Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

C’era una volta l’austerità

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La trappola dello spreco

Nel momento di crisi che stiamo attraversando si resta sorpresi dall’ assenza, nel dibattito politico ed economico in corso, di un progetto di società e di economia per i prossimi anni. Si capisce bene che occorre modificare i sistemi elettorali e rappresentativi, bisogna ridurre il deficit del bilancio pubblico, occorre una maggiore moralità privata e pubblica, occorre sanare alcune ferite territoriali e ambientali e alcune vistose ingiustizie sociali che colpiscono maggiormente le classi meno abbienti e più deboli: ragazzi, disoccupati, anziani, pensionati, immigrati, malati.

Ma il raggiungimento di ciascuno di questi irrinunciabili obiettivi presuppone una serie di azioni e di scelte che coinvolgono altri settori del sistema complessivo: l’agricoltura, l’industria, i trasporti, l’edilizia, l’ecologia.

A dire la verità, la classe dominante in questi primi anni del XXI secolo un suo progetto l’ha e anche chiaro: l’annullamento delle conquiste dello stato sociale, la privatizzazione dei beni collettivi, la difesa dei profitti privati a spese della collettività e dei meno abbienti. Ma questo progetto va in direzione opposta al risanamento dell’economia e alla moralizzazione.

Solo per fare un esempio: per sanare il bilancio pubblico gli attuali governanti presuppongono la vendita di molti beni collettivi, dalle spiagge, ai pascoli e boschi soggetti ad usi civici, a edifici pubblici nei centri urbani. La presunta guarigione di una malattia – il debito pubblico – è accompagnata dall’aggravamento di un’altra malattia: il degrado ambientale, l’erosione del suolo e delle spiagge, la perdita di risorse turistiche, l’aumento della congestione del traffico.

Chi acquista dallo stato le spiagge o i boschi o preziose aree urbane può rientrare in casa dei soldi spesi, soltanto con azioni che comportano la distruzione di valori ambientali essenziali per l’occupazione, l’aumento dell’inquinamento, il peggioramento della salute, cioè con azioni destinate a provocare costi futuri che faranno aggravare il debito pubblico.

E ancora: per sanare la malattia del debito pubblico si prevede di vendere le industrie e le attività controllate dallo stato, con la conseguenza di aggravare altre malattie: chi acquista una industria può fare profitti soltanto licenziando gli operai ed evitando spese per la depurazione dei fumi o degli effluenti liquidi, cioè con azioni i cui danni e costi ricadono sulla collettività.

È vero che la gestione pubblica dei beni ambientali e delle industrie è stata pessima, sotto forma di corruzione, di cattiva amministrazione, di errori nelle scelte economiche ed ecologiche; una maggiore onestà privata e un miglior governo avrebbero pero’ potuto evitare e sanare molti guasti, mentre i guasti imposti dalle regole della proprietà privata sono intrinseci nelle leggi del mercato capitalistico e quindi inevitabili.

Immaginiamo che un gruppo di persone si riunisca intorno ad un tavolo e si proponga di elaborare una serie di buoni consigli da dare ai futuri governanti – supposti onesti e sinceramente interessati al bonum publicum – per una società che cerchi di rendere minime le conseguenze delle malattie sociali. Che cosa potrebbe, tale gruppo, indicare ? Sull’esperienza di questi anni mi pare che la prima, forse unica, ricetta consista nel muovere “guerra allo spreco”.

Limitandosi, come faro’ qui, allo spreco di risorse naturali e di beni ambientali, si vede che già negli ani settanta del Novecento era chiaro che la salvezza dei singoli paesi e dell’intera comunità umana si sarebbe potuta ottenere rallentando lo sfruttamento delle risorse naturali – acqua, fertilità dei suoli, foreste, aria, prodotti agricoli e della pesca, minerali, fonti di energia – nazionali e internazionali. Era questa la condizione per consentire ai paesi sottosviluppati di muovere dei passi verso la libertà dal bisogno, dalle malattie, dalla dipendenza ancora coloniale; per consentire ai paesi industrializzati di soddisfare i bisogni importanti con minori inquinamenti e danni.

Erano già evidenti, in quel tempo, i segni delle malattie dei poveri – fame, lotte interne, epidemie – e delle malattie dei paesi ricchi – inquinamento, congestione, violenza, diffusione della droga – e per tutti e due la ricetta consisteva in un uso più parsimonioso delle risorse naturali scarse, in un impegno di solidarietà.

Nel 1970, con la salita al potere di Gheddafi in Libia, c’era stato il primo aumento del prezzo del petrolio, un segno, anche se piccolo, della ribellione di alcuni paesi poveri al dominio delle multinazionali. Nel 1972 la Conferenza delle Nazioni Unite su commercio e sviluppo, tenutasi a Santiago del Cile, aveva invitato i governanti del Nord del mondo a pagare prezzi più equi per le risorse del Sud del mondo, per assicurare ai paesi poveri una qualche forma di sviluppo e per ridurre l’inquinamento all’interno dei paesi ricchi.

Nello stesso anno la Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano aveva dato delle indicazioni di politica mondiale nei confronti dell’ambiente e il libro del Club di Roma, “I limiti alla crescita”, aveva messo in guardia nei confronti dei problemi di futura scarsità delle risorse naturali mondiali.

Nel 1971 e nel 1972 il governo socialista di Allende nel Cile aveva indicato che i paesi del Sud del mondo potevano esigere prezzi più equi per le proprie materie prime agricole e minerarie e questa ribellione era stata stroncata dalle multinazionali americane con il “suicidio” di Allende e l’imposizione del governo fascista di Pinochet, nel 1973.Poche settimane dopo, la prima grande crisi petrolifera aveva mostrato che i paesi sottosviluppati intendevano ottenere, con le buone o le cattive, prezzi più equi per le proprie materie.

Nel maggio 1974 l’assemblea delle Nazioni Unite aveva indicato la necessità di un nuovo ordine economico internazionale e a partire da tale anno, anche sotto la pressione dell’aumento continuo del prezzo delle materie prime, si era avviato, nei paesi industrializzati, un ampio dibattito sulla necessità di un uso più parsimonioso e razionale delle risorse naturali scarse.

Anche in Italia aveva cominciato a circolare un invito all'”austerità”: il 20 settembre 1974 si tenne un convegno sul tema “Austerità per che cosa ?” (Feltrinelli, Milano, 1974) con la partecipazione di Barca, Leon, Sylos Labini e altri.

Nel gennaio 1977 Enrico Berlinguer, nel corso di un celebre convegno al Teatro Eliseo di Roma, indicava la necessità di un lavoro politico sulla linea della lotta allo spreco (E. Berlinguer, “Austerità occasione per trasformare l’Italia”, Editori Riuniti, Roma, 1977) e avviava la redazione di un progetto per la società italiana (Partito comunista italiano, “Proposta di progetto a medio termine”, Roma, Editori Riuniti, luglio 1977).

La proposta di austerità e il programma di cambiamenti furono, allora, ridicolizzati: come conseguenza è peggiorata la situazione dell’economia, il debito pubblico, la condizione del Mezzogiorno e delle classi più deboli. A livello internazionale è aumentato il divario fra paesi ricchi e poveri, ci sono state varie guerre per le materie prime: per il rame e il cobalto nel Katanga, per i fosfati nel Marocco, per il petrolio nel Medio Oriente, eccetera.

I paesi industriali hanno approfittato, spesso alimentandole, delle guerre interne del Sud del mondo: i ruggenti anni ottanta sono stati di un benessere solo apparente; la maggiore quantità di denaro e di merci che sono circolate e circolano oggi, sono pagate da un aumento del degrado ambientale e urbano, da inquinamenti della natura e delle coscienze, dal peggioramento delle condizioni di lavoro, da disoccupazione, diffusione della criminalità, violenza, instabilità internazionale.

Proviamo a pensare un progetto di lotta allo spreco per la società italiana degli anni novanta alla luce della situazione odierna e vedremo che alcuni passi della proposta del 1977 (riportati fra virgolette) presentano una straordinaria attualità ancora oggi.

La trappola dell’agricoltura

La lotta allo spreco coinvolge in primo luogo l’agricoltura che è, non a caso, il settore “primario” dell’economia, fonte degli alimenti, ma anche di molti altri materiali, rinnovabili, perché riprodotti ogni anno attraverso i grandi cicli naturali, troppo scarsamente utilizzati.

Negli ultimi venti anni è peggiorata la qualità della nostra produzione agricola, sono aumentate le eccedenze invendute e nello stesso tempo sono aumentate le importazioni, e lo spreco si è manifestato anche con l’abbandono di terre coltivabili che avrebbero potuto rappresentare una frontiera per la difesa del suolo, per insediamenti in alternativa alla congestione delle valli e delle coste.

Il progetto del 1977 spiegava che “un programma di sviluppo del settore agro-industriale dovrà essere   strettamente legato ad un rinnovamento della struttura produttiva e sociale dell’agricoltura. Un piano agro-industriale   comporta rilevanti investimenti, ma può garantire un sostanziale miglioramento della nostra bilancia commerciale e consistenti benefici occupazionali.

     “La crisi attuale della società italiana trova una drammatica espressione nello sviluppo distorto delle città e del territorio. Tale distorsione potrà essere superata soltanto con una nuova politica capace di affrontare questa realtà nel suo complesso: il dissesto idrogeologico, la   decadenza dell’agricoltura, il conseguente spopolamento delle campagne e insieme la congestione e la disfunzione delle città, il carattere anarchico e speculativo delle localizzazioni produttive e residenziali, l’irrazionalità e le carenze dei grandi sistemi infrastrutturali”.

Le catastrofi di erosione del suolo, frane, alluvioni, che hanno segnato questi anni sono la conseguenza proprio dello squilibrio territoriale che investe negativamente, insieme, le città e le campagne.

Si tratta, in sostanza, di mutare il rapporto fra la città e la campagna”, un mutamento indispensabile anche se si vuole attuare un riequilibrio dei rapporti fra Nord e Sud d’Italia. L’esigenza nazionale di ridurre la congestione delle zone metropolitane e di valorizzare il Mezzogiorno può essere perseguita soltanto attraverso un mutamento dei rapporti fra città e campagna.

“Tale mutamento occorre avviare decisamente a mezzo di politiche appropriate e un elevamento sociale, tecnico e scientifico del lavoro agricolo, accompagnato dalla creazione di infrastrutture, servizi, attività produttive e iniziative culturali decentrate, al fine di creare più progredite condizioni di vita nelle campagne. Né si tratta soltanto di creare condizioni oggettive nuove, ma della necessità di superare indirizzi formativi e modelli culturali che contribuiscono a determinare la fuga dalle campagne e la concentrazione nelle aree urbane”.

La trappola delle città

Nello stesso tempo occorre affrontare una riorganizzazione delle città “per renderle abitabili e governabili dagli uomini.

     “Il ricupero urbano deve contrastare, con la diffusione dei servizi sociali, uno sviluppo cieco dei consumi individuali e il permanere di vasti margini di iniziative speculative: non servizi costosi, gestiti burocraticamente, ma servizi semplici e razionali.Ricupero urbano equivale anche al ricupero del patrimonio abitativo degradato, storico o soltanto invecchiato”.

Se si osservano il degrado proprio delle città in cui domina la criminalità organizzata, la crisi dei servizi sociali gestiti burocraticamente, resi complicati e irrazionali, più adatti alla creazione di situazioni di potere e alla amministrazione della corruzione che al reale servizio dei cittadini, appare chiaro che le parole del progetto di venti anni fa indicano ancora oggi una linea politica da seguire se si vuole uscire dalla crisi.

La rinascita urbanistica presuppone – sosteneva ancora il”progetto a medio termine” del 1977 – la valorizzazione, in tutto il paese “dell’ampia rete di piccole e medie città, ricche di tradizioni culturali e civili.

Occorre far leva su questo patrimonio storico peculiare per frenare lo sviluppo congestionato delle grandi città e delle aree metropolitane. Attraverso la valorizzazione di città di dimensioni adeguate alle funzioni sociali e produttive che in esse si sviluppano si contribuirà al riequilibrio fra città e campagna; tali città andranno via dotate di strutture civili e sociali equivalenti a quelle delle grandi concentrazioni urbane in modo da frenare il massiccio afflusso dei giovani verso i grandi centri abitati e il contemporaneo invecchiamento delle popolazioni nelle campagne“.

Le trappole dell’energia

Nel 1977 sembrava che l’aumento del prezzo del petrolio potesse indurre ad una lotta agli sprechi nel settore dell’energia, ad una revisione delle previsioni dei consumi energetici gonfiati, allora, in vista della costruzione di impianti, porti e centrali più adatti a soddisfare la fame di appalti e affari che a soddisfare il bisogno di energia dell’Italia.

Nel 1975 il consumo energetico italiano è stato di 144 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio); sotto la spinta di chi speculava sulle importazioni di petrolio e carbone sono stati dilatati gli sprechi, e i consumi energetici sono arrivati, nel1990 a 163 Mtep e nel 2000 a190 Mtep.

Il ricorso alle fonti energetiche rinnovabili si è ridotto a qualche motore a vento e qualche pannello fotovoltaico; l’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera è andata crescendo e non mostra segni di rallentamento, benché i nostri governanti firmino ipocriti accordi sulla limitazione dell’effetto serra.

L’inquinamento atmosferico delle città e delle fabbriche è andato aumentando; le risorse di carbone Sulcis in Sardegna (un miliardo di tonnellate, con un valore di oltre 25 miliardi di euro), chiuse dall’ENEL, con “straordinaria lungimiranza”, nel 1972, proprio quando erano chiari i segni dell’aumento del prezzo internazionale del petrolio !, restano nel sottosuolo, col loro carico di minatori disoccupati, per non disturbare gli affari di coloro che guadagnano importando carbone e petrolio.

Tutto esattamente contro gli interessi del paese, per i quali occorrerebbe, invece- continuava il “Progetto a medio termine – realizzare un sostanziale risparmio di energia primaria e di energia elettrica, sia nel campo dei consumi sia in quello della produzione, anche attraverso una razionale organizzazione dei prelievi di energia elettrica, l’impiego di attrezzature e tecnologie volte a ridurre il fabbisogno energetico, che sono già disponibili o possono essere acquisite con lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica”.

Un piano energetico coerente con le necessità economiche e sociali del paese – nel 1977 e a maggiore ragione oggi – deve tendere a valorizzare tutte le fonti energetiche nazionali – energia idroelettrica, combustibili fossili (metano e petrolio, carbone e lignite), energia geotermica – attraverso l’ammodernamento delle centrali idroelettriche esistenti e la verifica della possibilità di utilizzazione di tutte le risorse idriche, l’individuazione e lo sfruttamento di giacimenti di minerali che potevano risultare antieconomici quando il prezzo del petrolio era molto basso, lo studio concreto delle possibilità di utilizzazione dell’energia solare”.

I consumi energetici nel settore dei trasporti rappresentano uno dei segni più vistosi dello spreco. Il parco automobilistico circolante, che nel 1975 era di 15 milioni di automobili, ha superato oggi, nel 2000, i 32 milioni di autoveicoli e cresce continuamente per la maggior gloria dell’industria automobilistica.

I consumi di benzina e gasolio che ammontavano nel 1975 a 16 milioni di t, sono arrivati nel 2000 a 40 milioni di t.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: l’inquinamento e la congestione del traffico portano ogni anno un numero crescente di città vicino alla paralisi; l’invasione delle automobili private riduce la superficie delle strade in cui è possibile circolare, rallenta il traffico dei mezzi pubblici e spinge ancora di più verso gli spostamenti con autoveicoli privati in una spirale caotica.

La salvezza consiste nel “sottrarre le comunicazioni urbane alla prevalenza dell’automezzo individuale assegnando un ruolo preminente al trasporto collettivo, ripristinando la possibilità della circolazione pedonale, ma anche sviluppando i trasporti delle aree urbane ed extraurbane in dimensioni organizzative integrate”.

Nei venti anni passati sono state smantellate le linee ferroviarie secondarie, si sono ampliate le autostrade, sono stati frenati i sistemi di trasporto collettivi non solo integrati, ma anche quelli locali, del trasporto ferroviario è stata sviluppata l’inutile “alta velocità” e si è lasciato mano libera alla diffusione del trasporto delle merci su strada.

Insomma, in coerenza con un piano asservito agli interessi privati, si è fatta una politica energetica e dei trasporti orientata a favorire – anziché limitare – lo spreco.

La trappola delle merci

La disponibilità di posti di lavoro stabili e duraturi dipende dalle scelte produttive nei settori dell’agricoltura, dell’industria e dei servizi, e pertanto dalla quantità e dalla qualità delle merci fabbricate attraverso l’utilizzazione di materie prime naturali, con inevitabile formazione di scorie e rifiuti.

Un aumento dell’occupazione e una diminuzione dell’inquinamento presuppongono una analisi dei rapporti fra risorse, produzione, merci e ambiente. Occorre chiedersi che cosa è necessario e opportuno produrre e arrivare ad una pianificazione dei consumi: lo auspicava il “Progetto a medio termine”.

“Per alleggerire il vincolo della bilancia commerciale occorre uno sforzo di qualificazione degli investimenti al fine di garantire la sostituzione di determinate importazioni con produzioni interne capaci di reggere la concorrenza, in un regime aperto di scambi internazionali, con le merci straniere e insieme al fine di adeguare alle nuove realtà e prospettive del mercato mondiale le capacità di esportazione dell’Italia, arricchendo e diversificando la   produzione dell’industria italiana per il mercato estero.

“Lo sviluppo dell’occupazione nell’industria   appare perseguibile attraverso uno sviluppo della ricerca, in funzione sia dell’innovazione merceologica che di quella ingegneristica e impiantisitica, come supporto indispensabile al potenziamento e alla riconversione dei settori manifatturieri. Ciò vale in modo particolare per la chimica secondaria e fine, per l’elettronica e l’elettromeccanica, ma in genere per l’intera struttura industriale del paese”.

La attuale crisi dell’occupazione si può identificare proprio nell’incapacità, da parte della classe dominante – politica e degli imprenditori – di prevedere i bisogni, dalla mancanza di previsioni lungimiranti, dalla conquista del vantaggio puramente finanziario a breve termine.

Eppure la necessità di una programmazione delle merci era ben presente già negli anni sessanta, caratterizzati da enormi sprechi: fabbriche petrolchimiche costruite da spregiudicati imprenditori privati con pubblico denaro, che non hanno mai prodotto un chilo di merce; previsioni da parte di dirigenti di industrie pubbliche, di fabbriche assurde nei luoghi assurdi.

Si pensi ai progetti dell’IRI per il centro siderurgico di Gioia Tauro, destinato a fabbricare merci sbagliate nel posto sbagliato; si pensi ai programmi del 1975 che prevedevano la costruzione di sessanta centrali nucleari, alla già ricordata chiusura, nel 1972, delle miniere di carbone del Sulcis.

Sono state sbeffeggiate le leggi che cercavano di porre una limitazione all’uso delle materie plastiche, dei clorofluorocarburi (responsabili della distruzione dell’ozono stratosferico), dell’amianto responsabile di tumori ai polmoni, le leggi che imponevano processi e merci meno inquinanti, che prevedevano migliori condizioni di lavoro nelle fabbriche e nei cantieri.

Tornano in mente, e appaiono del tutto attuali, le parole di Enrico Berlinguer scritte su Rinascita del 24 agosto 1979, e tante volte ripetute con la bocca, ma rimaste inattuate nell’operare politico ed economico:

“Oggi, da movimenti di massa e d’opinione che interessano milioni di persone, è posto in discussione il significato, il senso stesso dello sviluppo, o, come veniva recentemente osservato, il che cosa produrre, il perché produrre”.

L’articolo continuava auspicando una “politica economica nuova nella quale i problemi della quantità dello sviluppo e della sua qualità, della sua espansione e delle sue finalità si saldino e si esprimano … anche sulla forma e la qualità dei consumi e quindi sul processo stesso di accumulazione.”

Allora, alla fine degli anni settanta, la svolta fu frenata dalle forze conservatrici che ben capivano – e appare chiaro oggi – che lo spreco era l’unica condizione per costruire ricchezze personali e potere a spese della collettività.

Le industrie italiane sono state spostate all’estero alla ricerca di mano d’opera a basso prezzo, con la creazione di vaste aree di disoccupazione interna; sono cresciute le importazioni di merci e le merci sono state imposte come desiderabili attraverso le raffinate tecniche pubblicitarie, il che richiedeva il controllo dei grandi mezzi di comunicazione e del consenso da parte non degli industriali, ma del capitale finanziario.

E per la conquista di una crescente quantità di merci – di questi “esseri ostili”, come scriveva Marx oltre 150 anni fa – occorre una crescente quantità di denaro, ottenibile soltanto con “reciproco inganno e reciproche spoliazioni”.

Anche per arginare questa situazione di degrado, economico e morale insieme, occorre che la svolta politica, chiesta a gran voce dal paese, sia anche una svolta nelle scelte economiche e produttive, nell’organizzazione delle città e nella salvaguardia dell’ambiente.

Un progetto per la struttura produttiva del paese non coinvolge soltanto il tipo e la qualità delle merci, ma anche la localizzazione della attività produttiva.

L’industrializzazione del Mezzogiorno si rivela, oggi, come una serie di errori, di occasioni perdute, di fabbriche sbagliate, poste nel luogo sbagliato, pagate con pubblico denaro, con effetti devastanti sul territorio e sull’organizzazione sociale del Sud, proprio in contrasto con quanto suggeriva la cultura urbanistica e ambientalista che pure esisteva in Italia.

Ripartiamo da qui?

La proposta di progetto a medio termine, elaborato da una commissione nominata dal Comitato centrale del Partito comunista italiano, fu esaminata dallo stesso Comitato centrale il 13 maggio 1977 e avrebbe dovuto dare luogo ad una discussione nel paese; una certa discussione c’è stata, ma nessuna delle idee esposte è stata attuata, neanche nelle zone in cui le sinistre sono state al governo, nelle azioni e nelle proposte parlamentari.

Di conseguenza il degrado ambientale si è aggravato, il divario fra Nord e Sud d’Italia si è allargato con la contaminazione della criminalità che si è arricchita a spese dello stato, della collettività e dell’ambiente.

La tensione fra Nord e Sud del mondo è cresciuta: i prezzi delle materie prime sono stati tenuti bassi soffocando nel sangue, quando c’è stata, la ribellione dei paesi esportatori di fibre tessili, cereali, carne, prodotti forestali, minerali, fonti di energia, sostenendo governi fantoccio succubi dei paesi del Nord del mondo. La globalizzazione ha messo in moto, nei paesi del Nord del mondo una comune politica imperialista nei confronti dei paesi del Sud del mondo.

Nel Nord del mondo la congestione delle città si è aggravata, la compromissione a livello planetario è cresciuta, le molte leggi ecologiche sono più o meno violate; il crollo dei paesi a economia (più o meno) pianificata ha diffuso il credo del libero mercato con rapida crescita degli effetti devastanti sulle comunità sociali e sull’ambiente.

La capacità di lotta per migliori condizioni di lavoro nelle fabbriche, contro le fabbriche inquinanti, contro la speculazione edilizia, si è affievolita in una ecologia-spettacolo che lascia sempre più ampio spazio ai nemici della natura.

La comunità umana, che continua a crescere in ragione di oltre settanta milioni di persone all’anno, è in condizioni sempre più insostenibili.

Il dibattito, le proposte di cambiamento di un quarto di secolo fa sono stati dimenticati, ma le proposte sono ancora sensate, anzi sono le uniche che possono costituire la base di un “programma” di lavoro politico. Se si ricominciasse a “far politica” da questo punto?

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