Mentre le guerre di indipendenza riunificavano i vari stati italiani in un regno “d’Italia”, di cui si sono celebrati i 150 anni nel 2011, nello stesso 1861 cominciava nel Nord America una lunga sanguinosa guerra che ha lasciato tracce fino ai nostri giorni, un evento che appartiene a quel “novecento”, secolo lungo, a cui è dedicata questa rivista. Anche negli Stati Uniti, creati pochi decenni prima, esisteva una frattura culturale, economica, politica e anche merceologica, fra Nord e Sud, un Nord industriale, vivace, aggressivo anche, e un Sud agricolo basato su una coltura principale, quella del cotone, avidamente richiesto dall’industria tessile europea come alternativa al cotone proveniente dall’India, colonia inglese.
Un Sud in cui alcune grandi famiglie possedevano da secoli grandi estensioni di terreno fertile che produceva cotone e zucchero a basso costo grazie alla mano d’opera gratuita degli schiavi importati nei secoli precedenti dall’Africa. Gli schiavi “appartenevano” a chi li aveva comprati al mercato, come merce, non avevano diritti e tutto quello che potevano ottenere veniva dalla benevolenza dei padroni, talvolta buoni, paterni, colti, forse dolcemente indolenti. Gli abitanti del Nord erano una miscela di immigrati più o meno recenti, di tutte le nazioni e le religioni, anglosassoni, ma anche italiani, tedeschi, polacchi, irlandesi; cattolici, ebrei, protestanti. Esuli da condizioni di vita sgradevoli e da stati oppressivi che cercavano, nella “America” libertà, ma anche ricchezza.
La primavera del 1861 era cominciata con l’insediamento alla presidenza degli Stati Uniti di Abramo Lincoln, appena eletto con un programma di riforme fra cui quella del lavoro schiavo. Gli Stati Uniti erano una grande federazione di stati, diversi nelle leggi, nell’origine degli abitanti, nella ricchezza. Il Sud, con buoni porti, esportava il cotone verso il Nord e verso l’Europa e poteva contare su legname e mais per il proprio sviluppo economico, una ricchezza basata sull’agricoltura e le risorse naturali.
Gli immigrati che continuamente arrivavano negli stati del Nord avevano di fronte le pianure sterminate con fertili pascoli in cui allevare bestiame da trasformare nella carne, richiesta da una società in crescita e anche da esportare; trovavano foreste incontaminate da cui trarre legname per le costruzioni e carbone e minerali. Terre nuove da affrontare, nell’Ottocento, con linee ferroviarie che si allungavano verso l’ovest, verso il selvaggio West. Buoni porti nel Nord permettevano di esportare le risorse e le merci americane verso un’Europa affamata, travagliata da guerre, altrettanto avida di benessere e di modernità industriale. Per questo sviluppo, gli stati del Nord avevano bisogno di mano d’opera a basso prezzo, che sarebbe diventata disponibile se i neri fossero stati liberati dalla schiavitù e avessero potuto muoversi verso il Nord e offrirsi sul mercato del lavoro.
Al di la degli aspetti etici e morali, il problema della schiavitù era cruciale sul piano economico; la sua abolizione avrebbe fatto crescere la ricchezza del Nord a avrebbe inferto un duro colpo al Sud. Per conservare il diritto al possesso privato degli schiavi, in quel 1861 alcuni stati del Sud decisero di costituire uno unità politica autonoma, sotto forma di Confederazione. La divisione avrebbe portato ad una guerra e l’occasione fu offerta, come sempre, da eventi banali. Il 13 aprile 1861 i soldati dell’Unione occupavano il piccolo Fort Sumter, in territorio della Confederazione; la sua riconquista da parte della Confederazione diede l’avvio ad un lungo conflitto durato fino al 1865 e costato oltre seicentomila morti fra militari e civili delle due parti. Grandi ricchezze e beni materiali, intere città furono distrutte. La città di Atlanta fu incendiata e rasa al suolo dal generale nordista Sherman il 14 novembre 1864, un evento ricostruito nel film “Via col vento” che mostra uno spaccato delle origini e delle lacerazioni provocate e lasciate dalla guerra civile.
La guerra civile americana si può considerare la prima guerra dell’epoca moderna; furono utilizzate nuove armi, nuove tattiche militari, nuove tecniche di combattimento terrestre e navale, furono collaudati i primi sottomarini. L’epopea della guerra civile, lo scontro fra le “giubbe blu” dei soldati dell’Unione del Nord e le “giubbe grigie” dei soldati della Confederazione del Sud, ha avuto un influsso grandissimo sulla società americana, nei film, nei romanzi, nella cultura popolare, vissuta e ricordata ancora oggi. Ma soprattutto la guerra lasciò delle ferite che non sono del tutto rimarginate ancora adesso, dopo un secolo e mezzo.
Gli schiavi furono liberati ma la segregazione fra bianchi e persone di colore negli stati del Sud è continuata fino agli anni sessanta del Novecento; segregazione fisica, negli autobus, nelle scuole, nelle università, nei locali pubblici, ma soprattutto segregazione culturale. E’ stato difficile annullare l’amara eredità della guerra civile, come è ben illustrato da molti film che meritano di essere visti e, direi studiati: cito soltanto “La lunga notte dell’ispettore Tibbs” e “Indovina chi viene a cena”, entrambi del 1967, e “Mississippi burning”, del 1988 ma riferito ad eventi del 1966.
Nel Sud sono stati intrapresi, nel corso dei decenni, vari coraggiosi piani di industrializzazione e di difesa dell’ambiente, di bonifica e di lotta alle alluvioni, spesso con successo, facendo crescere l’economia agricola del Sud e, insieme quella industriale del Nord. Il pensiero politico democratico e progressista ha cercato di affermare la cultura dell’integrazione con grandi uomini come i bianchi cattolici John e Robert Kennedy e il predicatore di colore Martin Luther King. Martin Luther King aveva “sognato” che un giorno un presidente di colore sarebbe stato insediato alla Casa Bianca, e questo è avvenuto nel primo decennio del XXI secolo.
Mi sono soffermato su questa pagina della storia della società nordamericana perché mi sembra suggerisca alcune analogie con la società italiana, le cui lacerazioni fra Nord industriale e Sud agricolo sono ancora presenti a 150 anni dalla Unità d’Italia. Lacerazioni molto meno profonde rispetto a quelle che ancora sussistono negli Stati Uniti, ma ancora dolorose che si manifestano con un razzismo “leghista” e con irrazionali nostalgie del buon governo (che tale non era poi tanto) dei Borboni. In tutti i casi alle radici della diversità ci sono sempre motivi economici, di capacità di valorizzare le proprie risorse naturali, di trasformarle in ricchezza e benessere, di modi di vivere e consumare; radici “merceologiche” che non sono attenuate neanche dalla omogeneizzazione delle merci.
Ma dal confronto fra Nord e Sud degli Stati Uniti, dell’Italia, e fra tutti i “Nord” e i “Sud” che sopravvivono in tutti i paesi, una lezione mi pare possa trarsi: in un mondo tanto fragile e, come lo chiamano, globalizzato, si sopravvive solo uniti. Uniti nella diversità, è stato il motto della repubblica nordamericana ed è il motto di un’Europa che stenta così tanto a diventare “unita”. Uniti nella diversità dovrebbe essere l’obiettivo a cui ispirare qualsiasi politica anche in questo momento di grandi movimenti di popoli: la biodiversità rende più forti le unità di piante, animali – e umani.
Articoli Collegati
La sentenza del processo Eternit
La sentenza del 13 febbraio 2012 del Tribunale di Torino sul processo Eternit è consultabile al seguente…
Lettera al direttore
Ecologia, 2, (7), 46 (novembre 1972) Letta la recensione del mio libro «L’imbroglio ecologico», redatta dal Prof. Marcuzzi,…
L’imbroglio ecologico
Recensione a: Dario Paccino,“L’imbroglio ecologico”, Einaudi, 1972 Ecologia, 2, (7), 45-46 (novembre 1972) Poche scienze come l’ecologia hanno…
Distribuzione della ricchezza e incremento demografico
Se vi è errore nel libro di Barry Commoner, esso è costituito dal titolo dell’opera (“The closing…