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Canapa

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I meno giovani fra i lettori ricorderanno che, tanti anni fa, in molte delle nostre campagne, specialmente in Emilia e in Campania, ma anche in altre regioni, il calore estivo era accompagnato da un odore acuto che emanava da vasche rettangolari, poco profonde, scavate nel terreno e piene d’acqua – i maceri – in cui venivano immerse le bacchette della canapa per dar modo a speciali microrganismi di scomporre, con un processo di fermentazione, le sostanze “collanti” che tengono unite le fibre di canapa al loro supporto legnoso.

La canapa (come il lino, la iuta, il ramiè) è una fibra tessile che si ottiene da una pianta erbacea annua (Cannabis sativa) con fusto sottile ed eretto, alto da 2 a 6 metri, coltivata nei climi temperati. Per ricavarne la fibra, dopo la raccolta le piante si lasciano sparse sul terreno a seccare; i fusti vengono poi privati delle foglie e, riuniti in piccoli fasci, sono sottoposti alla macerazione, l’operazione che agevola il distacco delle lunghe fibre. La fibra vera e propria, o tiglio, viene liberata frantumando meccanicamente (stigliatura) i fusti i cui residui (canapuli) si usano come combustibile e per la produzione di cellulosa.

Le operazioni di macerazione e stigliatura – ormai abbandonate in Italia – richiedono una tecnologia abbastanza raffinata, in parte sviluppata e perfezionata proprio nel nostro paese. Uno dei microrganismi utilizzati nella biotecnologia della macerazione era stato selezionato e identificato in Emilia e prendeva il nome di Bacillus felsineus. Per la stigliatura erano state inventate speciali macchine che assicuravano l’integrità delle fibre, tanto più pregiate quanto più erano lunghe e omogenee.

Un secolo fa la produzione italiana della fibra di canapa arrivava a 35-40 mila tonnellate all’anno e alimentava una corrente di esportazione; la canapa è rimasta importante, come fonte di occupazione e di reddito, fino ai primi anni dopo la Liberazione. Sfogliando un vecchio “Calendario Atlante De Agostini” (il prezioso volumetto annuale che, dall’inizio del secolo, fornisce informazioni geografiche e statistiche in forma popolare e a basso prezzo), trovo che nel 1957 l’Italia produceva ancora 30.000 tonnellate all’anno di canapa, rispetto ad una produzione mondiale di circa 270.000 tonnellate all’anno (esclusa l’Unione sovietica che era uno dei più grandi produttori di canapa e lino).

L’avvento trionfante delle fibre sintetiche ha spiazzato la canapa, la cui produzione mondiale nel 1979 era comunque ancora di 220.000 t/anno (questa volta URSS compresa), mentre la produzione italiana era ridotta a zero. Attualmente la produzione mondiale è ancora di 200.000 t/anno, concentrata nei paesi del Sud del mondo, soprattutto Cina e Turchia.

Anche le merci hanno una loro vita, con crescita e declino, ma anche con qualche episodio di risurrezione, e la canapa, sotto l’ondata dell’attenzione “ecologica”, sembra attirare di nuovo produttori e consumatori. E’ stato riconosciuto che la canapa da fibra ha un basso contenuto di cannabinolo, la sostanza stupefacente.

Relegata per anni a usi meno nobili, come la produzione di sacchi, spaghi e cordami, la canapa ricomincia a trovare utilizzazione per la produzione di tessuti per lenzuola, tende e indumenti, grazie anche a innovazioni tecniche nei processi di filatura e tessitura.

Per quello che riguarda l’Italia, purtroppo, la radicale scomparsa della “cultura” della canapa sembra rendere ben difficile la sua risurrezione: bisognerebbe cominciare col ritrovare le colture dei microrganismi responsabili della macerazione.  Poi bisognerebbe ritrovare le pratiche colturali in condizioni ecologiche e di terreno profondamente mutate da quelle che, nella prima metà del secolo, avevano posto l’Italia all’avanguardia nella coltivazione della canapa. Oggi siamo costretti ad importare la fibra. Un museo della canapa è stato realizzato dai fratelli Bernardini a Pisoniano, vicino Roma: per notizie si può utilmente consultare il sito Internet <http://members.tripod.com/~canap>.

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