La Laudato si’ è indubbiamente una delle encicliche più innovative, dopo la stagione dei due papi conciliari, Giovanni XXIII e Paolo VI. Celebrata dal variegato e (almeno in Italia) disperso movimento ecologista, sostanzialmente ignorata dagli intellettuali, dai politici, dai manager, dagli organi di informazione del sistema dominante, dopo cinque anni è indubbiamente utile riprenderla in mano. Ci stimolano a questo proposito due pubblicazioni che, pur nella diversa matrice, l’una espressione diretta della Chiesa cattolica e l’altra del mondo laico “critico”, si pongono lo stesso obiettivo: rilanciare la portata rivoluzionaria dell’enciclica, in occasione del quinquennio della sua edizione, cercando di tradurre il suo messaggio in obiettivi concreti e dettagliati, in piattaforme e linee guida per l’agire individuale e collettivo (Tavolo interdicasteriale della Santa Sede sull’ecologia integrale, In cammino per la cura della casa comune a cinque anni dalla Laudato si’, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020; Associazione Laudato si’. Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale, Niente di questo mondo ci risulta indifferente, Interno4 Edizioni, Firenze 2020).
Prima di darne conto, seppur sommariamente, trattandosi di materiali densi di contenuti, è forse necessario un breve excursus storico del non sempre lineare rapporto della Chiesa cattolica con la questione ecologica.
Il ritardo della Chiesa cattolica nell’elaborare una propria visione della crisi ecologica è comunque evidente: se si escludono alcuni riferimenti in discorsi ed encicliche dell’ultima parte del pontificato di Woytila e di quello di Ratzinger tesi ad avviare una riflessione sulla questione ambientale e sul rapporto tra fede e protezione della natura, nonchè intuizioni profetiche di singoli esponenti della teologia della liberazione, come Leonardo Boff ed il suo Grido della terra, grido dei poveri. Per una ecologia cosmica (Cittadella 1996), occorre risalire ai primi anni Settanta per rintracciare un interesse esplicito e diretto della Chiesa cattolica al tema, in occasione della prima Conferenza dell’Onu sull’ambiente tenuta a Stoccolma nel 1972. Come ricostruisce puntualmente con dovizia di documenti Luigi Piccioni (L. Piccioni, Chiesa ed ecologia 1970-1972: un dialogo interrotto in “I quaderni di Altronovecento” n. 10, Fondazione Micheletti, 2018. http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/Default.aspx?id_articolo=38) fu quella una straordinaria occasione per la Chiesa cattolica di incrociare positivamente la “primavera ecologica” che proprio in quegli anni stava sbocciando nel mondo grazie all’opera pionieristica di alcuni scienziati e movimenti. Un’occasione però, in gran parte sprecata. Eppure, si trattava all’epoca della Chiesa erede del Concilio Vaticano II, che si era aperta al mondo con il discorso all’Onu (1965) di papa Paolo VI, autore dell’enciclica Populorum progressio (1967) e che, attenta a leggere “i segni dei tempi”, si rivolgeva a “tutti gli uomini di buona volontà”. Quindi, quando l’Onu decise di organizzare la prima conferenza mondiale sull’ambiente, a fine 1970 si rivolse al Vaticano invitandolo ufficialmente a parteciparvi.
Per la Chiesa si trattò di una sollecitazione imprevista, che la trovava poco o per nulla attrezzata ad affrontare una tematica del tutto inusitata. I grandi temi della società contemporanea oggetto di dibattito nel Concilio e di elaborazione in particolare nella costituzione Gaudium et spes e successivamente nella stessa enciclica Populorum progressio erano quelli dello sviluppo ineguale tra Primo e Terzo mondo, della necessità di una distribuzione più equa della ricchezza tra i popoli come condizione per una pace duratura, temi sociali a tutto tondo che non contemplavano nel proprio orizzonte il versante del rapporto critico dell’economia umana con l’ambiente naturale.
Fu dunque una corsa contro il tempo, quella ingaggiata dal Vaticano per organizzare una propria partecipazione consapevole e propositiva alla Conferenza dell’Onu. Una corsa che vide protagoniste due figure di prim’ordine, l’una, da parte ecclesiastica, in qualità di intellettuale di punta e sociologo, il gesuita Bartolomeo Sorge, l’altra, da parte sempre cattolica, ma laica, in qualità di scienziato ecologista, Giorgio Nebbia. A questo livello il dialogo fu estremamente produttivo e l’elaborazione di grande rilevanza: tutti i temi della crisi ecologica e dell’intreccio della stessa con la crisi sociale erano puntualmente delineati, anche quelli più aspri, come la critica alla tecnica e alla crescita illimitata. Documenti che potrebbero essere letti ancora oggi per comprendere in profondità la questione ambientale. Ma tutto questa elaborazione fu in gran parte ignorata sia nella presentazione ufficiale della posizione del Vaticano alla Conferenza sia nel breve messaggio di Paolo VI. La preoccupazione prevalente del Vaticano fu, da un canto, di farsi carico delle resistenze delle nazioni del Terzo Mondo rispetto ad un ecologismo “egoistico” dei Paesi ricchi che sembrava nei fatti ostacolare il loro sviluppo, dall’altro, di ribadire con forza ogni contrarietà al controllo delle nascite come strumento per contenere l’esplosione demografica, allora problema di grande attualità anche all’interno del mondo ecologista.
Sta di fatto che la tematica ecologica negli anni successivi è stata rapidamente archiviata dalla Chiesa cattolica. “Alla metà degli anni Settanta, insomma, l’inserimento della questione ambientale nell’agenda di Iustitia et pax era sostanzialmente fallito: pace, sviluppo economico della parte più povera dell’umanità, diritti umani e giustizia sociale erano le grandi questioni su cui la commissione era nata per volontà della maggioranza conciliare e di Paolo VI e rimanevano quelle su cui essa continuava a misurarsi in larga prevalenza. Non a caso al momento del rinnovo dei membri della commissione, nel 1976, la presenza di Giorgio Nebbia non venne ritenuta più strategica. Il tentativo di presa in carico della questione ambientale da parte della Chiesa cattolica si esaurì dunque già nel corso del 1972, rapidamente come si era affermato tra l’autunno del 1970 e i mesi successivi alla conferenza di Stoccolma” (L. Piccioni, op. cit., p. 46).
Come rileva Piccioni, in questa rimozione, giocò una cultura teologica di lungo periodo, quella di una visione antropocentrica della Genesi, rafforzata dalla peculiarità propria del Cristianesimo centrato sulla figura di Cristo, di un Dio che si fa uomo e che nel contempo induce l’uomo in qualche modo a condividerne la divinità (De imitatione Christi). E per quanto concerne l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della tecnica moderna, rimaneva all’epoca come costante, per nulla scalfita dal rinnovamento conciliare, la visione inaugurata da Leone XIII, alla fine dell’Ottocento, in particolare con la Rerum novarum (1891), la celebrata prima enciclica sociale della Chiesa, troppo fraintesa e poco studiata criticamente. Quello leonino fu un pontificato straordinariamente forte, come poteva lasciar presagire il nome che scelse il cardinal Pecci al suo insediamento e come riconoscono tutti gli studiosi di storia della Chiesa: la sua impronta definì per quasi un secolo la posizione della Chiesa nei confronti della modernità, rimasta sostanzialmente immutata fino a Papa Giovanni XXIII ed al Concilio Vaticano II. Un pontificato molto politico, esplicitamente e convintamente interventista nelle vicende terrene contemporanee. Fu questo il vero tratto innovatore rispetto al predecessore Pio IX, il quale di fronte alla modernità, da un canto ne ribadì l’assoluta e totale condanna con il Sillabo, dall’altro condusse la Chiesa a ritrarsi nelle proprie casematte, in una posizione difensiva che poteva risultare alla lunga sterile. Questo indebolimento della Chiesa venne percepito fin da subito da Leone XIII che quindi si impegnò per ricollocarla al centro della scena internazionale: dunque la guerra contro la modernità, perché fosse efficace e vincente per la Chiesa, doveva essere ingaggiata in campo aperto, sul terreno dei grandi cambiamenti economici e sociali in corso, in una contesa aspra, militante, con le società liberali.
Inoltre Leone XIII comprese che alcuni aspetti della modernità, l’industrializzazione e la tecnologia, ovvero la civiltà termo-industriale che si stava convulsamente sviluppando con la scoperta dei fossili, era un fiume in piena impetuoso che era impossibile sbarrare. La Chiesa rischiava l’irrilevanza se avesse mantenuto un atteggiamento di totale rifiuto del nuovo, espresso icasticamente da Gregorio XVI, quando bollò come un “satana su rotaia” il primo treno in Italia che il 13 ottobre 1839 ansimò sbuffando sui sette chilometri da Napoli a Portici.
Leone XIII, invece, comprese che quei processi tecnologici, economici e sociali, a dispetto della “scomunica” pontificia, si stavano affermando, e che andavano coinvolgendo sempre più estese masse di popolazione, le quali rischiavano di essere scristianizzate dalle ideologie che quel processo assecondavano, liberalismo e socialismo innanzitutto. Ebbene, in quell’agone la Chiesa doveva scendere in campo, accettando la sfida della modernità proprio sul terreno economico e sociale, con l’obiettivo di cristianizzare la modernità stessa, sconfiggendo le ideologie razionaliste e laiciste che si erano affermate con l’Ottantanove. L’obiettivo, apparentemente paradossale, era quello di affermare una sorta di “teocrazia della modernità”, ovvero ripristinare il primato assoluto della Chiesa, di impronta medievale, nel mondo nuovo delle innovazioni tecnologiche, della produzione industriale e delle conseguenti trasformazioni sociali, le “cose nuove” per l’appunto: la Cristianità che torna a governare anche il mondo moderno, reinserendolo in quella civiltà cristiana e in quella visione del mondo che il Medioevo aveva cristallizzato come ordine naturale delle cose modellato dal disegno soprannaturale divino, guidata dal tomismo, diventato dottrina ufficiale della Chiesa leonina. La “sensibilità sociale” di Leone XIII ha oscurato il tratto profondamente reazionario ed antisemita del suo pontificato, che ad una lettura superficiale potrebbe sembrare incomprensibile. Ma, in qualche modo papa Pecci anticipava, così, un’evoluzione del pensiero reazionario che, in particolare nei primi decenni del Novecento, permetterà ai partiti fascisti di conquistare il potere in alcuni Paesi europei e di ambire all’egemonia ed al dominio sul mondo. Come è stato acutamente analizzato, i fascismi si affermarono proprio perché seppero realizzare un connubio apparentemente innaturale tra pensiero reazionario e tecnica moderna, definito “modernismo reazionario” o “modernità totalitaria”.
Dunque, se da un canto Leone XIII gettò la Chiesa e i cattolici nell’agone politico e sociale, dall’altro si preoccupò con grande energia di restaurare una rigida ortodossia teologica, il tomismo, e di ribadire la più ferma condanna delle ideologie che avevano ispirato la modernità: il liberalismo, il socialismo e l’ebraismo che in gran parte le avrebbe ispirate. Ed anche il lato sociale presente nella Rerum Novarum è un dato in verità ricorrente nel pensiero politico reazionario tra Ottocento e Novecento. Lo si vedrà, in particolare, con il fascismo italiano, nel programma del 1919 ripreso poi con la Carta di Verona della Repubblica sociale; lo si vedrà nel movimento politico costruito da Hitler, non incidentalmente chiamato Partito nazionalsocialista dei lavoratori, con la bandiera su fondo rosso, colore intenzionalmente mutuato dai vessilli del movimento operaio e socialista. Almeno nei programmi, il pensiero reazionario e antimoderno spesso adottò accenti anticapitalisti, essendo anche il capitalismo in certo modo filiazione del liberalismo, e si cimentò sul piano sociale proprio con l’obiettivo di sottrarre le masse operaie all’influenza del socialismo, divenuto ormai più pericoloso e temibile dello stesso liberalismo. Ma ai fini della riflessione che andiamo facendo, ciò che conta, è che le “cose nuove”, innovazione tecnologica e società industriale con Leoni XIII ricevono una sorta di “benedizione” dalla Chiesa cattolica, gli scienziati e gli industriali si sentono legittimati come continuatori dell’opera creatrice divina. E il concilio Vaticano II, se ha liberato la Chiesa dal progetto reazionario di costruire una sorta di teocrazia della modernità e ha finalmente intessuto un dialogo con le culture contemporanee democratiche e socialiste, si è mosso, invece, in sostanziale continuità con la svolta leonina nell’atteggiamento verso le “cose nuove”, di per sé positive e buone.
A questo proposito mi verrebbe di azzardare una considerazione, sulla base del lavoro di studio e ricerca sui territori sottoposti a maggior stress ambientale da parte di un’industrializzazione per nulla accorta. Nel panorama nazionale spiccano alcuni territori particolarmente degradati: la provincia di Brescia (disastroso inquinamento del capoluogo da diossine e PCB Caffaro, capolinea nazionale di rifiuti speciali e pericolosi, acque e aria molto contaminate…) e il Veneto (il “caso” di Porto Marghera e della laguna veneta, l’estesa contaminazione delle falde di diverse province da Pfas…). Territori con una radicata cultura cattolica, veicolata sul piano politico, un tempo, dalla democrazia cristiana e, oggi, in parte dal PD e dalla Lega. Quanto ha giocato in questi territori la convinzione che fare industria era anche un modo per cooperare all’opera creatrice divina? E quanto avrebbe potuto influire, in senso opposto, la proposta “ingenua” di Giorgio Nebbia nel 1971 alla sua Chiesa di dichiarare ufficialmente peccati lo spreco di risorse naturali e l’inquinamento da parte degli industriali?
Questa lunga premessa potrebbe apparire di scarsa utilità. Ma non fare i conti con i cinquant’anni in gran parte perduti dopo la preziosa occasione della prima conferenza sull’ambiente dell’Onu, potrebbe rappresentare un fardello ingombrante nella fase nuova aperta cinque anni fa dalla Laudato Si’.
E una prima osservazione a questo proposito va avanzata: sia nei materiali del Vaticano, sia in quelli dell’associazionismo laico, non si trova un’approfondita analisi critica di come siano andate le cose in questi cinque anni. Il lavoro dell’Associazione Laudato si’, in verità, non può non constatare che “a quasi cinque anni dalla pubblicazione dell’enciclica, non si è prodotta l’auspicata diffusione del grido della Terra nelle coscienze […]. Tantomeno sembra esserne stata risvegliata la politica” (Associazione Laudato si’, op. cit., p. 33), ma, poi, non procede alla necessaria riflessione sulle cause di questa mancata risposta dei popoli e dei governi all’appello urgente del Papa.
Quindi i due testi in esame confidano in un possibile rilancio dei temi posti dall’enciclica papale attraverso una dettagliata articolazione di “piste operative”, nel lessico cattolico, o “obiettivi concreti, iniziative, proposte da articolare a livello territoriale, nazionale e globale”, nel lessico dei movimenti. Ambedue citano in apertura la stessa espressione di Francesco in piena emergenza Covid 19: “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda […] ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme” (Francesco, Meditazione durante il momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, 27 marzo 2020). Un’analoga ispirazione, dunque, rafforzata dalla consapevolezza che la crisi pandemica ha riproposto con rinnovata urgenza la necessità di un profondo ripensamento del rapporto tra uomo e ambiente e tra tecnica e natura. Chi ha vissuto e vive con comprensibile preoccupazione questi strani tempi emergenziali può trovare, quindi, in questi due testi esaurienti percorsi di riflessione, di ricerca e di elaborazione per comprendere in profondità che cosa sta accadendo all’umanità, le cause della crisi attuale e come “insieme” potrebbe essere possibile uscirne.
Alcuni dei titoli dei capitoli in cui si articolano le “piste” e le “proposte” non possono che essere comuni ai due testi, toccando questioni centrali e di particolare emergenza: clima, lavoro, salute.
I materiali prodotti dal Vaticano sono nel complesso più attenti agli aspetti formativi ed etici e alla catechesi, argomenti che occupano il primo capitolo Educazione e conversione ecologica, mentre nel secondo capitolo Ecologia integrale e sviluppo umano integrale articolano più nel dettaglio percorsi che raccolgono in particolare la pluridecennale esperienza di movimenti ecclesiali di base e di associazioni cattoliche in diverse parti del mondo impegnati nei cosiddetti “nuovi stili di vita”, “consumo critico”, “gruppi di acquisto solidale”, “finanza etica”… Proposte che si declinano nei vari campi, oltre ai tre citati, dall’alimentazione, appunto, all’energia, dalla tutela dell’acqua e dei mari alla salvaguardia della biodiversità, dall’economia circolare alla finanza, dall’urbanizzazione alle istituzioni, giustizia e amministrazione pubblica. Tantissime sono le pratiche virtuose che vengono suggerite e che sarebbe importante si diffondessero come una sorta di condivisa “cittadinanza ecologica”, ma non vi è qui lo spazio per ricordarle in dettaglio per cui mi limito a raccomandarne la lettura e ancor più la messa in pratica. Mi sento in dovere, però di segnalare alcune criticità che sembrano emergere laddove si toccano alcuni temi particolarmente caldi e di interesse per settori dell’economia. In questi casi, a volte, l’approccio è molto prudente e persino ambiguo o per lo meno discutibile cosicché sembra attenuarsi quella radicalità che pervade giustamente l’enciclica. Cito, ad esempio, il caso controverso degli OGM per i quali si dice solo: “Promuovere luoghi di dibattito inclusivi di tutte le parti in causa sul tema delle innovazioni agroalimentari derivanti dalla ricerca in ambito genetico (OGM – organismi geneticamente modificati) e finanziare diverse linee di ricerca autonoma e interdisciplinare che possano apportare nuova luce” (Tavolo interdicasteriale della Santa Sede sull’ecologia integrale, op. cit., p. 122). Tenendo conto delle forti pressioni che alcune multinazionali esercitano sul tema, forse era utile ribadire che, in forza del principio di precauzione, in attesa che si faccia piena “luce”, gli OGM vanno banditi dalle produzioni alimentari. Così pure, data la gravità dell’emergenza climatica, non sembra sufficiente richiedere provvedimenti tesi ad attenuare l’impatto dell’estrazione dei fossili, auspicandone il superamento: “Monitorare severamente le attività di esplorazione e di estrazione negli ecosistemi più fragili e nelle attività offshore, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, per evitare che i diritti umani vengano calpestati, che l’acqua, il suolo e l’aria vengano inquinati negligentemente o consapevolmente, coinvolgendo le popolazioni interessate. Ridurre e se possibile abbandonare la combustione di gas naturale in eccesso nei siti di estrazione di idrocarburi (flaring), sviluppando alternative sicure per l’ambiente, per la popolazione e per gli stessi impianti” (Ibidem, pp. 139-140 ) “Promuovere il processo volto a riformare le sovvenzioni ai combustibili fossili e a tassare le emissioni di diossido di carbonio (CO2)”(Ibidem, p. 164). Un altro tema controverso è quello dell’economia circolare, molto caro in particolare alle grandi multiutility che di fatto detengono il monopolio della gestione dei rifiuti, su cui lucrano soprattutto con il cosiddetto recupero energetico, attraverso gli inceneritori: “Promuovere il riuso e il riciclo delle risorse naturali già nel circuito economico, incoraggiare il riuso dei vari rifiuti organici (bioenergia, biocarburanti, compost, …), evitare la produzione di oggetti, materiali e sostanze particolarmente complicati da riciclare (come alcune plastiche multi-strato) e incentivare la ricerca per materiali alternativi. […] Puntare all’adozione di imballaggi facilmente riciclabili o biodegradabili. […] Stimolare il settore privato a “liberare” l’innovazione e a far avanzare la trasparenza della catena di approvvigionamento attraverso regolamenti e incentivi che promuovano il passaggio a un’economia più circolare e a basse emissioni di gas serra” (Ibidem, p. 164). Innanzitutto, decenni di pratiche di incentivi al settore privato insegnano che non è questa la strada per la rivoluzione ecologica che auspichiamo. Inoltre non si può definire “riuso dei vari rifiuti organici” la produzione di “bioenergia” attraverso l’incenerimento e neppure di biocarburanti, e soprattutto queste pratiche non hanno nulla a che vedere con l’“economia circolare”, come ha esplicitamente sancito l’Unione europea. Inoltre, la vera priorità nella gestione dei rifiuti non è il riciclaggio e neppure “imballaggi facilmente riciclabili”, bensì la riduzione drastica a monte della produzione di rifiuti e dell’uso di imballaggi. Una priorità che rinvia alla tematica da sempre cara a Giorgio Nebbia, fin da quel lontano 1972, e che non ricorre con quella centralità che dovrebbe avere nei materiali del Vaticano, ovvero la priorità di porre limiti allo sviluppo e di ridurre i consumi nella prospettiva, come avrebbe detto in anni più recenti lo stesso Nebbia, di una transizione dalla società dell’abbondanza alla società dell’abbastanza. Concludeva Giorgio Nebbia il suo Rapporto alla Commissione Iustitia et pax sulla conferenza di Stoccolma con un icastico punto 15: “Teologia e lode della continenza. La necessità di limitare lo sviluppo produttivo e il possesso di merci per non compromettere le risorse limitate del pianeta comporta una nuova teologia e lode della continenza attraverso la proposta di nuovi valori, come il rispetto del prossimo, delle altre creature della terra, della natura e dell’ambiente” (L. Piccioni, op. cit., p. 244) , riprendendo una riflessione già avanzata in un materiale preparatorio alla stessa Conferenza: “Assumono così nuovo significato le parole di Paolo nella prima lettera a Timoteo 6, 6-7: ‘La pietà è infatti una fonte di grande guadagno accompagnata dal contentarsi di ciò che si ha, perché nulla abbiamo portato nel mondo e nulla, senza dubbio, possiamo portare via’, col loro invito alla continenza nel possesso, continenza che, anche se impopolare, pure è così squisitamente cristiana e che costituisce la vera guida per una nuova saggezza ecologica (Ibidem, p. 108).
I materiali prodotti dall’Associazione Laudato Si’ hanno indubbiamente un carattere più direttamente politico. Questa pubblicazione nasce da un percorso avviato da Mario Agostinelli, ingegnere dell’Enea e poi al Cnr di Ispra, diventato negli anni Settanta dirigente sindacalista della Cgil, quindi consigliere alla Regione Lombardia, più recentemente animatore dell’associazione Energia felice, autore di diverse pubblicazioni sui temi energetici e ambientali. Si tratta, anche in questo caso, di una elaborazione collettiva come viene puntualmente ricostruito nella nota introduttiva:
“I semi che hanno condotto al libro sono stati gettati nel corso di un Forum promosso dall’associazione Laudato si’ nel gennaio 2019, dal titolo Un’alleanza per il clima, la Terra e la
giustizia sociale, quando, al termine di una giornata densa di interventi e testimonianze, i convenuti – credenti e non credenti, espressione di diversi e talvolta distanti ambiti di militanza e partecipazione – decisero di prendere a comune riferimento l’enciclica, riconoscendola come un percorso pienamente politico, capace di tenere in un medesimo orizzonte tradizioni spirituali, concezioni ecologiche, cosmogonie dei nativi, lotte dei movimenti popolari di tutto il mondo. Nel suo essere così esplicitamente rivolta alla giustizia sociale, alla cura della casa comune, a una pratica di resistenza culturale, educativa e comunicativa, la Laudato si’ venne interpretata come un ponte, un territorio condiviso da cui partire per rimarginare frammentazioni e gettare nuove fondamenta per un cambiamento radicale che esige come prima cosa di guardare in faccia le conseguenze e le cause di un dominio che calpesta esseri umani, territori ed ecosistemi, lasciando dietro di sé solo scarti.
In quella sede venne deciso di redigere un testo da mettere a disposizione della società civile, della cittadinanza e delle istituzioni, così da contribuire a colmare il vuoto di elaborazione teorica e politica nel quale, da anni, sembra erodersi il principio democratico della rappresentanza.
Nel giugno 2019 venne stampato e distribuito un documento programmatico che assumeva come progetto politico la giustizia sociale, ambientale e climatica, la cura del vivente, il diritto alla bellezza, la mitezza dei linguaggi, con una traduzione in obiettivi concreti, iniziative, campagne territoriali, nazionali e globali. Quel testo iniziale, frutto di una pluralità di esperienze e linguaggi che, nella loro ricchezza, non potevano essere stretti nella reductio ad unum, è stato successivamente arricchito e precisato in incontri e seminari – un’esperienza che già di per sé ha costituito una pratica politica – e infine ampliato, corredato di dati statistici, documenti e fonti, così che la realtà potesse parlare nel modo il più possibile distaccato e scevro da ideologia” (Associazione Laudato si’, op. cit., pp. 27-28).
Si tratta, quindi, anche e innanzitutto di un’opera di pregevole divulgazione, ricca di contenuti e di informazioni, scritta con un linguaggio non specialistico ma nel contempo rigoroso. Il lettore vi trova il condensato di sapere essenziale per comprendere le cause dell’attuale crisi ecologica e sociale e per intravvederne le possibili vie d’uscita, declinate nei singoli temi che titolano i diciotto capitoli: clima; depredazione ambientale; migranti e profughi; accoglienza, cittadinanza, democrazia; una comunità euro-afro-mediterranea; povertà ed economia dello scarto; finanza, debito, stato di diritto; conversione ecologica; beni comuni, territori e luoghi; vivente; ecofemminismo; lavoro; stili di vita; tutelare la salute; la «guerra mondiale a pezzi»; la minaccia nucleare; umano, virtuale e artificiale; per una nuova pedagogia degli oppressi. Diciotto capitoli sono già molti, tuttavia mi permetto di segnalare due temi che meriterebbero una specifica trattazione. Il primo ha a che fare con quanto Giorgio Nebbia con caparbietà, riprendendo una felice formulazione di Lewis Mumford, ci ha sempre spiegato, ovvero che per il cambio di paradigma richiesto dalla crisi ecologica, occorre fuoriuscire dalla paleotecnica del sistema termoindustriale basato sui fossili ed inaugurare una neotecnica, in gran parte da inventare e costruire con una ricerca scientifica innovativa ad esse finalizzata. Ma questa neotecnica non può venire dall’iniziativa privata di un sistema economico piegato al massimo e immediato profitto, ma neppure dal basso dalle cosiddette pratiche virtuose o stili di vita. Dunque è ineludibile, a mio parere, un massiccio intervento pubblico nella ricerca scientifica, nell’innovazione tecnologica e nell’economia, finalizzato appunto alla rivoluzione ecologica “neotecnica”, ma anche alla giustizia sociale. Il secondo tema è quello caro a Salvatore Settis e a Tomaso Montanari, tra gli altri, che fa riferimento alla straordinaria intuizione dei padri costituenti che hanno inserito nello stesso articolo 9 la tutela sia della natura che dell’arte: di certo non avevano contezza della crisi ecologica che sarebbe sopravvenuta, ma tuttavia vollero statuire questo profondo legame tra bellezza degli artefatti artistici e culturali e la bellezza del paesaggio naturale e del loro valore fondante per una nazione, per un popolo, per l’umanità. In effetti l’arte potrebbe insegnare molto all’umanità nel ridefinire il suo rapporto con la natura. Il patrimonio monumentale ed artistico è un prodotto artificiale dell’attività umana, un pezzo della tecnosfera sovrapposta alla biosfera, e quindi soggetto anch’esso alla legge dell’entropia, come ci ha insegnato Georgescu-Roegen. Però in misura molto limitata, in certi casi quasi nulla: se curato e accudito non solo si oppone al destino di tutti gli altri prodotti dell’uomo, diventare rifiuti, ma, anzi, col tempo acquista sempre più valore culturale, perché ci permette di dialogare con civiltà del passato, anche remote, di sentirne e condividerne le peculiarità originali, emozionarci per le diverse forme della creatività e del genio umano: si potrebbe dire che l’opera d’arte, dal punto di vista ecologico, è esattamente l’opposto degli oggetti “usa e getta”, l’unica che si potrebbe definire davvero “sostenibile”, “durevole”, ovviamente se sottratta alle logiche del mercato capitalistico e tutelata dalla collettività. Si potrebbe allora pensare ad un’alleanza tra tutti coloro che hanno davvero a cuore la tutela del patrimonio storico ed artistico, in quanto fonte di spiriti liberi e critici, e coloro che testardamente pensano inaccettabile, perché distruttivo dell’ambiente e degli umani, un sistema economico regolato dal mercato e dal profitto e pretendono una società le cui priorità siano la tutela della natura e la giustizia sociale, l’unica prospettiva capace di futuro.
Tornando ai materiali pubblicati dall’Associazione Laudato si’, occorre precisare che, ovviamente, non si tratta di un programma politico riconducibile ad una possibile formazione partitica: l’orizzonte è giustamente senza limiti di spazio e di tempo, vi si prefigura un’altra visione del mondo possibile, ma tutta da costruire in un futuro che, se richiede urgenza, ha bisogno anche di profondi cambiamenti culturali e di sommovimenti sociali di notevole portata. Con grande onestà gli estensori circoscrivono gli scopi della pubblicazione: “Una grande presa di coscienza di uomini e donne, perché non è dalle concentrazioni del potere che possiamo aspettarci una via d’uscita, ma dalla forza con cui organizzazioni, società civile, sindacati e movimenti prenderanno la strada dell’autoeducazione, dell’autoformazione, della responsabilità” (Ibidem, p. 25). “Dire la verità, agire adesso, convocare assemblee di cittadini: sono i tre punti indicati dagli attivisti che nel mondo si mobilitano contro la prospettiva dell’estinzione” (Ibidem, p. 36). Un compito comunque di grande rilevanza, precondizione per la necessaria rivoluzione ecologica. Perché questa si realizzi, a parere dello scrivente, non si può prescindere dall’attivazione di importanti movimenti di massa e di un’estesa e potente conflittualità per piegare quell’economia capitalista che per cinquant’anni ha saputo contrastare con grande efficacia le istanze della “primavera ecologica” perpetuando e, anzi, accentuando un sistema predatorio e distruttivo dell’ambiente e iniquo nei confronti della maggioranza dell’umanità. Ma quella conflittualità di massa per esprimersi deve essere anche “sapiente” e per questo sono preziosi i due testi che ci vengono offerti in occasione dei cinque anni dalla Laudato si’.