, 26 gennaio 1825 e 25 settembre 1832, notando esplicitamente il diritto di prevalenza dei diritti della città, con la possibile “chiusura di tutte le bocche del Celato in caso di riconosciuta scarsità d’acqua necessaria all’ andamento dei molini e alla polizia sanitaria”.
Il giorno 18 gennaio 1835 le Universitas del Bova e del Fiume Grande stipulano, innanzi all’autorità del Comune di Brescia un atto di reciproca attenzione alle proprie derivazioni: ancora una volta il tutto viene subordinato al riconosciuto diritto della Municipalità “di sorvegliare e mantenere 1′ adempimento delle cose convenute e delle consuete discipline”.
Più tardi l’Universitas del Bova, con la stesura di un nuovo regolamento in data18 settembre 1855, sottolinea definitivamente quei diritti superiori municipali; per il Fiume Grande, che non aveva provveduto a ricostituire un Consorzio degli utenti secondo le norme imperiali, nella prassi risultava comunque sempre abituale il ricorso al Municipio per la tutela degli interessi comuni.
Quel che è certo è che il governo austriaco provò a ridurre l’eccessiva quantità dei consorzi, in modo da attenuare i conflitti e la confusione. Il Comprensorio del Celato era stato ricostituito ed approvato dalle singole utenze e sancito dal governo austriaco con Decreto del 16 luglio 1838, definitivamente stabilito col successivo atto di transazione a stampa datato 30 gennaio 1841 stipulato come visto fra il Municipio di Brescia e le Utenze suddette, approvato infine dalla Imperial Regia Delegazione Provinciale con Decreto del 29 luglio 1841.
Concludendo un processo iniziato nel 1834, con atto 30 gennaio 1841 le tre Università superiori del Fiume Celato (i possessori dei fondi nella Frazione di Mompiano, con diritto di irrigazione colle acque del Fiume Celato; i proprietari dei molini ed altri edifici industriali attivi nel Comune di Brescia Frazione di Mompiano e in Città animati dalle suddette acque; i proprietari di case in Città aventi transito del Fiume sotto le stesse, detti storicamente di Rua Confettura), decretano un’importante opera di concentrazione. Con l’adesione delle tre Università o Compartite inferiori ossia Garzetta, Guzzetto con Codignole e Molin Brolo, che “irrigano uscendo dalla Città parte dei fondi nel Comune di Brescia Frazioni di S. Alessandro e S. Nazzaro Mella, ponendo fine ad una vertenza insorta tra essi ed il Comune di Brescia concernente i diritti a questi spettanti sulle acque del Fiume Celato dopo d’aver dichiarato che ritenevano integri i privilegi ed i diritti dello stesso sulle acque del Mella e del Fiume Celato a sensi dei patrii Statuti e delli ivi citati Decreti Governativi”, viene presa una decisone di semplificazione che assume caratteri storici.
Le sei Universitas decidono, infatti, di costituirsi in un solo Comprensorio, disciplinato dai Regolamenti 20 Aprile 1804 e 20 Maggio 1806, prendendo atto dei tempi nuovi e mostrando una dinamica inaspettata, pur se frutto di un decennio di confronti anche aspri.
Le ragioni che portano all’unione in una sola Compartita sono numerose, più o meno decisive secondo i punti di vista. Per la Municipalità guidata dal podestà nobile Faustino Ferodi – che vedeva riconfermati i diritti “alla distribuzione e all’uso ordinario delle acque per irrigazione conciliabili coll’occorrenza pubblica della città, /… / e di poter chiudere occorrendo anche tutte le bocche di derivazione del Fiume Celato nei casi di siccità” – si poteva finalmente giungere alla conclusione “con termine onorevole ed equo a tante difficili e dannose questioni”, senza dimenticare come era ora possibile “proteggere l’ordine nell’uso di tali acque di sì eminente interesse pubblico e privato”. Per le Delegazioni delle utenze così riunite, i vantaggi erano rintracciabili nel migliore utilizzo di acque e “per la grande utilità che ne deriva all’agricoltura di una considerevole parte del territorio mediante l’irrigazione, sia per uso delle acque stesse a beneficio degli edifici”. Senza dimenticare che da questa data in poi il nuovo Consorzio avrebbe goduto “dei privilegi fiscali per l’esazione delle relative taglie o contributi”.
Vecchie e nuove derivazioni
La necessità di acquisire una prospettiva di più ampio respiro, circa il sistema dei canali urbani conducenti le acque del fiume Mella, diviene elemento di sempre maggiore attenzione. I corsi d’acqua sono il più possibile collegati fra loro: mutue integrazioni, possibili alternative nei periodi di concentrazione per siccità, deviazioni temporanee per consentire curazioni ordinarie e straordinarie richiedono contiguità e punti di contatto sempre più efficienti. Per antica consuetudine, così si scriveva nell’anno 1835, alla bocca del Bova doveva scorrere sempre mezza oncia di spessore d’acqua in più rispetto al pelo del Fiume Grande, che aveva la presa dal Mella posta 760 metri circa al di sotto di quella del Bova stesso (le bocche di presa di questi due canali, erano poste sulla riva sinistra del Mella, alcune centinaia di metri sotto il borgo della Stocchetta).
Il Bova, in caso di eccesso di acque, doveva cedere parte del suo liquido tramite un apposito sfioratore. Viceversa, il Bova era rifornito, in caso di siccità, dalla seriola Masserola che scorreva presso il suo incile, proveniente anch’essa come visto dal Mella con bocca di presa posta più a monte. Il Fiume Grande doveva a sua volta ridurre il proprio prelievo dal Mella o dalla roggia Cobiada: nelle giornate di siccità, sulla riva destra del Mella, la Cobiada doveva bloccare il suo deflusso nelle rogge Uraga e Porcellaga (che restavano così senz’acqua), tramite la nota chiavica Assone, per riversare nel Mella e garantire maggiore portata da orientare alla bocca del Fiume Grande, che si trovava sull’altra riva più a valle.
In realtà, le manovre alla chiavica Assone per regolare la Cobiada e, indirettamente le acque al Fiume Grande, così come l’impossibilità di garantire regolarità alla roggia Masserola, ausiliaria del Bova, resero necessari nuovi lavori. Le acque deviate a soccorso nel Mella giungevano in misura esigua nel Fiume Grande, perché si disperdevano in gran quantità nelle ghiaie del letto del fiume: fu quindi deciso di razionalizzare il sistema.
L’idea, studiata a partire dal 1828 ma resa operativa solamente nell’anno 1852 (e aggiornata nel 1856), prevedeva la deviazione del ramo ausiliario della Cobiada più a monte, in modo che, grazie ad una piccola diga che attraversava il fiume, potesse raggiungere la bocca del Bova. Risolto il problema del rifornimento del Bova, le acque per il Fiume Grande sarebbero giunte attraverso un canale di scarico del Bova. L’attraversamento del fiume Mella fu occasione anche per sistemare la presa del Bova, che, come in ogni altro caso di prelievo di canali dal fiume, era costituita da una “petraja”. Così, prima dell’unità nazionale, lungo il corso del Mella si staccavano, dalla riva sinistra, il Celato e la Marchesina, la Masserola e, sulla sponda destra, la Cobiada, e il Bova; quindi, sulla sinistra, si apriva la bocca originante il Fiume Grande e, sulla destra, partivano le rogge Uraga e Porcellaga.
Un sistema che, nonostante le citate modifiche, mostrava ancora tutta l’inefficienza provocata da derivazioni eseguite in tempi – in secoli – diversi. L’irregolarità del Mella si univa alla presenza di travate e bocche di presa costituite da “pietraie con zolle erbose, frascate e fascine” che, per l’eccessiva altezza e compattezza finivano per intercettare quasi tutta l’acqua del fiume. Di fatto, nel periodo estivo, la Cobiada e la Masserola erano le ultime a prelevare un poco di acqua residua nel fiume, rimanendo completamente a secco le bocche più a valle, fra cui quelle, fondamentali per la città, del Bova e del Fiume Grande.
Secondo il catasto del 1852, risultavano sul fiume Grande, nel comune di S. Bartolomeo, e cioè da nord sino all’attuale via Volturno, 20 impianti, di cui otto mulini. Sul Bova ne risultavano 16 di cui nove mulini. E sempre più spesso si denunciava che le ruote sui tre canali della città avevano potuto lavorare solo alcuni mesi, per carenza d’acqua.
Dalle macine allo stabilimento
Il catasto voluto dal governo napoleonico per il Regno d’Italia, steso, per quanto riguarda il Dipartimento del Mella, negli anni 1809-1810, descrive i terreni compresi fra Porta San Giovanni (l’odierno piazzale Garibaldi) ed il suburbio di Fiumicello come “vitati aradori et adacquatori con moroni”. Uno scenario forse difficile da immaginare oggi, per località dal nome ormai mutato, toponimi che indicavano al tempo i paesaggi di una civiltà agricola e pre-industriale la quale, nel giro di pochi decenni, subirà radicali trasformazioni.
Abbiamo già visto come i prodromi di quelli che saranno gli sviluppi futuri della zona già comparissero nelle descrizioni di alcuni di questi siti nel corso dell’età moderna, soprattutto per gli appezzamenti ed i fabbricati abbarbicati lungo le sponde bagnate dai canali d’acqua che intersecavano i campi. Intorno al Bova ecco spuntare la “casa con mulino da grano a tre ruote di Caligari Maffeo”, sita in località Fiera, i mulini a tre ruote di Facchi Bartolomeo qm. Gaetano e di Riolli Carlo, mentre il mercato del bestiame, che settimanalmente si teneva sin dall’anno 1617 sui campi appunto detti “della Fiera”, è bagnato da derivazioni del Garzetta.
Acque e capitali di famiglia costituiscono elemento fondativo delle prime imprese di questa parte della città. Bartolomeo Facchi (1785-1863), oltre alla gestione del mulino è infatti commerciante e produttore di oggetti e strumenti in ferro, sposato a Margherita Riolli, la cui famiglia possiede l’altro mulino della zona: a lavorare sui suoi magli, presto sostituitisi ai mulini, egli chiama l’ingegnere austriaco Mattia Feroher, prima dell’apertura della propria nuova fonderia a Mompiano, a partire dal 1852, in collaborazione col figlio Gaetano, quest’ultimo divenuto anche banchiere e Sindaco di Brescia fra il 1862 ed il 1867.
Le rilevazioni catastali seguenti, ed in particolare quelle dovute al Regno Lombardo Veneto nel 1851 ed i rifacimenti successivi, confermano le trasformazioni sempre più rapide e significative di questa zona. Frequenti sono – seguendo una mutazione di destinazione quasi elevata a standard funzionale – le descrizioni che rappresentano un vero e proprio paradigma evolutivo: le “ortaglie adacquatorie” divengono nel giro di pochi anni “casa con bottega” e “magazzino legnami”, e, nel corso degli anni Ottanta del XIX secolo, la “macina della rusca e vallonia ad acqua” si trasforma in “stabilimento fonderia”. Stessa sorte tocca al “mulino di grano ad acqua”, mutatosi in “stabilimento metallurgico”, mentre, appena più a nord, sorgono anche una conceria (sul sito occupato in precedenza da un mulino) ed un fabbricato “per la lavorazione delle ossa” e la produzione di fertilizzanti.
Alle attività protoindustriali connesse alla lavorazione dei prodotti della terra, alle macine ed ai mulini, si vanno dunque sostituendo i segni dell’industrializzazione. Una prima fase – che verrà completata con l’insediamento immediatamente successivo di grandi complessi metallurgici – d’un processo di stratificazione del paesaggio industriale che, da una parte, cancellerà lentamente, ma inesorabilmente, il preesistente paesaggio e, dall’altro, instaurerà nuove relazioni e nuovi rapporti con i canali d’acqua, marcandone indelebilmente presente e futuro.
Nei decenni centrali del secondo Ottocento, gli insediamenti industriali di questa parte della città intessono un panorama sempre più punteggiato da piccoli laboratori ed opifici di medie dimensioni. Esempio di una raggiunta innovazione é la filanda di Fiumicello di proprietà dei fratelli Ernesto e Ferdinando Sega, passata poi ad un loro agente, che occupa decine di operaie. Vi è un’altra filanda poco distante, posta fra via Sebino e via Milano, fondata sul Bova dal citato industriale svizzero Giangiacomo Baebler intorno alla metà dell’Ottocento, poi passata in gestione verso la fine del secolo a Luigi ed Aribaldo Valerio, già proprietari di una tessitura nel comune di Adro, che ne mutano il nome in “Manifattura Valerio”, proseguendone l’attività sino oltre il secondo dopoguerra.
Anche il piccolo laboratorio per la fabbricazione di “zolfanelli e cerini” di Giuseppe Antonio Serini (1784-1865) e del figlio Girolamo (1824-1887), in via Milano n. 7 alla “fermata del tram a cavalli”, è emblema di modernità. I Serini maturano la propria esperienza industriale mutuandola dalla tradizione familiare di “fabbricanti di fuochi artificiali, globi luminosi, aerostatici e torce a vento”, avviando un profondo processo di rinnovamento produttivo. Proprio la ditta Serini, dopo aver acquistato una striscia di terreno adiacente al fiume Garzetta ed un piccolo fabbricato adibito a magazzino e deposito di attrezzi agricoli, modifica la costruzione esistente collegandola mediante un ponticello alla strada conducente alla fabbrica, adibendola a mescita di vino e liquori denominata “Belvedere”e facendone un centro ricreativo aziendale ante litteram.
In questi anni è da segnalare la presenza dello “Stabilimento in campo Fiera, fuori porta Milano” della Società Anonima Bresciana pel Commercio di materie fertilizzanti, presieduta da Luigi Cottinelli e fra i cui consiglieri compaiono i nomi di Giovanni Ghirardi (fra i fondatori del Comizio Agrario Bresciano) e dell’industriale Francesco Rovetta. La società ha depositi e laboratori di trasformazione posti a lato del mercato di Campo Fiera, con una agenzia agraria sita nel centro di Brescia, in piazza del Vescovado. Aziende da tempo scomparse o mutate nella ragione sociale, come svaniti sono i prodotti che qui venivano fabbricati per i consumi dell’età ottocentesca che, in realtà, giungono ben addentro al ventesimo secolo, nell’intreccio non sempre sciolto fra artigianato, produzione di serie e utilizzi diversi dei canali d’acqua che scorrono accanto.
Diverse sono pure le officine meccaniche e per la lavorazione dei metalli, che a cavallo dell’unità d’Italia avviano la propria produzione grazie alla presenza del Bova o del Fiume Grande. Si segnalano, per esempio, l’antica ditta di Ottavio Almici, conducente un maglio lungo le acque del Fiume Grande, accanto alla quale si insedia più tardi la ditta di Giuseppe Guarneri (1830-1894), “officina meccanica per la costruzione di macchine agricole in Brescia S. Giovanni”, una fra le prime in città ad occuparsi della fabbricazione di strumenti per l’agricoltura ed in grado di riscuotere numerosi riconoscimenti, continuata poi dal figlio Angelo.
Ancora, da segnalare è la piccola fucina di Rinaldo Luzzini (1863-1926), aperta nel febbraio 1897 e che conoscerà dopo qualche anno un discreto sviluppo come officina meccanica, anche grazie al brevetto di un macchinario per il taglio e la modellatura dei turaccioli. Vi è pure, sempre sul Fiume Grande, il laboratorio del lattoniere Angelo Tempini “fuori Porta Milano”, già reduce delle patrie battaglie d’indipendenza del Risorgimento, accanto a cui crescono i figli Enrico e Giovanni: quest’ultimo grande parte avrà, come vedremo, nella storia industriale cittadina e nazionale.
Piccoli laboratori che, nel caso di un’altra azienda, trovano però la strada della trasformazione in vera e propria industria. Si tratta dell’officina di costruzioni meccaniche, dotata di fonderia di ghisa e bronzo, “Ceschina, Busi & C.”, che nell’anno 1863 soppianta il citato maglio di Ottavio Almici. Un’impresa che giunge ad occupare ben presto oltre 200 addetti, legandosi alla produzione di macchine per lavorazioni alimentari, fornita di laboratori che si estendono sino a coprire un’area di circa 7.000 mq, con macchinari alimentati dalle acque del Fiume Grande.
La forza motrice di circa 20 Cv, è infatti “fornita da grande ruota idraulica costruita nello stesso stabilimento ed animata dall’acqua del Fiume Grande”: essa permette alla fonderia dell’opificio la lavorazione di circa 600 tonnellate di ghisa l’anno – in gran parte d’importazione dai mercati stranieri – da cui escono aratri, ferri da stiro, fanali per l’illuminazione e “getti diversi per l’agricoltura”. La ditta si insedia stabilmente al primo posto fra i costruttori nazionali di macchine per pastifici, con un mercato che raggiunge 260 fabbriche italiane ed un export orientato verso i paesi europei, il Brasile e l’Africa settentrionale.
Unità nazionale e divisioni di derivazione
La costituzione dello Stato unitario e l’affermarsi di un ceto di governo, nel 1860, in grado di elaborare una veduta d’insieme dei caratteri e dei problemi del territorio non ebbe in realtà, per alcuni decenni, effetto alcuno sulle geografie della rete di canali. Nella legge generale relativa alle opere pubbliche varata il 20 marzo 1865, la questione legata alle risorse irrigue ed alle operazioni di derivazione delle acque non trovò alcuna considerazione legislativa.
L’art. 427 del Codice civile stabiliva solamente come facenti parte del Demanio pubblico fiumi e torrenti, senza distinguere se fossero navigabili o utilizzabili per altri scopi. Suppliva in qualche misura l’azione svolta dal regolamento contenuto sempre nel Codice civile, desunto in massima parte dalla legislazione piemontese. Esso dava disposizioni in proposito alle acque private, e costituiva un più moderno quadro di riferimento rispetto alla legislazione austriaca. Soprattutto l’art. 544 orientava la filosofia di fondo delle norme unitarie: se da un lato, infatti, l’acqua restava un bene naturale “che il diritto non può lasciare all’arbitrio individuale alla sua utilizzazione”, dall’altro si poteva continuare a considerare i corsi d’acqua non demaniali quali beni e proprietà privati.
Insomma, acque a scopi irrigui, rogge per alimentare ruote, opere di canalizzazione venivano considerati materia da lasciare alla libera iniziativa dei privati, secondo i principi ispiratori dell’ideologia liberale propri del ceto politico di governo. Del resto, le risorse prodotte e insediate sul territorio erano ancora assai lontane dall’essere considerate un bene pubblico, sul cui utilizzo e destino così rilevante ancora non appariva l’interesse e la vigilanza dello stato.
E’ con la legge promulgata il 29 maggio 1873 che i primi segni di un interesse pubblico, e di un atteggiamento di promozione, timidamente si manifestano. L’art. 11 della legge, relativamente ai Consorzi d’irrigazione dispone che i Consorzi esistenti siano conservati e che tanto nell’esecuzione quanto nella manutenzione delle opere continuino a procedere con osservanza dei loro Regolamenti o Statuti. Fra gli incentivi, per la verità solo il segno di buona volontà, compare l’esenzione dalla tassa di registro per gli atti costitutivi dei Consorzi e l’esenzione, della durata di trent’anni, dell’imposta fondiaria sugli incrementi di rendita prodotti dall’irrigazione.
Anche le iniziative più sensibili al rilievo pubblico dei problemi delle reti di canalizzazione, come la legge del 25 dicembre 1883, confluita poi nel Testo unico del 28 febbraio 1886, destinato a orientare l’intervento pubblico per tutto il resto del secolo, ebbero un’efficacia molto limitata. Esse miravano a favorire la costituzione di consorzi volontari dei proprietari di fondi e prevedevano un assai contenuto concorso della finanza pubblica. Un intervento scandito in trenta annualità, per un importo percentuale che nel primo decennio toccava il 3% del capitale necessario secondo il preventivo dei lavori, nel secondo decennio il 2%, nel terzo, infine, l’1%.
Anche a Brescia era ormai chiaro che non si poteva considerare l’idea di una moderna agricoltura senza un alto dominio e un preciso intervento tecnico sul territorio. E che non era possibile avviare ed esercitare tecniche agronomiche prescindendo da una larga e preliminare veduta d’insieme della destinazione dell’acqua a precise aree, né al di fuori di un disegno concertato che prevedesse, assieme alle possibili estensioni delle ramificazioni artificiali, soprattutto una esatta, misurabile, efficace capacità di estrazione delle acque dal Mella.
Al tempo stesso si stavano vivendo stagioni che imponevano, affinché il sistema delle canalizzazioni potesse continuare ad essere sostenuto e governato, l’utilizzo di nuove forme di organamento della rete. Servivano strumenti istituzionali rinnovati per una nuova “concentrazione” di interessi ormai tanto estesi da coincidere con gli interessi comunitari. Gli antichi Consorzi erano chiamati così a divenire rinnovata leva politica e finanziaria per il rimodellamento del territorio e, insieme, per l’inglobamento e la gestione ordinaria del corso dei canali entro le logiche e i progetti di sviluppo urbano, mutamento economico e sostenibilità economica.
Nel caso delle derivazioni del Mella doveva essere il potere locale, esattamente il Comune di Brescia, a dover svolgere una decisiva opera di incentivazione e di raccordo delle forze sociali rappresentate dall’utenza e dai loro Consorzi, assumendo direttamente iniziative finalizzate a coagulare interessi e diritti diversificati entro un itinerario condiviso, concentrando energie di lavoro e sforzi finanziari intorno al tema di sempre: l’ottimizzazione dell’utilizzo di una risorsa sempre più preziosa. Ma bisognerà attendere ancora diversi anni per intravedere una definitiva riorganizzazione consorziale, che porterà alla pianificazione di un’unica derivazione dal fiume Mella, in sostituzione delle diverse bocche che, per numerosi secoli, avevano consentito – ma non sempre garantito – il trasporto delle acque dentro la città e nei suoi sobborghi.
Canali o fognature?
In città ancora nel secondo Ottocento non vi è traccia di una pur minima rete fognaria. Un primo tentativo di avvio per la realizzazione di un sistema di fognatura viene promosso con la presentazione, nell’anno 1874, di un progetto che prevede la raccolta degli scarichi delle acque piovane e degli scarichi liquidi di cucine ed acquai domestici. Una soluzione che lasciava però ai pozzi neri perdenti dei singoli immobili il compito di raccolta, ed ai canali e rogge urbane quello di smaltimento dei liquami neri.
La nuova fognatura doveva transitare da via Battaglie a Via Pace, scendere lungo Corso Palestro, Zanardelli e via Magenta, per giungere in Spalti San Marco, disperdendo il liquido raccolto in alcune rogge e vasi minori per l’irrigazione della campagna. Un’ipotesi progettuale razionale e ben studiata, che resterà sulla carta per decenni, anche se il tema continuerà ad “appassionare” gli amministratori municipali e l’opinione pubblica più attenta all’igiene ed alla salute della cittadinanza.
Le latrine delle case scaricano sempre in pozzi neri e solamente alcuni canali che attraversano il centro fungono da fogne a cielo aperto. Sono, queste ultime, situazioni del tutto eccezionali, come si scrive nel 1884:
“Grazie alla congiunzione dei piccoli fiumi Bova e Celato, il sistema di fognatura di contrada Rossovera, in via ordinaria, corrisponde meno insufficientemente allo scopo. /…/ Gli è naturale che trovandosi in questa regione maggiore l’afflusso dell’acqua, le materie sieno anche maggiormente sommerse e più forte debba corrispondere la loro forza travolgente. A ciò devonsi addebitare le poco rimarchevoli emanazioni putride di questa regione. L’abbondanza dell’acqua serve ad una efficace spazzatura, ed anco ne’ giorni di incipiente siccità, l’elemento acqueo detersore delle materie stercoracee vi si trova in sufficiente quantità; di qui la ragione delle mancate emanazioni putride”.
Per il momento le nuove quantità di acque di scarico, unitamente al liquido già presente nei canali cittadini, potevano far pensare ad un efficiente sistema di veicolazione degli scarichi secondo il sistema della canalizzazione nella rete idrica esistente, portando la “ricchezza” dei liquami cittadini alla campagna circostante.
Così la municipalità, alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, sceglie l’idea di eliminare progressivamente tutti i pozzi neri, affidandosi per ogni scarico fognario ad una apposita rete. Una decisione rimasta anch’essa senza seguito per decenni, proprio nelle stesse stagioni in cui Torino – prima città italiana – si dotava di una doppia rete canalizzata, per acque nere ed acque piovane.
Il tema della rete fognaria nell’ultimo ventennio dell’Ottocento bresciano diviene oggetto di ampi dibattiti fra igienisti, amministratori e tecnici, concordi nel ritenere necessaria l’attenta preservazione delle acque potabili da ogni infiltrazione di liquami e, dunque, la possibilità di una rapida evacuazione di ogni refluo. Semmai, le divergenze vertevano sulla realizzazione di una nuova rete fognaria fissa o l’utilizzo dei canali già esistenti, e, a sua volta, se questi ultimi erano da utilizzare per l’intero materiale fognario o per le sole acque piovane, mantenendo pozzi statici a disperdimento, con lo spurgo razionale e continuo dei liquami più rischiosi espulsi dalle case e dalle latrine.
L’approccio al tema è, dunque, per l’Amministrazione locale, non più rinviabile, soprattutto sotto la spinta della vivace crescita demografica proprio nel centro città, dove l’inesistenza della campagna e dei fossi a cielo aperto non consentiva scarichi nel suburbio, pratica ritenuta ancora di naturale efficacia ed utilità. Così la municipalità, prima dello scoccare del nuovo XX secolo, affida al proprio ingegnere capo Cosimo Canovetti un ennesimo, quanto preliminare, studio della rete. Utilizzando i canali Bova e Celato (con l’alveo cementato) quali principali collettori, il sistema si doveva ramificare sia attraverso l’uso di altri storici canali minori, sia con una serie di tubature sempre in cemento, raccogliendo unitariamente le acque piovane e gli scarichi domestici. Il materiale raccolto andava quindi a raggiungere il Garza, completamente coperto, scaricando successivamente il tutto nelle campagne poste a sud della linea ferroviaria Milano – Venezia.
Il nuovo progetto arrivava proprio quando la città era pronta per spiccare il grande balzo demografico, passando dai 70.600 abitanti del censimento 1901, agli 83.300 del 1911 (superando la soglia dei 100.000 abitanti nel 1920). Una crescita che imponeva il rapido ricorso a nuove infrastrutture e più ampi servizi. L’iniziativa ebbe anche un timido avvio con alcuni lavori condotti lungo un brano del Bova, ma che si arenò quasi subito per le molte proteste levate dai consorzi irrigui gestori delle acque dei canali stessi e dei proprietari delle 13 ruote idrauliche poste su di essi, di cui era prevista l’eliminazione.
Le rinnovate Compartite del Fiume Grande
Nel giugno del 1886 l’Università del Fiume Grande di Brescia decide di modificare anch’essa il proprio Statuto. Il Consorzio è presieduto dall’industriale Gaetano Facchi e la sua delegazione è interamente composta da altri imprenditori come Antonio Austoni, Gaspare Hosly, Carlo Bontempi, Vincenzo Ceschina e con Cancelliere l’ing. Federico Ravelli. Del resto, come noto, le acque del Fiume Grande, fatto salvo il diritto di concentrazione del Comune di Brescia, sono destinate “all’eminente scopo di animare mulini od altri opifici, affinché sia sempre assicurato almeno il giro di una ruota di ogni opificio”.
Le sue utenze, presso la frazione di S. Bartolomeo, a quella data erano così elencate:
1. Galbiati ad Austoni ditta di Brescia tessitura meccanica di cotone.
2. Dallera Enrico fu Giuseppe per 1/3 l’opificio ad uso macina di pietra calcare, Franzini Giuseppe fu Gaetano per 2/3 l’opificio ad uso conceria pellami.
3. Orizio Giuseppe fu Angelo, per l’opificio ad uso maglio da ferro e follo per pulitura coperte di lana.
4. Oliveri Giovanni e Tommaso fu Antonio, per l’opificio ad uso maglio da rame.
5. Borghetti Giulia fu Luigi ved. Borghetti, per l’opificio ad uso maglio da rame.
6. Carli Luigi fu Giovanni, per l’opificio ad uso molino da grano.
7. Bontempi Carlo fu Francesco, per l’opificio ad uso conceria pellami.
8. Bina Antonio fu Orlando, per l’opificio ad uso conceria pellami.
9. Bertolotti Giovanni e Marietta fu Giovan Battista, per l’opificio ad uso molino da grano.
10. Franchi Gaetano, Pietro, Carlo e Faustino – Romolo fu Attilio per l’opificio ad uso filatoio e filanda.
11. Facchini Giuseppe fu Ferdinando, per l’opificio ad uso conceria pellami.
12. Cottinelli Marianna fu Vincenzo, amministrati da Cottinelli Luigi, per l’opificio ad uso follo pelli e macina cirosso.
13. Hosly Gaspare fu Federico, per l’opificio ad uso macina cortecce.
14. Falsina Davide fu Filippo, per l’opificio ad uso conceria pellami.
15. Abeni Giuseppe, Luigi, Agostina, Camilla, Giulietta e Regina fu Giambattista, maglio da ferro.
Nella frazione di Fiumicello erano segnalate le utenze:
16. Borghetti Giulia fu Luigi usufruttaria dell’intero, e figlio Borghetti Giovanni fu Bernardo proprietario.
17. Galetti Giuseppe fu Lodovico, Galetti Lodovico fu Giovanni e Antonelli Teresa fu Lorenzo vedova Galetti, per l’opificio ad uso maglio da ferro.
18. Ceschina Antonio, Luigi, Enrico ed ing. Vincenzo fu Francesco e Busi Giuseppe fu Angelo, per l’opificio ad uso fonderia.
19. Torri avv. Alessandro, fu Giambattista e Caligari Paolina fu Paolo maritata Torri e nascituri maschi di quest’ultima, per l’opificio ad uso conceria pellami.
20. Rovetta Dr. Roberto fu Domenico, per l’opificio ad uso molino da grano.
21. Cavaglieri Isidoro e Giuseppe fu Pietro, macina con pila per fabbrica terraglie.
È la Brescia della rivoluzione industriale che si affaccia al Novecento.