Se vi è errore nel libro di Barry Commoner, esso è costituito dal titolo dell’opera (“The closing circe”) il quale si presta, nella sua neutralità dichiarativa, a facili e qualche volta voluti equivoci, sulla reale portata e dimensione del «messaggio» che l’autore rivolge al lettore. Se l’opera di Commoner si fosse, ad esempio chiamata «Impatto ambientale delle strutture tecnologiche statunitensi dagli anni quaranta ad oggi» molti degli strali che Ehrlich ed Holdren hanno diretto contro di lui, sarebbero caduti fuori bersaglio.
Infatti Commoner non ignora, come abbiano potuto personalmente verificare, l’origine remota dell’impatto uomo-natura, ma semplicemente inizia ad esaminarlo e studiarlo nel momento di datazione storica (appunto gli anni 40) in cui egli ritiene abbia preso forme abnormi.
Lo studio viene in pratica limitato alle strutture produttive-consumistiche degli Stati Uniti, ed anche questo dipende da una scelta ben precisa, tramite la quale l’autore analizza il paese in cui la crescita dei momenti di distruzione di quello che egli chiama «il capitale biologico» si presenta in forma di macrofenomeno. Il motivo di questa scelta è all’incirca lo stesso per cui Marx studiò l’Inghilterra del ‘500, il paese che allora rappresentava la punta avanzata del capitalismo mondiale, e non la Germania, o la Francia o qualsivoglia altro paese europeo. Perde quindi significato l’accusarlo di non aver tenuto conto del sorgere dei primi momenti distruttivi nel rapporto uomo-natura. (Tali momenti sono del resto assai remoti, ad esempio Platone nel «Crizia» mette in evidenza l’avanzato disboscamento della Grecia e la conseguente desertificazione compiuta ad opera dei pastori erratici).
Le critiche che sono venute a Commoner da ambienti ecologici americani dipendono anche in parte da un fattore di base che l’attuale società americana perdona con estrema difficoltà o, meglio, non perdona affatto: l’aver letto Friedrich Engels ed il lasciar capire nelle proprie opere e nei propri discorsi di averlo fatto!
Quando Commoner dice che «il deterioramento dell’ambiente. quale che sia il suo costo in denaro, tensione sociale e sofferenze personali, è principalmente la conseguenza di una tecnologia difettosa che è stata usata per ricostruire la produttività delle imprese» abbozza, seppure con tutti i limiti dell’ incompletezza politica che esso contiene, un discorso estremamente stimolante e pericoloso, inaccettabile per la via ufficiale nixoniana all’ecologia.
Dove il discorso di Commoner cede purtroppo a condizionamenti di tipo « sociologico radicale » è quando, trattando del problema demografico, afferma che il contenimento del moltiplicarsi irrazionale dell’uomo potrebbe avvenire tramite il miglioramento delle condizioni di vita,gli sforzi per ridurre la mortalità infantile, l’incremento delle misure di sicurezza sociale, la pianificazione familiare, oltre che all’uso individuale volontario di contraccettivi.
È curioso e sintomatico rilevare come questi limiti non siano stati colti nella loro vera essenza da Ehrlich e Holdren, mentre sono rilevati, dalle sempre acute annotazioni di Menìco Torchio, persona di vaste letture, non solo nel campo della biologia marina. Con Torchio siamo d’accordo pienamente quando afferma: «L’unica concreta speranza di poter migliorare sensibilmente le condizioni dei paesi «poveri» sta nello stornare energia ed altre risorse del superfluo benessere dei paesi evoluti per destinarle ad usi di prima necessità nei paesi in via di sviluppo». E più oltre «Commoner medesimo si rende conto che il consumo delle risorse negli USA deve essere ridotto, ma inganna inducendo a credere che ciò possa ottenersi mediante la sola «riforma ecologica», senza il controllo demografico o una riduzione di quello che molti americani considerano come il loro alto tenore di vita».
Il discorso di Torchio va a nostro giudizio, ancora ampliato. Riteniamo infatti che la sola possibile redistribuzione delle ricchezze su piano planetario possa avvenire unicamente per mezzo dell’eliminazione dell’ attuale mercato di scambio mondiale, basato su di un momento di tipo imperialista «coloniale», e con la sostituzione dello stesso tramite una struttura pianificata di scambio mondiale che controlli equamente l’uso delle risorse, e quindi la produzione dei beni, e nel contempo, stabilisca rigorosamente quale debba essere la ripartizione, la quantità e la qualità dei consumi.
È evidente contemporaneamente la necessità di una revisione delle attuali metodologie produttive (comprese quelle agrarie). la quale affinché una produzione conservativa del «capitale ambientale» (sempre per usare la terminologia di Commoner) venga a sostituire gli attuali criteri speculativo-produttivistici. Non è però pensabile che un sistema economico come quello rilevabile oggi ad esempio negli Stati Uniti, possa indirizzarsi spontaneamente su piano conservativo qualsiasi siano le deleterie conseguenze a cui andrà incontro. La storia economica ci insegna su di un sistema di tipo capitalista incombe perpetuamente e congenitamente la spada di Damocle della crisi da «superproduzione». E’ perciò evidente come negli Stati Uniti, od in altri paesi a regime capitalista, non possono esistere assolutamente « consumi inutili » o « consumi improduttivi a cui poter rinunciare senza implicare una revisione globale dello stesso sistema.
Se attualmente gli Stati Uniti, con solo il 6% della popolazione mondiale consumano, o meglio sprecano, oltre il 40°/o delle risorse del pianeta, non lo fanno certo per precostituita volontà o per scarsa conoscenza dei problemi ecologici, ma proprio perché lo spreco, il super consumo divengono un fattore vitale per la loro sopravvivenza. Anche il discorso demografico prospettatoci da Torchio in alternativa a Commoner va visto in una dimensione di maggior completezza, altrimenti rischia di essere frainteso, o di essere strumentalizzato a livello mistificatorio.
Già gli studiosi di scuola liberate inglese avevano compreso, negli anni susseguenti al 1860, come gli incrementi demografici fossero inversamente proporzionali al reddito e, anzi la cosa fosse tanto grave che nel 1808 un certo Malthus ventilò il timore dell’«estinzione della classe superiore». Questa constatazione non costituisce però una novità. Del fatto che sussistessero delle differenziazioni di classe nel tasso di natalità se ne era già accorto lo storico Potibio, nato a Megalopoli 200 anni prima di Cristo. Egli scriveva infatti: «II fatto è che oggi la gente, tutta presa dal fasto e dal denaro, per giunta dalla pigrizia, non vuole sposarsi o, se è sposata, non vuole più allevare una famiglia. E’ già molto se gli sposi consentano ad avere uno o due figli, non di più, per poterli lasciare alla propria morte con un ricco patrimonio e nutrirli nel lusso».
Non vediamo quindi perché oggi non possiamo, seguendo gli insegnamenti dei nostri autorevoli maestri del passato, seguire una metodologia economico-classista nell’esame dei problemi demografici. Infatti per ben comprendere il carattere del fenomeno demografico non bisogna lasciarsi fuorviare da, pur presenti, ma non determinanti motivazioni d’ordine religioso, culturale e sociologico, ma bisogna invece ritenere come fondamentale il fattore economico. Infatti nelle zone sottosviluppate l’impossibilità di applicare, a causa della generale sottoccupazione o per l’assenza di legislazione in materia, leggi che impediscano l’assunzione dei bambini, che obblighino effettivamente i minori alla frequenza scolastica, unitamente alla disoccupazione cronica dei genitori diviene causa del diffuso lavoro minorile.
Spesso accade che i bambini vengano scelti come lavoratori al posto degli adulti poiché ciò permette ai capitalisti locali o ai colonialisti un risparmio sul salario.
Inoltre nei grandi agglomerati coloniali (in cui si riscontra la natalità più vorticosa) i bambini esercitano, con maggior successo degli adulti, una grande quantità di infimi mestieri, che poi sono gli unici possibili, come il mendicante, il facchino, il piccolo venditore, il lustrascarpe e, con ancora minore rischio degli adulti, anche altre diffuse attività illegali, ma che permettono la sopravvivenza, come i piccoli furti, la prostituzione ed il contrabbando minuto. Per questo un maggior numero di figli rappresenta per la famiglia dei paesi sottosviluppati un aumento delle probabilità e delle possibilità di incamerare un certo reddito, seppure ai limiti della sopravvivenza.
Di conseguenza le famiglie delle zone sottosviluppate hanno interesse ad avere molti figli, qualsiasi siano le sgradevoli conseguenze che ne possono derivare. Nelle zone ad elevato sviluppo avviene invece il contrario, in quanto il bambino cessa di essere una fonte di guadagno per divenire un gravoso onere per la famiglia. La istruzione scolastica obbligatoria e numerose leggi al riguardo ne ritardano di molto l’impiego produttivo. Nel contempo le nuove condizioni economiche e le stesse strutture industriali avanzate provocano un sensibile aumento della domanda di personale qualificato rispetto al non qualificato e rendono impossibile, anche volendo, l’impiego economico massivo del minore. Inoltre nelle zone ad elevato reddito il nucleo familiare tradizionale tende sempre più a disgregarsi, non svolgendo più quel ruolo di strumento indispensabile per la mutua assistenza e quindi di sopravvivenza che svolgeva e svolge tuttora nelle comunità agricole oppure nelle società prive di strutture mutualistiche sociali.
Di qui nasce la sempre maggiore tendenza dei giovani a svincolarsi dalla famiglia d’origine appena raggiunta la propria autonomia economica. Di conseguenza non viene più rimborsata alla famiglia la sempre maggiore spesa ed il sempre maggiore aumento di tempo dedicato alla formazione dell’individuo adulto, e poiché il bambino diventa un pesante aggravio ne consegue una spontanea riduzione delle nascite. Da quanto esposto si deduce come la limitazione dell’attuale esplosione demografica in atto a livello mondiale non possa realizzarsi che nell’ambito di una trasformazione dei rapporti economici tra paese e paese e all’interno dei singoli paesi con una redistribuzione della ricchezza ed un innalzamento generale del livello delle condizioni economiche e sociali. L’aumento del costo di formazione dell’individuo, l’istruzione obbligatoria, la proibizione del lavoro infantile avrebbero come risultato l’arresto dell’attuale fenomeno di moltiplicazione indiscriminata dell’uomo che rischia ogni giorno di più di condurre il pianeta verso una catastrofe globale.
Quando nelle zone ad elevato sviluppo si ritrova ugualmente un andamento positivo nei tassi demografici, ciò dipende sempre ed unicamente dalla presenza di ampie masse di immigrati provenienti da zone sottosviluppate che si sono trasferiti da poco tempo con famiglie numerose o per l’esserci ampi strati di residenti aventi un reddito inferiore alla media del posto e che si trovano pertanto collocati al margine della società.
A livello puramente sperimentale abbiamo verificato quanto prima esposto rilevando i dati demografici di alcuni comuni piemontesi e liguri ad avanzato sviluppo. Le risultanze hanno pienamente confermato tassi di natalità inversamente proporzionale al reddito. Anzi la soglia di reddito trovata, in base alla quale scatta il momento di inversione dei tassi di natalità è risultata eccezionalmente più bassa del previsto e poco oltre i livelli della vera e propria sopravvivenza. Non occorrono quindi elevati tassi di sviluppo e perciò elevati consumi) per garantire la riduzione naturale della popolazione, ma semplicemente occorre fornire all’uomo il minimo indispensabile per vivere in una struttura sociale civile. Dai dati da noi rilevati in tutte le zone campione risulta anzi che i tassi di crescita presentati dalla fascia dei residenti aventi il padre nato nella zona (ossia la cui famiglia risiedeva da oltre 50 anni in loco), risultarono sempre negativi mentre il tasso di natalità dei loro padri era positivo, ma i padri avevano un reddito inferiore a quello attuale dei figli.
Anche gli immigrati, una volta inseriti nelle nuove forme economiche dei paesi d’arrivo riducono il proprio tasso di natalità, anzi tale riduzione è da ritenersi uno dei sintomi base, di integrazione socio-economica con l’ambiente di residenza e di conquista del minimo vitale per la sopravvivenza civile.