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B. Commoner, Il cerchio da chiudere. Nuova edizione

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Il libro che viene ora ripresentato ai lettori italiani, a quasi quindici anni dalla sua prima pubblicazione (l’edizione originale americana uscì nel settembre 1971; la prima traduzione italiana fu pubblicata da Garzanti nel 1973), fu scritto in un momento di straordinario interesse ed ebbe grande influenza sulle idee che hanno ispirato e ispirano la contestazione ecologica.
L’ecologia aveva fatto la sua uscita pubblica, in tutti i paesi del mondo, nell’aprile 1970 con il lancio dell’Earth Day, la «Giornata della Terra»1Nella «Giornata della Terra», il 23 aprile 1970, la Federazione delle Associazioni scientifiche e tecniche (FAST) di Milano tenne a Milano un convegno internazionale. Si veda “L’uomo e l’ambiente”, a cura di G. Nebbia, Milano, Tamburini, 1971. Il Consiglio d’Europa aveva proclamato il 1970 «Anno europeo della conservazione della natura» e le Nazioni unite avevano annunciato, per il giugno 1972, una grande conferenza mondiale sull’ambiente umano. Per molti mesi, i grandi mezzi di comunicazione scoprirono l’ecologia nei suoi vari aspetti, da quelli pittoreschi a quelli rivoluzionari. «Scienza sovversiva», fu chiamata allora da qualcuno2“The subversive science”, a cura di P. Shepard e D. MacKinley, New York, Houghton Mifflin, New York 1969.
A dir la verità, la parola ecologia era stata inventata un secolo prima, e precisamente nel 1866, dal biologo tedesco Ernst Haeckel (1834-1919)3Sul primo uso della parola «ecologia» si vedano: G. Nebbia, “Ecologia ed economia”, Giornale degli economisti e annali di economia, N.S., 32, luglio-agosto 1973, pp. 435-455; G. Nebbia, “Origins of ecology”, Nature, CCLXXV, settembre 1978che, nel divulgare le scoperte di Darwin, aveva suggerito la necessità di una disciplina autonoma rivolta alla descrizione dell’influenza che l’ambiente esercita sugli esseri viventi. Tale disciplina avrebbe dovuto descrivere sia gli scambi di materia e di energia fra gli esseri viventi e l’atmosfera, l’acqua, il mare, il terreno, sia gli scambi degli esseri viventi tra di loro, uniti da catene e reti alimentari. Non a caso Haeckel definì l’ecologia «economia della natura».
Effettivamente fra la fine dell’Ottocento scorso e l’inizio del Novecento, una “scienza dell’ecologia si è sviluppata nel mondo, attraverso l’istituzione di cattedre universitarie e la pubblicazione di libri e di riviste scientifiche, ma non ha trovato riscontro nel pubblico fino a quando le conoscenze ecologiche non sono state utilizzate (spesso da studiosi non ecologi) per spiegare e denunciare eventi e fenomeni negativi, come l’inquinamento, la degradazione dei boschi, l’erosione del suolo ecc.
Motivo della prima contestazione ecologica, che già vide in prima linea Commoner come biologo, furono le esplosioni nell’atmosfera delle bombe nucleari, fonti di inquinamento radioattivo dell’intero pianeta. Dopo la fine della II guerra mondiale, nel 1945, già nel 1947 gli esperimenti nucleari nell’atmosfera erano ricominciati e si erano susseguiti a un ritmo tale da provocare un aumento significativo della concentrazione dei prodotti radioattivi della fissione nucleare nell’atmosfera.
Il 21 marzo 1954, durante un esperimento americano nel Pacifico, alcuni pescatori giapponesi a bordo di un battello (chiamato, per ironia della sorte “Drago Fortunato”) che si trovava a 120 km dal poligono di tiro, vennero contaminati dalla ricaduta di prodotti radioattivi. Era ancora molto vivo il ricordo di Hiroshima e Nagasaki, e il caso del «Drago fortunato» fece il giro del mondo. Tutto il mondo seppe così che le esplosioni nucleari davano luogo alla formazione di isotopi radioattivi a lunga vita che, depositandosi sul terreno e sul mare, venivano assorbiti dai vegetali, dagli animali e infine dall’uomo.
Il cesio e lo stronzio radioattivi sono i frammenti più pericolosi della fissione nucleare, sia perché rimangono attivi per decenni, sia perché chimicamente si comportano, rispettivamente, come il sodio e come il calcio, elementi base della vita. In seguito agli esperimenti nucleari degli anni Cinquanta, tutti gli esseri umani assorbirono nel loro organismo cesio, stronzio e iodio radioattivi.
Nel 1958 un gruppo di scienziati, fra cui Commoner, allo scopo di informare il pubblico, si fece promotore di un notiziario, «Nuclear Information» (divenuto nel 1964 «Scientist and Citizen», giornale che, a sua volta, nel 1969 si trasformò nella rivista «Environment»). Come risultato immediato del coinvolgimento dell’opinione pubblica si ottenne una sospensione delle esplosioni nucleari, la prima moratoria, dal 1958 al 1961. Dopo la crisi cubana del 1962, le esplosioni nell’atmosfera ripresero fino all’estate 1963, quando Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna firmarono il trattato che vieta le esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera.
Con ragione Commoner (capitolo 3, L’incendio nucleare) considera questa la prima vittoria del movimento ecologico e la dimostrazione della validità della protesta e della mobilitazione pubblica. Lo studio dell’inquinamento causato dalle esplosioni nucleari spinse gli scienziati ad approfondire le conoscenze sulla circolazione della materia e dell’energia negli ecosistemi. Furono perfezionati i metodi di indagine, e si scoprì che il «progresso» tecnico sempre più rapido stava provocando l’immissione nei cicli naturali di molte altre sostanze estranee e nocive.
Albert Schweitzer (1875-1965), premio Nobel per la pace nel 1952, scrisse in quegli anni: «L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra».
Ancora negli anni cinquanta del Novecento, Rachel Carson (1907-1964), biologa al Ministero dell’agricoltura degli Stati Uniti, denunciò l’uso indiscriminato degli insetticidi clorurati persistenti e non biodegradabili – soprattutto DDT -, responsabili di effetti tossici su molte forme di vita. Il suo libro “Primavera silenziosa”, pubblicato nel 1962 e tradotto in italiano nel 1963, ebbe una grandissima influenza su un nuovo modo di guardare il «progresso»4R. Carson, “Silent spring”, New York, Ballantine, 1962 (trad. it., “Primavera silenziosa”, Milano, Feltrinelli, 1963).
Gli insetticidi, per anni salutati come il successo della «chimica», se avevano fatto diminuire le morti per malaria e salvato molti raccolti, stavano anche contaminando e alterando le catene alimentari. La Carson venne denunciata come terrorista ecologica dai produttori di pesticidi che vedevano in pericolo i loro affari. Il pericolo dei pesticidi clorurati era però più che fondato, tanto che l’uso del DDT è stato vietato in moltissimi paesi e sono stati messi a punto nuovi metodi e nuove sostanze per la lotta antiparassitaria.
Mentre la polemica investiva gli effetti ecologici delle esplosioni nucleari nell’atmosfera, le industrie inglesi e americane – quelle stesse che collaboravano alla produzione delle bombe atomiche – dedicavano la loro esperienza alla costruzione di centrali nucleari (la prima entrò in funzione nel 1957) con norme di qualità e di sicurezza molto scadenti. L’industria e gli enti nucleari si avviarono quindi, con baldanza e euforia, sulla strada di un’energia propagandata come infinita e quasi gratuita. Ben presto si verificarono i primi incidenti e i primi guasti, e alcuni scienziati denunciarono che le centrali nucleari provocavano una contaminazione radioattiva dell’ambiente anche quando funzionavano «normalmente»; in caso di gravi incidenti, poi, la fuoriuscita di radioattività avrebbe avuto effetti catastrofici. Finalmente, nel 1971 J.W. Gofman (1918-2007) e A.R. Tamplin pubblicarono un libro che fu determinante nel sollevare l’opinione pubblica contro la nuova tecnologia5J.W. Gofman e A.R. Tamplin, “Population control through nuclear pollution”, Chicago, Nelson-Hall, 1970.
Dopo lunghi tentennamenti gli enti nucleari furono costretti a imporre norme di sicurezza più severe e più costose, tanto che il sogno dell’elettricità a basso costo cominciò a svanire. La preoccupazione per il futuro del pianeta fu espressa bene, intorno al 1966, con l’immagine della Terra simile a una navicella spaziale (Spaceship Earth)6La suggestiva immagine della Terra come navicella spaziale è stata presentata da Adlai Stevenson nel discorso tenuto a Ginevra al Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite il 9 luglio 1965 e ripresa poco dopo da Barbara Ward, “Spaceship Earth”, New York, Columbia University Press, 1966, e da Kenneth Boulding, “The economics of coming Spaceship Earth”, in: “Environmental quality in a growing economy”, a cura di H. Jarrett, Baltimore, Johns Hopkins Press, 1966, pp. 3-14: come in una nave spaziale, anche sulla Terra esiste una riserva limitata di risorse naturali e i rifiuti restano all’interno dello stesso pianeta. L’illusione della «crescita» della popolazione, delle merci, del denaro, si traduce in un impoverimento delle risorse naturali e in una degradazione dell’ambiente7B. Commoner, “Science and survival”, New York, Viking Press, 1966.
La contestazione «ecologica» – contro l’inquinamento dei mari, l’inquinamento dell’aria dovuto ai camini industriali e alle automobili, l’inquinamento del suolo dovuto ai rifiuti solidi, la scomparsa degli animali e delle foreste – ebbe un ruolo importante nella ribellione degli anni Sessanta contro la «crescita» assurta a forma maniacale (growthmania). Apparve allora che il possesso di beni materiali, macchine, denaro, non ha niente a che vedere con il benessere, la giustizia, la felicità. Il fatto che le società avanzate misurino il progresso attraverso l’aumento del prodotto interno lordo (PIL, l’indicatore monetario non a caso «inventato» dall’economista Colin Clark (1905-1989), uno dei critici della contestazione ecologica, secondo il quale la Terra può sfamare quaranta miliardi di persone) implica che si progredisce nello sviluppo soltanto producendo e consumando più merci, e pertanto sfruttando sempre più le foreste, le miniere, il suolo, le acque, e sporcando sempre più i fiumi, l’aria, i mari8C. Clark, “Population growth and land use”, London, Macmillan, 1967; C. Clark, “Starvation or plenty ?”, London, Secker and Warburg, Londra 1970; C. Clark, “Popolazione e sviluppo”, Rivista di politica economica, LXIII, marzo 1973, pp. 307-322. Ma con lo sfruttamento e l’inquinamento (la violenza contro la natura e le sue risorse) cresce la disuguaglianza fra i popoli sfruttatori e quelli sfruttati, aumentano le tensioni internazionali per la conquista delle risorse naturali, energetiche e minerali, che comportano conflitti e crisi economiche.

La natura è l’unica a sapere il fatto suo

In questa atmosfera arroventata, Commoner pubblicò un libro – “Il cerchio da chiudere” di cui questa è un’edizione aggiornata – che parte da una tesi elementare e incontestabile. La natura funziona con cicli chiusi: il ciclo dell’acqua, dell’ossigeno, del carbonio, dell’azoto, del fosforo. Le trasformazioni naturali sono alimentate dall’energia del Sole, la materia rientra sempre in ciclo e viene riutilizzata. La natura non conosce rifiuti: le sostanze chimiche estratte dall’aria, dall’acqua, dal terreno, ritornano in circolazione e ridiventano materie prime per altri cicli naturali. La degradazione ambientale e gli inquinamenti provocano rottura dei cicli naturali che da chiusi si fanno aperti, dalle riserve viene estratta più materia di quanta non venga restituita, i rifiuti aumentano in misura tale che la natura non riesce ad assimilarli tutti. La salvezza è possibile soltanto se interventi urgenti, tecnico-scientifici e politici, riescono di nuovo a «chiudere» i cicli naturali, il cerchio della natura.
Il lavoro da intraprendere è molto e il tempo è poco. La società industriale negli ultimi due secoli ha prodotto merci violando continuamente le leggi naturali; detriti e scorie sono stati scaricati nell’aria, nei fiumi e nel mare, avvelenando gli esseri viventi, alterando e rompendo le catene alimentari; per ragioni «economiche» sono stati fabbricati materiali quali plastiche, detergenti, insetticidi ecc., estranei ai cicli naturali e pertanto non biodegradabili, indistruttibili per decenni e spesso tossici. La crisi – e la difficoltà dei rimedi – deriva anche dal fatto che la natura ha richiesto tempi lunghissimi, milioni di secoli, per sviluppare e perfezionare i suoi cicli, mentre all’uomo sono bastati meno di due secoli per rompere tali cicli. Nei due secoli della rivoluzione industriale sono state estratte e bruciate riserve di carbone e idrocarburi che la natura aveva «fabbricato» e immagazzinato nel corso di un milione di secoli, trasformando lentamente i vegetali i quali, altrettanto lentamente, si erano formati utilizzando l’anidride carbonica atmosferica.
Non c’è da meravigliarsi che la rapidissima combustione di questi materiali comporti un aumento della concentrazione dell’anidride carbonica atmosferica, con conseguenze climatiche imprevedibili. A questo si aggiunge che, dal 1950 in avanti, la popolazione mondiale è andata aumentando al ritmo di circa 80 milioni di persone all’anno ! In quei primi anni del dibattito ecologico molti studiosi sostenevano che il degrado ambientale dipende dal fatto che gli individui sulla Terra sono «troppi» e che la salvezza andava cercata, prima di tutto, nella limitazione delle nascite e della popolazione. Commoner nel suo libro sostiene che la rottura dei cicli naturali, che si manifesta sotto forma di impoverimento delle scorte di risorse e sotto forma di inquinamento, non dipende – o non dipende soltanto – dal fatto che siamo in troppi sulla Terra, ma dipende dalle regole economiche correnti. Nel nome del guadagno, del profitto, esse hanno spinto a fabbricare e a usare prodotti estranei alla natura o tossici; a scaricare al minimo costo possibile e in spazi ristretti, sostanze tossiche, oppure quantità eccessive di sostanze anche non tossiche. Commoner presentò i rapporti tra popolazione, risorse e ambiente sotto forma di una semplice equazione9B. Commoner, “Il costo ambientale dello sviluppo economico”, Ecologia”, II, luglio 1972, pp. 3-17; G. Nebbia, “Popolazione-consumi-tecnologia”, Ecologia, II, novembre 1972, pp. 39-41secondo cui l’intensità degli effetti negativi sull’ambiente, è proporzionale al numero di individui e alla quantità e qualità di merci e servizi prodotti:

I = P x A x T

dove I è la quantità di inquinamento (in un’unità di misura qualsiasi, per esempio in kilogrammi di sostanze inquinanti all’anno), P è il numero di persone, A è la quantità annua di merci e servizi per persona (espressa, per esempio, in kilogrammi di merce o in numero di automobili, o in kilometri percorsi ecc.: secondo Commoner questa grandezza è una misura del grado di ricchezza) e T è la quantità di inquinamento per unità di merce o di servizi prodotti e consumati, sempre in unità di misura omogenee con quelle di I e di A (Commoner chiama questa grandezza “fattore tecnologico»).
Per far diminuire la degradazione dell’ambiente (se ci si vuole muovere verso la «chiusura» dei cicli della natura) è possibile sia intervenire separatamente su ciascuno dei tre parametri P, A e T, sia intervenire su tutti insieme. Si può cercare, per esempio, di far diminuire la popolazione – o almeno di rallentarne il tasso di crescita – oppure si può agire sulla tecnica di produzione e sui modi di consumo per ridurre l’intensità dell’inquinamento.
Quando apparve la prima edizione di questo libro di Commoner, nei paesi industriali era in corso un vivace dibattito sui problemi della popolazione. Un vasto movimento, soprattutto nei paesi anglosassoni, auspicava un tasso zero di aumento della popolazione (Zero Population Growth) come «la soluzione» per i problemi di degradazione dell’ambiente e di eccessivo sfruttamento delle risorse naturali. Il libro di P. Ehrlich, “La bomba della popolazione”10P. Ehrlich, “The population bomb”, New York, Ballantine, 1966, era apparso nel 1966.
L’uso di mezzi anche drastici come la sterilizzazione e l’aborto per regolare le nascite era contestato (anche se per motivi ideologici differenti) sia dal mondo cattolico sia da quello comunista con argomentazioni a volte assurde (le più comuni affermavano che le risorse della Terra sono inesauribili, oppure che la tecnica e la politica risolvono tutti i problemi). Occorreva però notare che i diversi popoli hanno effetti e pesi molto differenti sull’ambiente: un bambino americano (o europeo, fa poca differenza) nel corso della sua vita consuma una quantità di risorse naturali e di merci e inquina il pianeta come cinquanta bambini indiani o africani. È quindi senza dubbio necessario intervenire per rallentare il tasso di crescita della popolazione mondiale, ma è ancora più urgente intervenire sui consumi e le tecnologie dei paesi ricchi, riconosce Commoner e suggerisce, esemplificando, alcune modifiche tecniche e merceologiche in grado di attenuare la rottura dei cicli naturali. L’efficacia di tali modifiche presuppone la possibilità di misurare il valore delle merci in unità diverse da quelle monetarie, del tutto insoddisfacenti ai fini ecologici.
Il fattore tecnologico T, di cui parla Commoner, suggerisce nuovi indicatori della qualità delle merci e dei servizi, come il costo in risorse naturali, il costo ambientale, il costo energetico11Per una breve storia del concetto di «costo energetico» delle merci cfr. la prefazione di G. Nebbia a P. Chapman, “Il paradiso dell’energia. Introduzione all’analisi energetica”, Milano, CLUP-CLUED, 1982, pp. 7-22. Hanno maggior «valore» le merci che, indipendentemente dal costo monetario, richiedono meno materie prime non rinnovabili, generano una minore quantità di scorie estranee alla natura nelle fasi di produzione e di «consumo», sono meglio riciclabili dopo l’uso.
Le materie prime di origine agricola hanno un costo energetico inferiore a quello delle materie sintetiche, perché una parte dell’energia viene loro fornita gratuitamente dal Sole attraverso la fotosintesi clorofilliana, e non è quindi necessario ricorrere a risorse scarse e non rinnovabili – carbone, petrolio – come nel caso delle materie plastiche, delle fibre e delle gomme sintetiche. Così le fibre tessili naturali sono preferibili a quelle sintetiche per il minore costo energetico; le materie plastiche sono indesiderabili per il loro alto costo energetico e per l’inquinamento che provocano nella fase di smaltimento, essendo non biodegradabili, estranee alla natura; i detersivi sintetici sono anch’essi fonti di inquinamento molto più del tradizionale sapone.
I cicli naturali possono essere alterati e rotti non soltanto contaminando o avvelenando gli esseri viventi con sostanze estranee o tossiche, ma anche accelerando i processi vitali. L’uso eccessivo di concimi azotati o fosfatici, o di detergenti contenenti fosforo, favorisce i fabbricanti di questi prodotti ma provoca l’immissione nei laghi e nel mare di un eccesso di sostanze nutritive (provoca cioè eutrofizzazione) che fa crescere in maniera abnorme le alghe, la cui putrefazione sottrae ossigeno ai corpi idrici e uccide i pesci, rompendo ancora una volta i cicli della natura.

Non si distribuiscono pasti gratuiti

L’analisi di Commoner ha, come conseguenza, un invito a rivedere i modelli dominanti di consumi e di scelte tecniche. Nelle società industriali moderne le imprese sopravvivono soltanto se producono più merci al minor costo possibile e questo comporta ulteriore sfruttamento della natura e maggiore inquinamento.
Il fabbricante di concimi, di detersivi, di materie plastiche o di fibre sintetiche ha il «dovere civile” di vendere di più e trova l’alleanza degli agricoltori, che non hanno nessuna voglia di rimettersi a coltivare la terra usando il letame o a coltivare canapa per togliere dal mercato, nel nome dell’ecologia, le fibre sintetiche. In questa corsa verso la rottura dei cicli naturali il fabbricante si trova a fianco a fianco con lavoratori e consumatori per i quali le merci inquinanti a basso prezzo rappresentano spesso la liberazione da secoli di povertà o di fatica o di scomodità.
Il libro di Commoner ha quindi un contenuto «sovversivo” nei confronti delle regole e delle leggi economiche correnti; e in Italia piacque soprattutto al movimento ecologico di sinistra, che pensava all’ecologia come a uno dei momenti di lotta contro la società dei consumi e dei rifiuti, nella forma imposta dal capitalismo, nel nome del profitto.
È abbastanza curioso che le stesse idee di Commoner siano contenute nelle conclusioni dello studio sulla sopravvivenza dell’umanità, elaborato per conto del Club di Roma, un circolo di persone molto meno «radicali” di Commoner e dei suoi amici. Negli stessi mesi in cui Commoner scriveva il suo libro, uscivano infatti i primi risultati dei «calcoli” che due americani, J.W. Forrrester e D.L. Meadows, stavano facendo per correlare le influenze reciproche della popolazione, della produzione agricola e industriale, dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’inquinamento. Le tanto discusse curve, elaborate dai calcolatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology) e pubblicate nel 1972 nel libro “I limiti dello sviluppo” (ma il titolo originale era, più correttamente, “I limiti alla crescita”), sostanzialmente presentavano in forma grafica i principi indicati da Commoner12D.H. Meadows, D.L. Meadows, l. Randers e W.W. Behrens III, “The limits to growth”, New York, Universe Books, 1972 (traduzione italiana: “I limiti dello sviluppo”, Milano, EST Mondadori, 1972. Se aumenta la popolazione e se aumentano la produzione agricola e industriale, aumentano in proporzione l’impoverimento delle risorse naturali e la degradazione ambientale, fino al punto da provocare carestie, guerre e malattie e decimare quindi una buona parte della popolazione mondiale. Il libro del Club di Roma concludeva, abbastanza grossolanamente, con un invito a fermare la crescita della popolazione, della produzione e dei consumi, ma era reticente sulle cause della degradazione della natura e sui rimedi.
Commoner è invece esplicito nel suggerire regole economiche e rapporti sociali e internazionali del tutto diversi, tali da stabilire e orientare le quantità e il tipo delle merci prodotte, le priorità produttive. Egli dedica il capitolo 12 del suo libro (“Il significato economico dell’ecologia”) alla compatibilità fra sistemi economici e sociali esistenti e la conservazione degli equilibri dei sistemi naturali, cioè la possibilità di «chiudere il cerchio» della natura.
L’attuale sistema è legato ormai a una superproduzione di merci e occorre fare violenza alle regole economiche correnti se si deve imporre alle imprese di spendere di più (cioè di guadagnare di meno) per la depurazione, per il riciclo dei rifiuti, per il cambiamento dei cicli produttivi. In altre parole, per rispettare le regole dell’economia della natura bisogna modificare radicalmente le regole dell’economia del denaro.
Commoner cita le proposte di economisti eterodossi come K.W. Kapp (1910-1976), autore di un libro “I costi sociali dell’impresa”13K.W. Kapp, “The social cost of private enterprise”, New York, Shocken Books, 1971, poco noto in Italia, o come E.F. Schumacher (1911-1977), di cui è stato tradotto con successo in Italia il libro “Piccolo è bello”14E.F.Schumacher, “Small is beautiful. A study of economics as if people mattered”, London, Blond & Briggs, 1973; traduzione italiana: “Piccolo è bello, Una tecnologia dal volto umano”, Milano, Moizzi, 1973; poi Milano, Mondadori, 1978, il manuale di economia scritto, come dice il sottotitolo, «come se la gente contasse qualcosa».

Per chiudere, o per chiudere meglio di quanto accade oggi, il cerchio della natura, bisogna procedere in due direzioni: la ricerca di nuovi indicatori dello sviluppo e la ricerca di nuove linee di produzione e di uso delle merci.
Qualcuno ha suggerito di sostituire il “prodotto interno lordo” con un altro indicatore, il «benessere nazionale lordo»15G. Nebbia, ”Ecologia ed economia”, cit., ma in quali unità questo possa esprimersi nessuno sa dire. La necessità di sostituire il valore monetario delle merci, il valore di scambio, con un altro indicatore, il «valore d’uso», che potrebbe comprendere anche il valore associato a un minore consumo di beni ambientali, era già stata indicata dagli economisti classici e da Marx, ma anche in questo caso nessuno sa (ancora) come vada misurato o espresso il valore d’uso delle merci. Per ridurre la quantità totale di inquinamento, a parità di popolazione e di tecnologia, bisogna, infine, ridurre la quantità totale (a livello mondiale) delle merci prodotte e consumate. Ma gli abitanti della Terra consumano merci in quantità molto differenti e non è pensabile che i poveri accettino di restare poveri (che spesso significa affamati o malati) nel nome dell’ecologia, anche se gli abitanti dei paesi ricchi accettassero di non far aumentare la quantità di merci che essi consumano attualmente.
Per rallentare la quantità di merci prodotte a livello planetario occorrerebbe far aumentare almeno un poco la quantità di beni materiali disponibili nei paesi poveri, ma ciò può essere fatto soltanto diminuendo la quantità di beni materiali consumati dai paesi industrializzati. Per fare un esempio banale: la produzione mondiale di cereali è di circa 1600 miliardi di kilogrammi all’anno (nel 1985; circa 2100 nel 2007); (nel 1985) un miliardo di persone, nei paesi industrializzati, ne consuma circa 800 miliardi di kilogrammi, equivalenti a 800 kg circa a testa all’anno; di questi, 150 kg vengono consumati come pane, pasta, riso e dolci, mentre 650 kg servono per alimentare il bestiame che fornisce un cibo più ricco, la carne. Ai quattro miliardi (sempre nel 1985)di abitanti dei paesi poveri restano a disposizione circa 800 miliardi di kilogrammi di cereali, pari a 200 kg circa a testa all’anno, consumati quasi tutti come pane, riso e focacce di granoturco. Se si aumentasse la disponibilità di cereali dei paesi poveri, anche soltanto a 250 kg a testa all’anno, nei paesi ricchi la disponibilità di cereali dovrebbe, a parità di popolazione e di produzione, diminuire da 800 a 600 kg a testa all’anno, il che significherebbe avere meno carne e meno dolci. Simili squilibri si hanno per tutte le materie prime e per le fonti di energia.
Si può essere certi che, a mano a mano che i paesi poveri si renderanno conto dell’ingiustizia che subiscono nella distribuzione delle ricchezze della Terra, casa comune di tutti, cercheranno di conquistare tali ricchezze provocando una serie di tensioni, guerre, crisi, di cui quelle del petrolio (Medio Oriente), della gomma (sud-est asiatico), del rame (Cile), dello stagno (Bolivia), sono i primi esempi.
“Il cerchio da chiudere” denuncia tutti i problemi – pericoli dell’energia nucleare, corsa agli armamenti, eutrofizzazione, nocività dell’acido nitrilotriacetico, tossicità dei pesticidi, inquinamento dovuto alle automobili, ai fosfati nei detersivi, eccetera – che sono al centro del dibattito ecologico ancora oggi (1986), a quindici anni di distanza. Insomma, abbiamo perso quindici anni e non abbiamo imparato niente. La rottura del cerchio della natura non solo non è stata ridotta, ma si è aggravata. Siamo arrivati a un punto oltre il quale non è forse possibile tornare indietro.
Tale punto potrebbe essere rappresentato da qualche forma di inquinamento globale, o da qualche nuova epidemia ambientale o dalla stessa guerra nucleare i cui effetti secondari – una nube di polveri che filtrerebbe per mesi la luce del Sole, lasciando la Terra immersa in un lungo freddo inverno, senza raccolti, con le acque contaminate dalla radioattività, e i sopravvissuti esposti alla morte per fame, sete, malattie – si presentano una possibilità tutt’altro che remota16Si riferisce al vasto dibattito su un possibile “inverno nucleare”, provocato da uno scambio di bombardamenti atomici, oggetto di studio nella metà degli anni Ottanta del Novecento.

Ci resta poco tempo per cambiare.

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