Molti temi di Commoner, riportati alla realtà italiana, ci possono condurre alle stesse conclusioni del biologo di Saint Louis.
Guardiamo ai concimi artificiali. La produzione in Italia è cresciuta da circa 12 milioni di quintali nel 1961-52, ai 17 milioni del 1970-71, mentre il consumo è passato da 8 milioni a più di 12 milioni di quintali. Nella progressiva trasformazione del terreno agrario italiano in una vasta distesa di concime artificiale con qualche traccia di residui geologici e sali minerali ci stiamo difendendo bene: usavamo poco più di 10 kilogrammi di concime per ettaro di concime azotato nel 1955, mentre ora siamo pericolosamente vicini ai 40 kilogrammi. Una quadruplicazione del consumo in 15 anni!
Non esiste una Decatur italiana, ma in compenso non mancano le zone dove, per via del massiccio uso degli insetticidi in agricoltura, l’acqua risulta imbevibile: vivere a Ferrara per credere. Sulla base dei dati forniti dalla Associazione Nazionale Produttori fibre sintetiche artificiali e sintetiche risulta chele fibre poliamidiche sono passate dalle 955 tonnellate prodotte nel 1951 alle 112.118 tonnellate del 1969; le fibre acriliche, 775 tonnellate nel 1960 sono g:unte, in 10 anni, a 64.599 tonnellate. Vertiginosa crescita anche dei poliesteri, delle fibre polipropileniche e poliviniliche. Scomparsa delle fibre proteiche. In toto, nel 1971, l’Italia ha esportato 225.000 tonnellate di fibre sintetiche, importandone 139.000.
L’Italia è contemporaneamente mecca del petrolio e del bianco-bianchissimo; non vale lesinare su questi dati che sono molto significativi.
Il collasso del sapone da bucato, cui fa riscontro il sempre più solido decollo dei prodotti formulati a base dì tensioattivo, può essere verificato anche solo ricordando che, di fronte alle 390.000 tonnellate di polvere da bucato prodotta nel 1969, stanno le 195.000 tonnellate di detersivo prodotte nel 1964. Quello che a noi ora interessa osservare è che, a monte della detergenza e della martellante propaganda di questi prodotti, è un mercato completamente in mano agli Stati Uniti ed ai paesi occidentali, fra cui anche la nostra colonizzata Italia, con cifre di affari da capogiro. Basti pensare che in Italia, dal 1965 al 1970, il consumo dei detersivi è passato da 97,9 a 152,5 miliardi di lire, con un aumento molto vicino al 50°!0. Le vendite maggiori sono state toccate dai detersivi per lavatrici (dai 31,5 ai 74,5 miliardi), con questi emblemi al traguardo del primato: Dixan, Dash, Dinamo, Ali, Aiax Lanciere Bianco.
Per quanto sia ormai consolidata e scientificamente fondata l’opinione che anche i detersivi biodegradabili siano dannosi, e non solo per i residui di fenolo, l’industria di settore, vantaggiosa filiazione della petrolchimica, crede di aver coperto ogni problema con il prodotto sedicente « biodegradabile». In Italia non si affondano in mare gas nervini, ma esiste una contropartita che viene dalla produzione dei biossido di titanio, che garantisce al bacino dei Mar Tirreno un’ingestione quotidiana di 3.000 tonnellate di acidi forti e di metalli pesanti, scaricati liberamente in mare da chiatte appositamente costruite. Eppure recentemente si è rilevato, con assoluta certezza scientifica, il blocco della produttività primaria nel braccio di mare interessato allo scarico di questa nuvola rossa a base di acido solforico, solfato ferroso, titanio, manganese, alluminio, vanadio e cromo che la Montedison ormai si arroga ogni giorno il diritto di scaricare fra le coste toscane e la Corsica.
Pensare al momento politico in cui è avvenuta la concessione dei permesso di scarico significa verificare il grande potere che il nuovo mandarinato dei tecnologi ha in Italia sulle strutture politiche. Il caso Scarlino serve molto bene a documentare anche il livello di coscienza ecologica raggiunto dalla nostra classe dirigente imprenditoriale, dalla classe politica, di alcuni scienziati nostrani.
Intanto l’industria in questione si è premurata di fare il proprio braccio di ferro con il governo ed i sindacati ponendo gli operai in cassa integrazione. In questo dumping ecologico si sono trascurate le ricerche anche strettamente necessarie, si è dimenticata la condanna unanime dei biologi marini indipendenti italiani e francesi, si è fatto a meno delle più elementari cognizioni di chimica-fisica.
L’atteggiamento non è isolato. Ripropone lo spregio per la problematica ambientale di un gruppo industriale Mammutt che oggi chiede allo stato italiano 2200 miliardi per sopravvivere e che, nel corso della recente Fiera di Milano (aprile ’72), si è presentato con la figura dei grande supermercato. La industria produce infatti migliaia di prodotti, che vanno da quello sofisticatissimo, frutto di ricerca altamente specializzata, ai prodotti di materia plastica di uso corrente. L’immagine che l’industria da di sè è una specie di corresponsabilizzazione collettiva, come dire «Ciascuno di voi, ciascuno di noi, ha prodotti Montedison per casa o addosso. Vedete, la Montedison è quell’azienda, quel gruppo, che produce tutte queste cose, che ciascuno ha in casa propria, che vede tutti i giorni».
Per non uscire molto dal seminato di Commoner, basta ricordare che Montedison considera come prioritari i settori in cui per tradizioni, competenze, strutture tecniche, commerciali e di ricerca, essa è più intensamente impegnata: la chimica e le fibre artificiali e sintetiche. Nelle produzioni chimiche e di fibre sono infatti concentrati il 92 % degli immobilizzi tecnici ed il 70 % dei personale dei Gruppo, con 83 stabilimenti nel settore chimico e petrolchimico, 18 nel settore fibre. II valore della produzione chimica dei gruppo è stato 1.150 miliardi di lire nel 1970, pari al 31 % della produzione chimica italiana ed al 6% della Comunità Economica
Europea. Nel campo petrolchimico impiega raffineria ed impiega distillati per giungere, attraverso successive trasformazioni, a prodotti di base (etilene, propilene, butadiene, aromatici); ad intermedi per materie plastiche e fibre (stirolo, cloruro di vinile, caprolattame, acido tereftalico, acrilonitrile); ad intermedi per altre attività industriali (solventi, alcoli, basi per detergenti; a prodotti finiti organici, come plastificanti e materie plastiche. Nel campo delle materie plastiche, è l’azienda leader dei mercato italiano, con il 50 % dell’intera produzione nazionale. La Divisione Prodotti per l’agricoltura cura la produzione e la vendita di fertilizzanti ed antiparassitari.
Grazie alla produzione di acrilonitrile, caprolattame ed acido tereftalico, la Montedison può fabbricare fibre chimiche e trasformarlo in tessuti, coprendo I’11 % della produzione della CEE.
Nel settore prodotti per l’industria c’è poi tutta una campionatura di prodotti, il cui utilizzo generale o la cui produzione, rappresenta un continuo stress per gli ecosistemi: intermedi per detersivi, pigmenti minerali (fra cui il biossido di titanio prodotto a Scarlino), i fluoruri inorganici, i fluoroderivati organici, i polimeri fluorurati, le miscele detonanti per benzina.
Per un simile mastodonte, impuntarsi in un’altra impresa a danno degli ecosistemi e dell’assetto territoriale, non è che un gioco poco rilevante. I contatti politici sono garantiti al vertice e così facile è ottenere lo scarico a Scarlino, liquidare la laguna di Venezia con gli impianti di Porto Marghera e Fusina.
Il braccio di ferro per Scarlino non era dettato solo dalla volontà di dare nuovi pigmenti bianchi per le carrozzerie ed i mobili da laccare, quanto dalla necessità di operare a ciclo economico chiuso, lasciando aperto il ciclo ecologico. Infatti i pallets di ossido di ferro, prodotti a Scarlino ed utilizzati come carica per gli altiforni siderurgici, sono ottenuti con procedimento originale, brevettato dalla Montedison, procedimento che ha reso possibile lo sfruttamento integrale di vecchie miniere di piriti maremmane, con la redditizia produzione contemporanea di acido solforico ed energia elettrica. La «nuvola rossa» che in quantità di 3 mila tonnellate al giorno viene scaricata al largo delle coste Tirreniche è la macroscopica diseconomia esterna di questa tecnícistica soluzione, che sfida i parametri territoriali ed ecologici più elementari.
Vale anche la pena di ricordare che gli stessi responsabili di Scarlino gestiscono la politica ecologica italiana, a livello nazionale ed internazionale.
Uno sguardo alla legazione italiana alla Conferenza ONU di Stoccolma sull’ambiente umano (giugno 1972) rivela la presenza di una foltissima rappresentanza di delegati delle industrie interessate ai casi più clamorosi di dissesto ecologico dovuti all’attività industriale. Montedison, ENEL, e petrolieri avevano più di un rappresentante. La politica ecologica italiana dipende quindi dagli interessi dei grandi gruppi industriali ed è in stretta connessione con i problemi del consumo.
Altri due esempi basteranno, automobili e produzione di energia elettrica con centrali termiche. L’impatto ambientale della combustione interna dei motore è dovuto all’omasione di ossidi di azoto, monossido di carbonio, spreco di carburante e piombo, materiale corpuscolato, aldeidi, chetoni, anidride solforosa. L’intensità di questi impatti sono funzione non solo dei chilometri percorsi dai veicoli, ma anche dal tipo di motore e dalle nuove tecnologie. L’aumento dei rapporto di compressione ha abbassato la percorrenza media per litro di benzina in modo trascurabile, ma ha comportato l’uso dei piombo tetraetife e dell’emissione sempre in aumento degli ossidi di azoto. Gli ossidi di azoto danno origine ai perossiacetilnitrati, inquinanti ormai universali delle nostre città.
Nel 1960 I’Italia aveva 2.500.000 autoveicoli, ora il loro numero è salito ad oltre 10 milioni con una densità media di 86 vetture per miglio quadrato, contro le 24 automobili/miglio degli Stati Uniti. Siccome un autoveicolo emette ogni anno da 0,5 ad 1 tonnellata di ossido di carbonio, da 0,066 a 0,132 tonnellate di idrocarburi incombusti, da 0,025 a 0,50 tonnellate di ossidi di azoto, da 0,2 a 0,6 chilogrammi di piombo, 10 milioni di autoveicoli emetterebbero, ogni anno, da 5 a 10 milioni di tonnellate di ossido di carbonio, da 0,6 a 1,32 milioni di tonnellate di idrocarburi incombusti da 0,25 a 0,50 milioni di tonnellate di ossidi di azoto, da 2.000 a 6.000 tonnellate di piombo.
Il problema automobile è quindi prioritario per un paese come l’Italia, che non sembra voler cessare in prospettiva la corsa folle verso la quattroruote, nonostante che la paralisi urbana sia ormai cosa fatta ìn molte metropoli e nonostante che il 42% dell’inquinamento sia imputabile all’automobile.
Al sistema gioca molto facile inventarsi altre industrie collaterali a quella automobilistica, come la produzione di post-combustori ad aria, a fiamma, omogenei ed eterogenei {convertitori catalitici. Oppure si sperimentano postcombustori eterogenei in associazione alla iniezione di aria supplementare allo scarico.
Impazza la modifica dei carburatore e del collettore di aspirazione, la doppia carburazione, l’alimentazione con carica stratificata, l’iniezione di carburante con dispositivi a comando meccanico o elettronico; si interviene (invero con molta parsimonia) a livello dei combustibili; si modificano i sistemi di accensione. Rimangono i problemi di sempre, perché non si riescono a ridurre gli inquinamenti da ossidi di azoto. Il piombo manda in crisi i catalizzatori. Se si elimina un inquinante non si può fare nulla per sopprimere l’altro: o gli idrocarburi incombusti o gli ossidi di azoto.
Intanto una nuova industria è stata varata, tra qualcheanno si porrà il problema di dove mettere i catalizzatori e le marmitte infarcite di inquinanti: il ciclo si chiuderà mandando tutto alla combustione e riportando, in dosi più massicce, gli stessi inquinanti all’atmosfera.
Neppure tocca il cervello di Agnelli, Luraghi, Cazzaniga e Girotti la possibilità di approdare a forme non convenzionali di energia, di abbandonare il ciclootto, di progettare trasporti collettivi, per sostituire la domanda sociale all’assurdo individualismo dell’automobile per tutti, che tra poco significherà: tutti fermi a respirare ossidi di azoto, a farsi intossicare dal piombo e dal PCB che evapora lentamente dalle plastiche con le quali è oggi addobbata la nostra quattroruote.
In Italia resta comunque di gran moda studiare i problemi dell’ossido di carbonio, del piombo e degli idrocarburi nelle atmosfere urbane, trascurando il problema degli ossidi di azoto, la cui presenza è stata segnalata con scarsa documentazione a Milano e Genova, grazie anche ai continui ricatti dell’industria automobilistica nazionale.
L’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica, con 84,2 miliardi di chilowattore di energia termoelettrica prodotta nel ’71, cui si devono sommare i 40,4 miliardi di chilowattore di energia idroelettrica, ha stabilito non solo un primato energetico, ma anche dì inquinamento. Non c’è una sola centrale ENEL che non sia sotto accusa, anche perchè si progettano sempre nuove centrali termoelettriche e termonucleari, indipendentemente da valutazioni territoriali (per cui vi sono almeno tre progetti di impianti localizzatì in futuri parchi nazionali o regionali) o, della destinazione d’uso del suolo e dalla rivalutazione dei veri fabbisogni energetici della nazione.
La curva della produzione dell’energia termoelettrica, salita vertiginosamente da 10 a 40 miliardi di kWh fra il 1960 ed il 1965 continua la sua marcia in progressione verso il traguardo dei 100 miliardi di kWh.
Anche qui, in luogo di un ripensamento degli obiettivi economici e sociali di fondo, si continua la corsa all’energia. L’ENEL gioca bene le sue carte pubblicitarie: compra spazi pubblicitari su riviste di ecologia, finanzia gruppi conservazionisti. La sua teoria è la seguente: l’energia elettrica è il centro motore della civiltà moderna; in attesa che l’atomo divenga il grande protagonista del settore energetico, la produzione di base non può essere fornita che dalle centrali termoelettriche, per il cui esercizio utilizziamo le più moderne tecnologie per la difesa dell’ambiente. Ed ecco le tecnologie: trappole elettrostatiche che catturano le ceneri (e che non si sa mai come smaltire), alti camini che portano i fumi sopra la fascia atmosferica (condiluizione, ma anche ricaduta a distanza di piogge acide), rilevamento automatico dell’anidride solforosa, laboratori mobili, palloncini Pilot. Rtudio del fumo con il fidar. Rimane il problema eterno dell’inquinamento termico, che sconvolge gli ecosistemi acquatici. Dì questo si tace.
Ho cercato di tradurre sinteticamente i concetti di Commoner in alcuni dati nella realtà italiana per valutarne, a mio parere, la fondatezza. Sarebbe però ingiusto tralasciare il Darere di chi non condivide le tesi dell’autore del «Closing Circle». Nel corso del Forum ambientale (Miljóforum/Environment Forum) tenutosi a Stoccolma parallelamente alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, B. Commoner tenne una relazione dal titolo: «The meaning of the environmental crisis». Il rapporto, estensione delle idee contenute in questo volume, ebbe grande risonanza anche alla Conferenza ONU, suscitando però reazioni diverse. Portando alle estreme conseguenze le proprie teorie, Commoner sostiene che il problema demografico è, globalmente, un falso problema ecologico e che le soluzioni possibili ai problemi ambientali dipendono in larga misura da una svolta nella società e dalla cessazione immediata delle guerre in corso.
Una tesi che trovò ì primi accenni di critica sulle colonne del quotidiano, edito appositamente per la Conferenza del mensile “Ecologist” e dai Friends of the Earth. In una vignetta, Commoner veniva presentato come un giocoliere da circo che, sospeso ad un filo sopra la pista, si mantiene in equilibrio su di una piccola bici, tenendo in mano alcuni anelli da giocoliere che si chiamano guerra, inquinamento, povertà.
Una reazione tanto poco equilibrata era dettata da una necessità di reazione al biologo che, aveva definito il progetto « Sopravvivenza» curato dalla staff del mensile Ecologist, come una fuga irreale dai veri problemi e la progettazione di un nuovo fascismo ecologico. Stupisce invece un editoriale del “New Scíentist” di Londra, a firma Jon Tinker, pubblicato il 7 giugno. Jon Tínker, redattore per i problemi ambientali dell’importante rivista scientifica anglosassone, critica la posizione di Commoner alla Conferenza di Stoccolma. «Secondo il prof. Barry Commoner — egli dice — i problemi della biosfera non sono causati affatto dallo sviluppo demografico, ne dal miglioramento del tenore di vita, ma soltanto ed esclusivamente dalla malevolenza della moderna tecnologia. A questa teoria — per quanto semplicistica ed imprecisa possa essere — Commoner ha dato un nuovo giro di vite: la crisi ambientale non può essere considerata separatamente dalla guerra in Vietnam. Egli si contrappone così, almeno in parte, all’azione globale indicata da M. Strong (il segretario della Conferenza ONU sull’ambiente)».
Secondo Tinker, suggerire, come fa Commoner, che dovremmo abbandonare tutti i problemi per considerare prima queste questioni porterebbe al «Catch 22 degli ecologic», in quanto ogni questione che si può risolvere è solo parte di una questione più grande che è insolubile.
La Conferenza ha poi dato ragione a Commoner, in quanto di Vietnam non si è parlato e stabilizzati si sono tutti gli equivoci di fondo di un’ecologia di mercato gestita da pochissime superpotenze.
Parlare della guerra significava sottrarre il mercato ecologico-tecnologico dalle mani dei pochi agguerriti mercanti americani, francesi ed inglesi (i russi mancavano!), per ridarlo, in termini più umani, agli stessi attori della politica ecologica, i sottosviluppati sfruttati e le popolazioni immobilizzate dai richiami dei mass media.
Ma veniamo alla polemica demografica. Poco noti sono i risvolti polemici del confronto Commoner Ehrlich che ha visto la luce sulla rivista “Environment”. Il tema è stato riproposto da Menico Torchio nell’ultimo numero della rivista. Torchio si fa portavoce delle tesi di Ehrlich sostenendo che i danni all’ambiente risalgono a ben prima degli anni ’40, che Commoner possiede un’idea preconcetta degli inquinamenti come unica o quasi forma di deterioramento ambientale. In sostanza Commoner non avrebbe posto in luce il rapporto esistente fra consistenza demografica, e grado di benessere di una determinata popolazione ed impatto ambientale complessivo.
Si rivolge a Commoner l’accusa (e chi ha letto attentamente «The closing circle» può capire con quanta malafede!) di non aver capito la vastità dei problemi di cui si occupa e di riporre eccessiva fiducia nella capacità dell’uomo nello sviluppare immediatamente industrie che non provochino inquinamenti e danni ambientali.Commoner ovvero dell’approssimazione unidimensionale.
Non possiamo condividere queste tesi, già confutate dallo stesso Commoner, per una ragione sola. Commoner prende in esame le contraddizioni di una certa società e compie un’analisi in chiave marxista. Un genere di discorso scientifico che a molti non piace. Certo. Questo non significa che le tesi siano inaccettabili.