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Il 22 maggio

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Il 22 maggio di cento anni in una cella di isolamento del penitenziario di Santo Stefano di Ventotene, un carceriere trovava morto il trentaduenne Gaetano Bresci, da alcuni mesi recluso, in catene e sorvegliato a vista, l’uomo che, uccidendo il re d’Italia Umberto, il 29 luglio del 1900, aveva vendicato l’assassinio, da parte dei generali dello stesso re, degli operai di Milano. Si concludeva così una vita avventurosa e coraggiosa che continua – dovrebbe continuare – ad essere simbolo della ribellione contro i tiranni: addolora che sia passato sotto silenzio questo centenario.

Bresci era nato a Coiano, vicino Prato, il 10 novembre 1869: il padre Gaspare era un contadino proprietario di un piccolo podere e di una casa a tre piani; Gaetano, a undici anni andò a lavorare come apprendista, 14-15 ore al giorno, nel ”Fabbricone”, lo stabilimento tessile dell’industriale Hosler. A quindici anni era già operaio specializzato e frequentava il circolo anarchico di Prato, una città in cui la concentrazione anarchica era una delle maggiori e più interessanti d’Italia.

Nel 1892 ebbe una prima condanna a quindici giorni di reclusione: per far evitare una multa ad un garzone fornaio che teneva aperta la bottega oltre l’orario, aveva insultato delle guardie. Per le leggi repressive crispine, emanate in conseguenza degli scioperi, nel 1895 finì confinato a Lampedusa dove, nel lungo ozio, aveva migliorato, con letture e studio, la sua istruzione. Graziato nel 1896 stentò a trovare lavoro per cui si trasferì nell’Alta Lucchesia, a Ponte all’Ania, in uno stabilimento laniero dove, abile e stimato, divenne in pochi mesi capo operaio. Infatti Bresci era, e lo diranno pure i testi contro di lui al processo, sia un abile operaio, sia anche una persona posata, equilibrata, con un fortissimo senso della precisione e un amore per il diritto personale anche nei minimi dettagli.

Alla fine del 1897 decise di emigrare in America e il 29 gennaio 1898 sbarcò a New York trasferendosi poi a Paterson, ad alcune decine di chilometri a ovest di New York, dove esisteva una forte concentrazione di fabbriche tessili con mano d’opera in gran parte italiana; nella comunità italiana era alta la presenza di anarchici che avevano una biblioteca, una casa editrice e addirittura due giornali. A differenza della maggior parte degli immigrati italiani, Gaetano Bresci parlava e capiva l’inglese, frequentava anche operai americani e girava sempre con una macchina fotografica a tracolla, come era di moda fra i giovanotti americani in quel tempo.Nel 1898 Bresci sposò una operaia irlandese di Boston (che gli diede una figlia, Maddalena) e aveva raggiunto un certo benessere economico.

A Paterson, naturalmente, arrivavano le notizie dall’Italia dove la condizione dei contadini, dei proletari e dei sottoproletari era diventata insostenibile, sotto il regno di Umberto I Savoia, salito al trono nel 1878, sposato con Margherita, una regina ultraconservatrice su cui convergevano circoli reazionari. Alla fine dell’Ottocento ci furono le scelte coloniali che lo stato, sempre sull’orlo della bancarotta, non poteva permettersi. Con lui ci furono Dogali (1887) e, soprattutto Adua (1896), dove si mandò all’attacco e al massacro, un esercito piccolo e male armato; con lui ci fu lo scandalo della Banca Romana (1893), con 64 milioni di lire in circolazione abusive, false, con coinvolgimento di altissimi personaggi: una tangentopoli cent’anni prima.

Le spaventose condizioni di miseria avevano portato ai moti del 1894 di Sicilia, seguiti da quelli della Garfagnana e del carrarese; nel 1898 ci furono i moti e le insurrezioni del pane in tutta la penisola, stavolta causati dalla rarefazione del grano per la guerra ispano-americana, che, però, s’inserivano sulle precedenti proteste per il caro pane. Per la repressione ci furono numerosi morti, con i massacri di Milano, con lo stesso re a premiare il generale Bava Beccaris che aveva sfamato, come dice una celebre canzone anarchica, a cannonate la folla milanese dei manifestanti. Solo a Milano i morti furono oltre un centinaio, 110 giornali furono chiusi. Durante il regno di Umberto I le vittoria militari furono solo sui braccianti, operai disoccupati, gente del popolo; per il resto sconfitte.

È in questo contesto che si colloca il gesto di Gaetano Bresci. Deciso ad uccidere il re, Bresci lasciò il lavoro e la moglie – che era incinta di un bambino, Gaetanino, che sarebbe nato quando Bresci era in carcere – e partì il 17 maggio 1900 per la Francia; dopo un breve soggiorno a Parigi il 6 giugno Bresci è a Genova; si fermò poi alcune settimane a Coiano , poi andò a Bologna, sempre allegro, festoso ed elegante, e con l’immancabile macchina fotografica, ciò che gli era consentito dai risparmi degli anni di lavoro ben retribuito a Paterson.

Il 21 luglio 1900 il re giungeva a Monza per la usuale vacanza a Villa reale. Bresci la sera stessa partì per Piacenza, poi giunse a Milano il 24 luglio. All’epoca la ginnastica era lo sport più popolare per la penisola. A Monza il 29 luglio 1900, con inizio alle ore 20,30, si teneva una manifestazione ginnica pan-italiana cui avrebbe presenziato il re.Il 27 luglio Bresci si sposta da Milano a Monza dove alloggia da un’affittacamere. A Monza ispezionò a lungo il percorso che doveva fare il re per giungere al campo della manifestazione ginnica, un prato a lato di Via Matteo da Campione.

La mattina del 29 luglio Bresci si alzò presto, perse varie ore girando per Monza. Pochi minuti dopo l’ingresso del re in carrozza, Bresci entrò nel campo ginnico e si collocò una decina di metri dal re, nella terza fila degli spettatori. La premiazione avvenne alle 22; come il re se ne andò con la sua berlina a due cavalli, Bresci gli sparò tre colpi di pistola; il re morì alcuni minuti dopo, varcando il cancello di Villa Reale.

Bresci fu rapidamente disarmato e fu arrestato mentre cercava di dileguarsi passando per un turista, avendo al collo la solita macchina fotografica, e venne malmenato dai ginnasti. Nonostante l’isolamento della zona ad opera dell’esercito, la notizia del regicidio apparve la mattina dopo su molti giornali. La notizia arrivò anche a Paterson dove, quando si seppe che il regicida era uno di loro, si ebbero manifestazioni di giubilo.

Bresci fu incarcerato a San Vittore e agli interrogatori si mostrò puntiglioso, facendo precisazioni, correggendo errori di verbalizzazione, anche quelli ortografici: era nel suo carattere. Il tribunale gli assegnò come avvocato di ufficio Luigi Martelli, un liberale filo-monarchico, ma, tramite Filippo Turati, Bresci ottenne come avvocato difensore Saverio Merlino, un anarchico di spicco che, fra un confino e un carcere, una lunga fuga all’estero e l’altra, riusciva perfino a professare a favore, inutile dirlo, di anarchici e socialisti.

Il processo fu celebrato il 29 agosto 1900; la linea difensiva di Merlino era da un lato di condannare il gesto di Bresci, però spostando il movente sulla cause sociali, soprattutto italiane, che spingevano alcuni anarchici a gesti del genere. Così mise sotto accusa tutta la classe dirigente, con continue interruzioni del presidente e del pubblico ministero. L’avvocato d’ufficio sostenne una tesi di pazzia, smentito clamorosamente da Bresci che rivendicò sia la salute mentale, sia la natura politica del regicidio La corte condannò Bresci all’ergastolo con sette anni di segregazione cellulare.

Bresci restò vari mesi a San Vittore; il 5 novembre venne inviato a Portolongone, in una cella, sotto il livello del mare; il 23 gennaio, con nutrita scorta e sempre incatenato, arrivò all’ergastolo di Santo Stefano di Ventotene.

Mercoledì 22 maggio 1901 Bresci mangiò il pasto delle undici come al solito; la guardia che lo sorvegliava continuamente giorno e notte, dichiarò che, per un bisogno corporale impellente, alle due e cinquanta esatte del pomeriggio aveva abbandonato lo spioncino e vi era ritornato due o tre minuti dopo. Bresci era morto, impiccato “con il tovagliolo” alla sbarra della finestra; ma con un tovagliolo non ci può avvolgere il collo, fare il nodo scorsoio e poi legare l’altro capo all’inferriata !. Pertanto la stessa direzione ammise implicitamente l’omicidio che Bresci era stato “suicidato”.

In un articolo più esteso che apparirà nella rivista telematica “altronovecento” www.altronovecento.quipo.it , pubblicata dalla Fondazione Micheletti di Brescia, ho riportato i più che legittimi dubbi sulla descrizione “ufficiale” della morte di Bresci e i motivi che confermano il suo assassinio. Le varie fonti (1) che ne hanno analizzato la storia hanno messo in evidenza che i documenti sulle ispezioni di polizia e sui verbali della morte sono scomparsi dall’Archivio Centrale dello Stato. Il cadavere di Bresci, insieme alle lettere ricevute dalla moglie nei mesi precedenti e che non gli era stato consentito di leggere, ebbero una provvisoria sepoltura e furono poi dispersi nel mare. A un secolo di distanza Bresci è ricordato da un piccolo monumento nel cimitero di Turigliano a Carrara, dove sono sepolti numerosi anarchici e anche Pinelli, e da una strada a lui intestata a Prato, oltre che nel cuore di coloro che riconoscono l’enorme valore simbolico del gesto di Bresci che, giustamente, dichiarò di avere ucciso una idea.:

(1) Citerò per tutte le seguenti: Arrigo Petacco, “L’anarchico che venne dall’America”, Milano, Mondadori, 1970, con varie ristampe anche recenti; Pier Carlo Masini, “Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati”, Milano, Rizzoli,1981; Gruppi Anarchici Riuniti (GAR), “Il 29 luglio 1900:un fatto”, Carrara, La cooperativa litotipografica, 1981; Giuseppe Calzeranno, “Gaetano Bresci, la vita, l’attentato, il processo e la morte del regicida anarchico”, Casalvelino Scalo (Salerno), 1988.

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