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Pensieri su frane, alluvioni e dolori

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Nel 2011 cadevano sessanta anni dall’alluvione del Polesine, 45 anni dall’alluvione di Firenze, Venezia, Trento. Ne sono passate di alluvioni da allora, fino a quelle dello stesso 2011 in Lunigiana e nelle Cinque Terre, a Genova, ad Alessandria e nella Valle Padana. Ad ogni alluvione hanno fatto seguito due fenomeni contrastanti: il primo è un movimento di solidarietà spontanea; un paese, sotto tanti aspetti egoista, davanti alle sventure altrui e della collettività, è capace di regalare, gratis, ore di lavoro e fatica per aiutare a sgombrare dal fango e pulire le case e le botteghe e i campi, anche per salvare libri e archivi, accanto a chi ha perso beni materiali, talvolta la vita dei familiari.  In questi momenti, senza che nessuno lo chieda o lo imponga, emerge la parte migliore del popolo italiano.

Peraltro ci sono delle forze perverse che muovono un popolo, che pure comprende persone generose e disposte ad aiutare gli altri, a creare anche le basi per la distruzione di se stesso. La aspirazione, legittima, al benessere e alla comodità spinge troppo spesso ad agire, a fini di profitto e speculazione, contro le leggi della natura e quelle dello Stato. Il mestiere della natura è quello di far circolare aria e acqua sugli oceani e sui continenti, così come il “mestiere” dell’acqua delle piogge e della fusione delle nevi consiste nello scendere dalle montagne e dalle colline al mare lungo le strade di minore resistenza, i torrenti, i fiumi i fossi, con maggiore o minore velocità a seconda di quello che incontra sul terreno. La vegetazione sul terreno frena la forza erosiva delle acque; le gocce di acqua che cadono sulle foglie e sui rami perdono una parte della propria energia e scivolano dolcemente sul suolo; nello stesso tempo le radici e le piante rallentano le acque nella loro discesa verso valle. La natura ha predisposto intorno a torrenti e fiumi delle zone di espansione delle acque di piena.

Purtroppo le valli sono spesso le zone più desiderabili per le costruzioni; i fondovalle sono stati occupati da strade e città e ponti, la vegetazione spontanea è stata distrutta e così le acque si muovono veloci e senza freni. Quando le acque nella loro discesa trovano detriti, frane, tronchi di alberi, ostacoli, quando incontrano strade e case, ponti e fabbriche che bloccano il loro cammino, le acque si vendicano espandendosi dove non dovrebbero e distruggono e uccidono.

L’unico sistema per evitare allagamenti e frane consiste quindi, da una parte nel coraggio di dire no alle pretese di costruzioni dove l’ecologia dice che non devono essere fatte, e dall’altra nel predisporre opere di difesa del suolo contro l’erosione, almeno dove è ancora possibile farlo, di regolazione e sistemazione e pulizia dei corsi di acqua, dai torrenti di montagna ai fianchi delle colline, ai grandi e piccoli fiumi, ai fossi di pianura, con l’unico imperativo di assicurare che l’acqua scorra senza violenza e senza ostacoli verso il mare, suo unico destino finale.

Lo capì bene Franklin Delano Roosevelt che aveva ereditato un’America in piena crisi economica ma anche fragile a causa dell’erosione del suolo e di frane e alluvioni; il 14 marzo 1933, dieci giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca, istituì i “Civilian Conservation Corps”. Nell’estate del 1933 300.000 americani, celibi, dai 18 ai 25 anni, disoccupati, figli di famiglie assistite, erano al lavoro nei boschi e sui fiumi. Negli anni successivi, in varie campagne, due milioni di giovani lavoratori, complessivamente, piantarono 200 milioni di alberi, ripulirono il greto dei torrenti, costruirono dighe, scavarono canali per l’irrigazione, costruirono ponti e torri antincendio, combatterono le malattie dei pini e degli olmi. Nell’aprile 1935 fu creato il Soil Conservation Service col compito di difendere il suolo, anche se era di proprietà privata, per conto della collettività.

La difesa del suolo e la prevenzione del dissesto idrogeologico possono avere successo però soltanto con una politica unitaria che coinvolga le istituzioni preposte all’agricoltura e foreste, ai lavori pubblici e alla protezione civile e può avere successo soltanto in un quadro coordinato e con riferimento a precise unità territoriali che sono i bacini idrografici. Il bacino idrografico è infatti il territorio, con confini geografici ben precisi, rappresentati dagli spartiacque, che comprende un fiume e tutti i suoi affluenti, dai piccoli torrenti, ai solitari fossi, fino al fiume principale. In ciascun bacino idrografico si muovono le acque dalle montagne alle valli e poi al mare; nel bacino idrografico i prodotti dell’erosione del suolo e gli agenti inquinanti vengono trascinati dagli affluenti nel fiume principale e poi nel mare. Nel bacino idrografico la presenza di boschi, campi coltivati, allevamenti zootecnici, la presenza di paesi e città e industrie, deve essere pianificata per assicurare il movimento delle acque. Purtroppo i confini delle regioni, delle province, dei comuni e delle comunità montane non coincidono quasi mai con quelli dei bacini idrografici e le autorità amministrative hanno sempre considerato le decisioni degli interventi nelle valli e nei fiumi come di propria esclusiva competenza.

Per superare questa situazione nel 1989 il Parlamento approvò con larga condivisione una legge sulla difesa del suolo secondo cui la vera unità per l’amministrazione del territorio, al fine di prevenire frane e alluvioni, doveva essere il bacino idrografico, La legge 183 del 1989 stabiliva che “sopra” ogni bacino idrografico doveva funzionare una “autorità di bacino”, responsabile della pianificazione degli interventi e della prevenzione, che avrebbe dovuto agire come punto di incontro per superare gli interessi contrastanti delle autorità amministrative locali.

Il progetto lungimirante è fallito, la legge è stata sostituita da altri provvedimenti; le autorità di bacino, nella maggior parte dei casi non hanno svolto adeguatamente le funzioni per cui erano state pensate: quella di tenere sotto controllo quanto avviene in un bacino e di impedire attività e costruzioni che frenano il moto delle acque verso il mare. Erosione, frane, alluvioni, siccità, e i conseguenti dolori e morti, sono i figli di questo tradimento della geografia e dell’ecologia. E lo si vede.

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