Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Distribuzione della ricchezza e incremento demografico

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Se vi è errore nel libro di Barry Commoner, esso è costituito dal tito­lo dell’opera (“The closing circe”) il quale si presta, nella sua neutralità dichiarativa, a facili e qualche volta voluti equivoci, sulla reale portata e dimensione del «messaggio» che l’au­tore rivolge al lettore. Se l’opera di Commoner si fosse, ad esempio chia­mata «Impatto ambientale delle strut­ture tecnologiche statunitensi dagli anni quaranta ad oggi» molti degli strali che Ehrlich ed Holdren hanno diretto contro di lui, sarebbero caduti fuori bersaglio.

Infatti Commoner non ignora, come abbiano potuto personalmente verifi­care, l’origine remota dell’impatto uo­mo-natura, ma semplicemente inizia ad esaminarlo e studiarlo nel momento di datazione storica (appunto gli anni 40) in cui egli ritiene abbia preso for­me abnormi.

Lo studio viene in pratica limitato alle strutture produttive-consumistiche degli Stati Uniti, ed anche questo di­pende da una scelta ben precisa, tra­mite la quale l’autore analizza il pae­se in cui la crescita dei momenti di distruzione di quello che egli chia­ma «il capitale biologico» si presenta in forma di macrofenomeno. Il motivo di questa scelta è all’incirca lo stesso per cui Marx studiò l’Inghilterra del ‘500, il paese che allora rappresentava la punta avanzata del capitalismo mon­diale, e non la Germania, o la Fran­cia o qualsivoglia altro paese euro­peo. Perde quindi significato l’accusarlo di non aver tenuto conto del sorgere dei primi momenti distruttivi nel rapporto uomo-natura. (Tali momenti sono del resto assai remoti, ad esempio Platone nel «Crizia» mette in evidenza l’avan­zato disboscamento della Grecia e la conseguente desertificazione compiuta ad opera dei pastori erratici).

Le critiche che sono venute a Com­moner da ambienti ecologici americani dipendono anche in parte da un fattore di base che l’attuale società america­na perdona con estrema difficoltà o, meglio, non perdona affatto: l’aver letto Friedrich Engels ed il lasciar ca­pire nelle proprie opere e nei propri discorsi di averlo fatto!

Quando Commoner dice che «il dete­rioramento dell’ambiente. quale che sia il suo costo in denaro, tensione so­ciale e sofferenze personali, è prin­cipalmente la conseguenza di una tec­nologia difettosa che è stata usata per ricostruire la produttività delle impre­se» abbozza, seppure con tutti i li­miti dell’ incompletezza politica che esso contiene, un discorso estrema­mente stimolante e pericoloso, inac­cettabile per la via ufficiale nixoniana all’ecologia.

Dove il discorso di Commoner cede purtroppo a condizionamenti di tipo « sociologico radicale » è quando, trat­tando del problema demografico, af­ferma che il contenimento del molti­plicarsi irrazionale dell’uomo potrebbe avvenire tramite il miglioramento delle condizioni di vita,gli sforzi per ridurre la mortalità infantile, l’incremento delle misure di sicurezza sociale, la piani­ficazione familiare, oltre che all’uso individuale volontario di contraccettivi.

È curioso e sintomatico rilevare come questi limiti non siano stati colti nella loro vera essenza da Ehrlich e Holdren, mentre sono rilevati, dalle sempre a­cute annotazioni di Menìco Torchio, persona di vaste letture, non solo nel campo della biologia marina. Con Torchio siamo d’accordo pienamente quando afferma: «L’unica concreta spe­ranza di poter migliorare sensibilmente le condizioni dei paesi «poveri» sta nello stornare energia ed altre risorse del superfluo benessere dei paesi e­voluti per destinarle ad usi di prima necessità nei paesi in via di sviluppo». E più oltre «Commoner medesimo si rende conto che il consumo delle ri­sorse negli USA deve essere ridotto, ma inganna inducendo a credere che ciò possa ottenersi mediante la sola «riforma ecologica», senza il controllo demografico o una riduzione di quello che molti americani considerano come il loro alto tenore di vita».

Il discorso di Torchio va a nostro giudizio, ancora ampliato. Riteniamo infatti che la sola possibile redistri­buzione delle ricchezze su piano pla­netario possa avvenire unicamente per mezzo dell’eliminazione dell’ attuale mercato di scambio mondiale, basato su di un momento di tipo imperialista «coloniale», e con la sostituzione del­lo stesso tramite una struttura pianifi­cata di scambio mondiale che controlli equamente l’uso delle risorse, e quindi la produzione dei beni, e nel contem­po, stabilisca rigorosamente quale deb­ba essere la ripartizione, la quantità e la qualità dei consumi.

È evidente contemporaneamente la ne­cessità di una revisione delle attuali metodologie produttive (comprese quel­le agrarie). la quale affinché una pro­duzione conservativa del «capitale ambientale» (sempre per usare la ter­minologia di Commoner) venga a sosti­tuire gli attuali criteri speculativo-pro­duttivistici. Non è però pensabile che un sistema economico come quello rilevabile oggi ad esempio negli Stati Uniti, possa indirizzarsi spontaneamen­te su piano conservativo qualsiasi sia­no le deleterie conseguenze a cui andrà incontro. La storia economica ci insegna su di un sistema di tipo ca­pitalista incombe perpetuamente e con­genitamente la spada di Damocle della crisi da «superproduzione». E’ perciò evidente come negli Stati Uniti, od in altri paesi a regime capitalista, non possono esistere assolutamente « con­sumi inutili » o « consumi improduttivi a cui poter rinunciare senza implicare una revisione globale dello stesso sistema.

Se attualmente gli Stati Uniti, con solo il 6% della popolazione mondiale consumano, o meglio sprecano, oltre il 40°/o delle risorse del pianeta, non lo fanno certo per precostituita volon­tà o per scarsa conoscenza dei pro­blemi ecologici, ma proprio perché lo spreco, il super consumo divengono un fattore vitale per la loro sopravvi­venza. Anche il discorso demografico prospettatoci da Torchio in alternativa a Commoner va visto in una dimen­sione di maggior completezza, altri­menti rischia di essere frainteso, o di essere strumentalizzato a livello misti­ficatorio.

Già gli studiosi di scuola liberate in­glese avevano compreso, negli anni susseguenti al 1860, come gli incre­menti demografici fossero inversamen­te proporzionali al reddito e, anzi la cosa fosse tanto grave che nel 1808 un certo Malthus ventilò il timore dell’«estinzione della classe superiore». Questa constatazione non costituisce però una novità. Del fatto che sussi­stessero delle differenziazioni di classe nel tasso di natalità se ne era già ac­corto lo storico Potibio, nato a Mega­lopoli 200 anni prima di Cristo. Egli scriveva infatti: «II fatto è che oggi la gente, tutta presa dal fasto e dal de­naro, per giunta dalla pigrizia, non vuo­le sposarsi o, se è sposata, non vuole più allevare una famiglia. E’ già molto se gli sposi consentano ad avere uno o due figli, non di più, per poterli lasciare alla propria morte con un ricco patri­monio e nutrirli nel lusso».

Non vediamo quindi perché oggi non possiamo, seguendo gli insegnamenti dei nostri autorevoli maestri del pas­sato, seguire una metodologia eco­nomico-classista nell’esame dei pro­blemi demografici. Infatti per ben com­prendere il carattere del fenomeno demografico non bisogna lasciarsi fuorviare da, pur presenti, ma non de­terminanti motivazioni d’ordine religio­so, culturale e sociologico, ma bisogna invece ritenere come fondamentale il fattore economico. Infatti nelle zone sottosviluppate l’impossibilità di appli­care, a causa della generale sottoccu­pazione o per l’assenza di legislazione in materia, leggi che impediscano l’as­sunzione dei bambini, che obblighino effettivamente i minori alla frequenza scolastica, unitamente alla disoccupa­zione cronica dei genitori diviene causa del diffuso lavoro minorile.

Spesso accade che i bambini ven­gano scelti come lavoratori al posto degli adulti poiché ciò permette ai ca­pitalisti locali o ai colonialisti un ri­sparmio sul salario.

Inoltre nei grandi agglomerati coloniali (in cui si riscon­tra la natalità più vorticosa) i bambini esercitano, con maggior successo de­gli adulti, una grande quantità di infimi mestieri, che poi sono gli unici pos­sibili, come il mendicante, il facchi­no, il piccolo venditore, il lustrascar­pe e, con ancora minore rischio de­gli adulti, anche altre diffuse attività illegali, ma che permettono la sopravvi­venza, come i piccoli furti, la prosti­tuzione ed il contrabbando minuto. Per questo un maggior numero di figli rap­presenta per la famiglia dei paesi sottosviluppati un aumento delle pro­babilità e delle possibilità di incame­rare un certo reddito, seppure ai li­miti della sopravvivenza.

Di conseguenza le famiglie delle zo­ne sottosviluppate hanno interesse ad avere molti figli, qualsiasi siano le sgradevoli conseguenze che ne pos­sono derivare. Nelle zone ad elevato sviluppo avviene invece il contrario, in quanto il bambino cessa di essere una fonte di guadagno per divenire un gravoso onere per la famiglia. La istruzione scolastica obbligatoria e numerose leggi al riguardo ne ritar­dano di molto l’impiego produttivo. Nel contempo le nuove condizioni e­conomiche e le stesse strutture in­dustriali avanzate provocano un sen­sibile aumento della domanda di personale qualificato rispetto al non qualificato e rendono impossibile, an­che volendo, l’impiego economico massivo del minore. Inoltre nelle zone ad elevato reddito il nucleo familiare tradizionale tende sempre più a di­sgregarsi, non svolgendo più quel ruolo di strumento indispensabile per la mu­tua assistenza e quindi di sopravviven­za che svolgeva e svolge tuttora nelle comunità agricole oppure nelle società prive di strutture mutualistiche sociali.

Di qui nasce la sempre maggiore ten­denza dei giovani a svincolarsi dalla famiglia d’origine appena raggiunta la propria autonomia economica. Di con­seguenza non viene più rimborsata alla famiglia la sempre maggiore spesa ed il sempre maggiore aumento di tempo dedicato alla formazione dell’individuo adulto, e poiché il bambino diventa un pesante aggravio ne consegue una spontanea riduzione delle nascite. Da quanto esposto si deduce come la limi­tazione dell’attuale esplosione demo­grafica in atto a livello mondiale non possa realizzarsi che nell’ambito di una trasformazione dei rapporti eco­nomici tra paese e paese e all’inter­no dei singoli paesi con una redistri­buzione della ricchezza ed un innal­zamento generale del livello delle condizioni economiche e sociali. L’aumento del costo di formazione dell’individuo, l’istruzione obbligatoria, la proibizione del lavoro infantile avreb­bero come risultato l’arresto dell’at­tuale fenomeno di moltiplicazione in­discriminata dell’uomo che rischia ogni giorno di più di condurre il pianeta ver­so una catastrofe globale.

Quando nelle zone ad elevato svilup­po si ritrova ugualmente un andamen­to positivo nei tassi demografici, ciò dipende sempre ed unicamente dalla presenza di ampie masse di immigra­ti provenienti da zone sottosviluppa­te che si sono trasferiti da poco tempo con famiglie numerose o per l’esserci ampi strati di residenti aventi un red­dito inferiore alla media del posto e che si trovano pertanto collocati al mar­gine della società.

A livello puramente sperimentale ab­biamo verificato quanto prima espo­sto rilevando i dati demografici di al­cuni comuni piemontesi e liguri ad avanzato sviluppo. Le risultanze hanno pienamente confermato tassi di nata­lità inversamente proporzionale al red­dito. Anzi la soglia di reddito trovata, in base alla quale scatta il momento di inversione dei tassi di natalità è risul­tata eccezionalmente più bassa del pre­visto e poco oltre i livelli della vera e propria sopravvivenza. Non occorrono quindi elevati tassi di sviluppo e per­ciò elevati consumi) per garantire la riduzione naturale della popolazione, ma semplicemente occorre fornire al­l’uomo il minimo indispensabile per vivere in una struttura sociale civile. Dai dati da noi rilevati in tutte le zone campione risulta anzi che i tassi di crescita presentati dalla fascia dei re­sidenti aventi il padre nato nella zona (ossia la cui famiglia risiedeva da ol­tre 50 anni in loco), risultarono sem­pre negativi mentre il tasso di nata­lità dei loro padri era positivo, ma i padri avevano un reddito inferiore a quello attuale dei figli.

Anche gli im­migrati, una volta inseriti nelle nuove forme economiche dei paesi d’arrivo riducono il proprio tasso di natalità, anzi tale riduzione è da ritenersi uno dei sintomi base, di integrazione so­cio-economica con l’ambiente di re­sidenza e di conquista del minimo vitale per la sopravvivenza civile.

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