Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Storia naturale del cibo

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Articolo pubblicato per la prima volta in “Energie&Ambiente”, Marzo -Novembre 2014.

Impatto ambientale della produzione e del consumo alimentare sulla risorsa idrica

Ogni persona per vivere ha bisogno, in media, ogni anno di circa 500 chilogrammi di alimenti costituiti principalmente da carboidrati, come lo zucchero o l’amido dei cereali o delle patate, da grassi come gli oli e il burro, da proteine provenienti dagli alimenti vegetali ed animali (le proteine della carne, delle uova e del latte sono di qualità biologica migliore di quella delle proteine dei cereali) e da fibre cellulosiche contenute nelle verdure e nella frutta. Circa la metà del peso degli alimenti “consumati” ogni anno da una persona è costituita da acqua; ogni persona inoltre ha bisogno di circa 1000 kg all’anno di acqua “alimentare”.

Questa massa di materiali viene fornita da un complesso ciclo di trasformazioni che comincia nei campi e nei prati in cui l’energia solare, attraverso la fotosintesi, “produce” la biomassa vegetale; semi, tuberi, frutti, foglie. Di questa solo una parte diventa alimenti per l’uomo; una parte viene utilizzata per l’alimentazione degli animali da allevamento da cui si ricavano proteine pregiate. I prodotti vegetali e animali, prima di diventare alimenti per le persone passano attraverso operazioni di trattamento, trasformazione e conservazione: i prodotti risultanti passano poi attraverso negozi e impianti di distribuzione prima di arrivare al “consumatore” rappresentato dalle famiglie e dalla ristorazione collettiva; alla fine i prodotti del metabolismo animale e umano, di trasformazione, appunto del cibo, tornano la gran parte come residui ed escrementi nei corpi riceventi naturali, veicolati da un flusso di acque di rifiuto.

La “storia naturale” del cibo umano comincia con le attività agricole nelle quali la formazione della biomassa vegetale avviene col contributo di grandi quantità di acqua ricavata dal suolo e dalle piogge. Questa acqua viene chiamata “verde” per distinguerla da quella “blue” fornita dall’irrigazione. Una parte dell’acqua applicata ai campi viene perduta per evaporazione dal suolo, una parte è perduta durante il ciclo vegetativo per evapotraspirazione e torna nell’atmosfera; una parte resta conglobata all’interno della biomassa vegetale e una parte viene assorbita dal suolo e raggiunge le falde idriche sotterranee, spesso trascinando con se una parte delle sostanze solubili incontrate nel terreno.

La quantità di acqua conglobata nella biomassa vegetale varia molto, da circa 10 % nei semi fino al 90 % nelle foglie e nei frutti. Per farla breve, si può calcolare che da 1 tonnellata di biomassa vegetale, ottenuta con l’uso di 100-200 tonnellate di acqua piovana o di irrigazione e contenente “incorporati” circa 500 kg di acqua, si ricavino circa 500 kg di prodotti destinati all’alimentazione del bestiame e all’industria di trasformazione, contenenti a loro volta circa 250 chili di acqua.

Gli alimenti di maggiore valore biologico sono forniti dall’allevamento di bovini, suini, pollame, alimentati con parte dei vegetali forniti dall’agricoltura. Il metabolismo animale comporta l’assorbimento, ogni anno, per ogni tonnellata di peso vivo, da 2 a 10 tonnellate di biomassa vegetale (sotto forma di erba e mangimi, contenenti circa la metà del loro peso di acqua) a cui vanno aggiunti, come acqua alimentare, da 10 a 20 t di acqua da bere.

Questa acqua viene in parte perduta come vapore nei processi di respirazione e in parte viene eliminata come escrementi, urine e feci, che contengono una parte dei prodotti del metabolismo animale. Una parte dell’acqua assorbita viene incorporata all’interno dell’animale e si ritrova nel “peso vivo” del corpo destinato alla macellazione; una parte si ritrova nel latte e nelle uova.

La biomassa vegetale e animale non viene utilizzata direttamente nell’alimentazione umana. In agricoltura la parte della biomassa vegetale destinata all’alimentazione umana si forma insieme ad una massa da due a cinque volte superiore di materiali, per lo più cellulosici (paglia, tutuli, pannelli oleosi, polpe, eccetera) che contengono una parte dell’acqua assorbita durante il ciclo vegetativo e che finiscono nell’ambiente come scarti o residui. La parte contenente le sostanze nutritive viene sottoposta a vari processi di trasformazione per ottenere gli alimenti veri e propri.

I cereali vengono macinati e trasformati in sfarinati e poi, nel caso del frumento, in pane, pasta e dolciumi, con una perdita di biomassa sotto forma di cruscami. Lo zucchero viene separato dalle barbabietole (in Italia e in Europa, dalla canna nei paesi tropicali) con una resa di circa il 20 % rispetto al peso delle piante trattate. Gli oli e grassi sono separati dai frutti o dai semi oleosi mediante processi di estrazione che lasciano pannelli e residui contenenti anch’essi una parte dell’acqua assorbita nel ciclo vegetativo. Lo stesso avviene nei processi di trasformazione e conservazione dei frutti, nella produzione di conserve, bevande alcoliche, eccetera.

Altre perdite di biomassa e della sua acqua si hanno nei processi di macellazione: si può stimare che da circa 1000 kg di “peso vivo” animale, con un contenuto di circa 500 kg di acqua, si ricavino circa 500 kg di “peso morto” dell’animale (la “perdita” è costituita da pelle, sangue, interiora, eccetera, il cosiddetto “quinto quarto”). Dai 500 kg di “peso morto”, contenente anche questo circa la metà del suo peso di acqua, si ottengono i vari “quarti” che saranno trasformati in prodotti conservati o avviati al consumo diretto nelle macellerie.

Ciascuna delle numerose operazioni dell’industria agroalimentare comporta la richiesta di acqua a genera sottoprodotti e rifiuti liquidi e solidi. Molto approssimativamente, si può stimare che, dall’originale tonnellata di biomassa vegetale, dopo i processi di trasformazione e conservazione, si possa ottenere un peso secco di circa 100 kg di alimenti, in media di circa 200 chili di alimenti tali-e-quali, cioè con il loro contenuto di acqua. Benché approssimativi, questi calcoli non sono molto lontani dalla realtà; infatti, per esempio, i circa 30 milioni di tonnellate di prodotti alimentari “consumati” ogni anno dai 60 milioni di abitanti dell’Italia richiedono un flusso di circa 40.000 milioni di tonnellate di acqua nei settori agricoli e zootecnici. Per l’alimentazione dei 7.000 milioni di abitanti della Terra si stima che vengano sottratti dalle riserve naturali, ogni anno, circa 3.500 miliardi di tonnellate di acqua; insomma, per la sola parte agricola, si può stimare che nel mondo, per sfamare una persona, occorra, molto approssimativamente, in media, ogni anno, un flusso di circa 500 tonnellate di acqua.

Ma l’acqua occorre anche nelle successive fasi di distribuzione e soprattutto di uso degli alimenti nelle famiglie e nella ristorazione. Si è accennato all’inizio che ogni anno una persona media assorbe circa 250 kg di acqua “contenuta” negli alimenti e circa 1000 kg di acqua “alimentare”. Anche nel metabolismo umano, come in quello animale, una parte dell’acqua è eliminata con la respirazione e traspirazione e una parte con gli escrementi. In realtà nel processo di uso degli alimenti da parte degli esseri umani la quantità di acqua necessaria è molto maggiore e comprende quella necessaria per la cottura, per l’eliminazione dei residui di cibo, per lo smaltimento degli escrementi, in media circa 100 tonnellate all’anno per persona, una quantità più di 50 volte superiore a quella minima necessaria per le funzioni vitali.

Una parte dell’acqua impiegata per la produzione degli alimenti acquistati va a finire, ed è “perduta”, negli scarti alimentari, nel cibo che non è stato consumato o che è stato acquistato in eccesso, o che è stato fatto scadere, o rifiutato dalle famiglie e dai ristoranti; la massa di tali sprechi e rifiuti si calcola, in Italia, di alcuni milioni di tonnellate all’anno, metà delle quali costituite da acqua. Nell’insieme in Italia si può stimare che il flusso di acqua associato al solo “consumo” degli alimenti ammonti a circa 4.000 milioni di tonnellate all’anno.

Davanti alle quantità così rilevanti di una risorsa naturali non illimitata come l’acqua, assorbita per assicurare l’alimentazione umana, viene spontaneo chiedersi se è possibile contenere gli sprechi e le irrazionalità, maggiori o minori nei vari paesi del mondo a seconda del tipo di coltivazioni o di allevamento, a seconda del clima, e quindi del contributo delle acque piovane, a seconda delle tecniche di irrigazione e del “costo” monetario dell’acqua di irrigazione. Negli anni recenti il problema si è ancora aggravato a causa dei mutamenti climatici in atto, conseguenti l’immissione nell’atmosfera dei “gas serra”, alcuni dei quali, come il metano o gli ossidi di azoto, provenienti dalla stessa agricoltura e zootecnia, e ci sono motivi per ritenere che la situazione si aggraverà ancora di più col tempo.

Il problema dell’uso dell’acqua in agricoltura è stato affrontato nel 1991 dalla Commissione Agricoltura del Senato (Xa Legislatura, Doc. XVII, n. 17, gennaio 1992). Da tale indagine emersero molti dati sugli effettivi fabbisogni di acqua nelle varie coltivazioni e sulle tecniche che consentirebbero una diminuzione degli sprechi, su nuove tecniche di irrigazione e sulle iniziative per difendere le acque sotterranee, quelle a cui l’agricoltura maggiormente attinge per l’irrigazione, dagli inquinamenti provocati da un uso eccessivo di concimi azotati, dai reflui delle attività zootecniche, dell’avanzata delle acqua saline in seguito all’abbassamento delle falde idriche sotterranee a causa di un eccessivo prelievo.

Ancora più interessante sarebbe conoscere esattamente quanta acqua viene utilizzata per “produrre” una unità di peso di cibo o una unità di peso di sostanze nutritive. Un capitolo dell’economia ambientale si occupa della caratterizzazione del “valore” delle merci con altri indicatori, diversi da quelli monetari, ”fisici”, come il “costo” in acqua o in energia o l’impatto ambientale. Sono stati pubblicati molti studi sul “costo in acqua”, talvolta chiamato “impronta”, degli alimenti, con risultati peraltro contradditori perché dipendono dalle parti del complesso ciclo di produzione che sono prese in considerazione.

Ad esempio è stato messo in evidenza che esiste anche un commercio internazionale di acqua, chiamata “virtuale”, “contenuta” negli alimenti importati o esportati; L’esportazione di prodotti agricoli o alimentari contenenti acqua corrisponde all’esportazione anche di una parte dell’acqua sottratta dalle riserve del paese esportatore. Per quel che può valere, alcuni studi hanno indicato che l’acqua “virtuale” delle esportazioni e importazioni alimentari italiane ammonta, rispettivamente, a circa 40 e circa 90 miliardi di tonnellate all’anno.

Il ciclo dell’acqua coinvolta nella produzione e nell’uso degli alimenti umani continua dopo il “consumo”. Tutta l’acqua impiegata ritorna nell’ambiente, per la maggior parte in forma liquida contenente sottoprodotti, scarti e rifiuti delle varie fasi del ciclo; sono le acque inquinate che finiscono nel sottosuolo e l’acqua contenuta nei rifiuti solidi, destinati alle discariche e agli inceneritori, che si “perde” nelle falde sotterranee o come vapore nell’atmosfera.

Già questo poche considerazioni mostrano la complessità della storia naturale del cibo umano e quante incertezze ci siano nella sua conoscenza. Anzi un recente studio delle Nazioni Unite ha detto che più si approfondiscono le varie fasi ambientali dell’intero ciclo dell’alimentazione umana, più si scopre quanto poco se ne sa. Un campo che ci si augura attiri un crescente impegno di agronomi, merceologi, chimici, economisti, statistici, ecologi, stimolati anche dalla necessità di minimizzare l’impatto ambientale se si vuole davvero “nutrire il pianeta” come si propone il tema della prossima esposizione universale Expo 2015 di Milano.

Impatto della produzione alimentare sull’atmosfera

Nell’articolo precedente di questa serie, dedicata agli effetti della produzione alimentare sull’ambiente circostante, si è accennato al ciclo complesso delle attività che cominciano dai campi e finiscono nella nostra cucina per darci il cibo quotidiano. Le sostanze nutritive vegetali prodotte nei “campi” seguono due diversi cammini: una parte è destinata all’alimentazione animale e l’altra alla trasformazione in prodotti commerciali nel complesso di attività dell’industria agroalimentare; i prodotti della zootecnica a loro volta vengono assorbiti dall’industria agroalimentare e trasformati nei prodotti commerciali. Ma anche i prodotti dell’agroindustria, prima di arrivare nelle nostre case e alla ristorazione collettiva – nel seguito chiameremo questi due centri di ”consumo” col nome di “famiglie” – passano attraverso numerose operazioni di trasporto e di distribuzione, fino al negozio da cui acquistiamo i nostri cibi. Infine gli alimenti comprati nei negozi raramente vengono “mangiati” come tali e sono sottoposti quasi sempre a operazioni di trasformazione e cottura.

In tutti questi passaggi gran parte della materia entrata in gioco genera dei rifiuti gassosi; il protagonista di questi cicli complessi è l’elemento carbonio; anzi la produzione e l’uso degli alimenti umani rappresenta, in ciascun paese e nel mondo intero, una parte del ciclo del carbonio planetario, quella di importanza “economica” in quanto gli scambi di materia al suo interno sono gli unici accompagnati anche da scambi di denaro.

Il ciclo del carbonio, come è ben noto, comincia con l’anidride carbonica dell’atmosfera, fissata, grazie all’energia solare, insieme all’acqua, mediante la fotosintesi, nei vegetali, nelle innumerevoli molecole organiche presenti nelle foglie, nei semi, nei tuberi, eccetera. La fotosintesi genera, come “rifiuto”, l’ossigeno che viene ceduto all’aria. Le molecole dei vegetali vengono “acquistate” dagli animali – l’uomo è uno di questi – che le trasformano nelle molecole del proprio corpo e in energia, “acquistando” ossigeno dall’aria e liberando, come “rifiuto”, anidride carbonica e altri gas. Anche le molecole delle scorie solide vegetali e animali in gran parte vengono trasformate, nel suolo e nelle acque, in sostanze gassose che finiscono nell’aria, il grande corpo ricevente.

Le coltivazioni e l’atmosfera

Le coltivazioni agricole, la base del ciclo alimentare, sono interessate ad altri scambi con l’atmosfera, oltre a quelli dell’anidride carbonica e dell’ossigeno che comunque sono rilevanti, dell’ordine di varie tonnellate di ciascuno dei due gas, per ettaro all’anno. La preparazione dei terreni agricoli comporta l’immissione nell’atmosfera di gas e polveri. Le coltivazioni economiche richiedono l’apporto al terreno di concimi; quelli azotati hanno lo scopo di fornire al terreno i nitrati necessari alle piante per la formazione di proteine; tali concimi per lo più vengono utilizzati in una forma chimica, come sali di ammoniaca e come urea, che consenta una lenta trasformazione in nitrati nel suolo. Una parte di questo azoto viene “perduto” nell’atmosfera sotto forma di ammoniaca o di ossidi di azoto. Si stima che il sistema agricolo italiano immetta nell’atmosfera circa mezzo milione di tonnellate all’anno di ammoniaca. Alcune piante, le leguminose, sono capaci di trarre l’azoto necessario per la loro sintesi proteica direttamente dall’azoto gassoso dell’atmosfera grazie a batteri azoto-fissatori presenti per lo più nelle radici. Le coltivazioni di riso, d’altra parte, immettono nell’atmosfera metano, in Italia in una quantità stimata di circa 20.000 tonnellate all’anno, equivalenti, come effetto serra, a circa 1,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Il metano, infatti ha un potere di riscaldamento dell’atmosfera per effetto serra circa 20 volte superiore, a parità di peso, rispetto al principale gas serra, l’anidride carbonica.

Anche la protezione delle colture con pesticidi comporta la distribuzione in forma pulverulenta di questi agenti che in parte finiscono nell’atmosfera e possono essere nocivi agli stessi lavoratori.

Zootecnia

Gli animali destinati all’alimentazione umana si nutrono sia di vegetali presenti nei pascoli, ma soprattutto, nella zootecnia intensiva, di mangimi costituiti da prodotti e sottoprodotti agricoli; anche sottoprodotti contenenti cellulosa che può essere utilizzata come nutrimento da molti animali da allevamento. La crescita degli animali ha luogo con trasformazioni che usano l’ossigeno tratto dall’aria e liberano anidride carbonica. Ma questi sono soltanto alcuni dei gas coinvolti nella zootecnia. Una parte del carbonio presente negli alimenti viene trasformata in metano e anzi la zootecnia è una delle importanti fonti del metano immesso nell’atmosfera. Come ordine di grandezza si calcola che una mucca da latte immetta nell’atmosfera, sotto forma di flatulenze, da 50 a 100 kg all’anno di metano. In Italia nel complesso le emissioni enteriche di metano della zootecnia ammontano a circa mezzo milione di tonnellate all’anno, equivalenti, come effetto serra, a 10 milioni di tonnellate all’anno di anidride carbonica.

“La stalla puzza” perché nel metabolismo animale si formano altre molecole gassose, di odore sgradevole; inoltre, come nel caso di qualsiasi animale, il metabolismo produce rifiuti liquidi e solidi esposti a decomposizione con liberazione di composti gassosi, ancora principalmente anidride carbonica, ammoniaca e metano. Si stima che gli escrementi della zootecnia in Italia immettano nell’atmosfera circa 150.000 tonnellate all’anno di metano e circa 300.000 tonnellate all’anno di ammoniaca.

Lo smaltimento degli escrementi animali richiede processi di trattamento e depurazione per evitare l’inquinamento atmosferico; in genere si tratta di processi di sedimentazione della frazione solida e di decomposizione microbica delle varie frazioni, con formazione di gas. Nei processi più razionali addirittura una parte del metano che si libera, in quantità, come si è visto, non trascurabile, viene recuperato e utilizzato come combustibile. Purtroppo una parte degli escrementi, in Italia, in Europa e nel mondo, viene immesso senza trattamento nell’ambiente e fornisce un contributo rilevante all’inquinamento atmosferico, oltre che a sgradevoli odori e al pericolo di contaminazione delle acque con cui può venire a contatto la popolazione.

Agroindustria

Se si intende come industria agroalimentare l’insieme delle operazioni di trasformazione dei prodotti agricoli e degli animali nelle forme che vengono immesse al consumo finale, ci si trova di fronte a numerosissime attività, spesso intrecciate fra loro, ciascuna delle quali tratta, come materie prime, materiali continuamente variabili a seconda della provenienza e delle stagioni, o sottoprodotti di altre lavorazioni agroalimentari (per esempio il siero residui della lavorazione del latte usato per l’alimentazione dei suini) e anche materiali agricoli e zootecnici di importazione. Il processo, per esempio, di macellazione, immette gas nell’atmosfera nelle fasi di separazione e smaltimento delle varie parti dell’animale, dal sangue, alle interiora, ai vari ”quarti” di carne che sarà distribuita alle macellerie. In questo, come in tutti gli altri casi dell’industria, vanno aggiunte le emissioni di gas associate all’uso delle fonti di energia necessarie per i vari cicli produttivi.

Il latte, in parte prodotto in Italia, in parte di importazione, usato in Italia in ragione di circa 100 milioni di tonnellate all’anno, in parte viene trasformato in burro e formaggi e in parte viene immesso al consumo direttamente in confezioni di vetro o di materia plastica o di ”tetrapak”, a loro volta fabbricate con processi che producono inquinamento atmosferico, una quantità di gas che, a rigore, dovrebbe essere aggiunto alle emissioni del settore agroindustriale.

Gli agrumi vengono in parte trasformati in succhi; il caffè viene tostato con emissioni di fumi; inquinamento atmosferico si ha nella produzione del pane e dei dolciumi, nella produzione di oli e grassi e delle conserve di pomodoro, per citare soltanto alcuni dei tanti settori di preparazione degli alimenti. I dati delle emissioni, stimati per il settore dell’industria degli alimenti e bevande, sono aggregati e non consentono di riconoscere il contributo all’inquinamento atmosferico di ciascun settore merceologico.

In vista dell’EXPO 2015 si stanno moltiplicando, anche a livello parlamentare, le inchieste sul settore agroindustriale ed è sperabile che, come sottoprodotto, vengano migliorati i rilevamenti dei dati statistici sull’intera ”matrice” dei complessi scambi del settore e dei relativi inquinamenti, sia idrici, sia atmosferici.

Distribuzione e consumo

Il ciclo degli alimenti continua nella fase di distribuzione; i produttori di alimenti raramente hanno contatto diretto con le “famiglie” che si approvvigionano attraverso le numerosissime forme di distribuzione, dal piccolo negozio “sotto casa”, ormai sempre più raro, alla grande distribuzione che offre tutti insieme numerosissimi prodotti.

La movimentazione degli alimenti e il relativo consumo di combustibili fossili ha effetti sull’aria tutt’altro che trascurabili, anche se nelle statistiche l’inquinamento dovuto a questa fase della catena alimentare sfugge, perché figura nei dati relativi all’inquinamento dovuto al settore “trasporti”. Eppure tale movimentazione riguarda diecine di milioni di tonnellate all’anno di merci, alimenti e loro confezioni e imballaggi, talvolta più pesanti dello stesso contenuto; si pensi solo al trasporto attraverso l’Italia degli oltre dieci milioni di tonnellate all’anno di acqua in bottiglia.

Dopo tanta strada, gli alimenti arrivano finalmente alle “famiglie” in cui gli alimenti vengono rielaborati e trasformati, anche in questo caso con immissione nell’aria, in spazi ristretti questa volta, di sostanze chimiche che si formano durante la cottura e la frittura. Il riscaldamento, infatti, provoca trasformazioni della materia organica con liberazione di gas spesso sgradevoli, che vengono poi dispersi nell’aria, costituiti da composti organici volatili diversi dal metano (COV come sono genericamente indicati nelle statistiche dell’inquinamento) di variabilissima e spesso sconosciuta o trascurata natura chimica; un esempio è l’acroleina che si forma nella frittura.

Gas del metabolismo

Anche nel caso degli esseri umani, come in quello del bestiame, come è ovvio, le molecole degli alimenti non scompaiono; in parte vengono assorbite all’interno dell’organismo contribuendo alla crescita del corpo, ma la quasi totalità ritorna nell’ambiente. Intanto come gas di respirazione, anidride carbonica e vapore acqueo: per una persona media circa 10.000 metri cubi al giorno, contenenti, in espirazione, da 0,5 a 1 kg di anidride carbonica. Ritorna così all’atmosfera in forma gassosa parte di quella anidride carbonica che era servita per “fabbricare” i vegetali che sono all’inizio di questo ciclo.

Con la differenza che, a differenza del ciclo del carbonio in natura, sostanzialmente chiuso, nel caso degli esseri umani solo una parte del carbonio contenuto nel cibo torna nell’atmosfera disponibile per altra fotosintesi, per altri vegetali, per altro cibo; una parte viene immobilizzata negli escrementi e nei rifiuti solidi. Ancora una volta, a differenza di quanto avviene in natura, gli escrementi non ritornano direttamente nel terreno ma sono (dovrebbero essere, per motivi igienici) convogliati nelle stesse reti di fognature e nei depuratori nei quali sono miscelati a molti altri rifiuti solidi e liquidi della vita “familiare”. Si pensi ai fastidiosi residui di olio di frittura, ma anche al cibo sprecato che in parte viene gettato nelle fognature e in parte finisce nei rifiuti solidi urbani. Tutta questa ricchezza d molecole contenenti carbonio e azoto genera ancora in parte anidride carbonica con processi microbiologici di decomposizione, in parte produce metano, composti organici volatili e ammoniaca. Anche in questo caso, come nelle discariche di rifiuti animali, un parte del metano può essere catturata e usata come combustibile, col che il carbonio potrebbe tornare come anidride carbonica nell’atmosfera, anche se una parte del carbonio originale non torna nell’atmosfera ed è “perduta” come gas.

E’ questo il prezzo che si paga per l’incapacità di operare, per motivi economici o per pigrizia o per ignoranza, imitando la natura che ne sa sempre più di noi.

Impatto ambientale della produzione alimentare sul suolo

La vita umana e quella dei vegetali e degli animali da cui dipende la vita umana, si svolge nel grande teatro naturale del suolo coltivabile; è lì che si formano le piante che daranno i 10.000 milioni di tonnellate di cereali, tuberi, foglie, frutti, eccetera indispensabili per la nostra alimentazione; è sul suolo che svolgono la loro vita, nutrendosi di vegetali, gli animali che forniranno la carne, il latte, le uova, circa 1.000 milioni di tonnellate all’anno, di alimenti più ricchi di proteine essenziali. Fa eccezione la relativamente limitata, un centinaio di milioni di tonnellate all’anno, massa di alimenti derivati dalla pesca di animali marini.

Non è sempre stato così, anzi “la vita” è nata nelle acque dei mari primitivi, 3500 milioni di anni fa, e lentamente si è avuto lo spostamento di alcuni esseri viventi sulle terre emerse. Le nude “terre” primitive sono state colonizzate da vegetali fotosintetici che hanno “costruito” le molecole dei propri organismi utilizzando l’energia solare e la combinazione dell’anidride carbonica dell’aria con l’acqua dell’aria e quella fermatasi, nel frattempo, sulle terre emerse, e che hanno tratto gli elementi inorganici necessari disponibili in seguito alla disgregazione delle rocce operata dalle lunghe piogge. I biologi hanno chiamato questi organismi “produttori” in quanto capaci di “nutrirsi” da soli con le risorse offerte dal mondo circostante. Tanto tempo dopo le prime forme vegetali si sono evolute in foreste, macchie, praterie e hanno ospitato altri esseri viventi che si nutrivano dei vegetali e che a loro volta si sarebbero evolute in quelli che chiamiamo “consumatori”, gli animali, che devono nutrirsi di altri viventi.

Il suolo è il substrato fisico solido in cui si è andato svolgendo questo affascinante dramma, esposto alle continue variazioni della composizione chimica dell’atmosfera e della temperatura superficiale del pianeta. La vita ha sempre una fine e anzi, proprio alla fine della vita le spoglie dei vegetali e degli animali, depositate sul suolo, sono state e sono coinvolte in altre reazioni biochimiche che generano altra vita attraverso la modificazione della composizione e dei caratteri dello stesso suolo.

La trasformazione delle spoglie della vita vegetale e animale è possibile grazie alla presenza nel suolo di una vivacissima popolazione, in genere a livello microscopico, di organismi decompositori, capaci di trasformare chimicamente e per via microbiologica tali spoglie in sostanze utili per altre forme di vita.

Quando ci sediamo a tavola e “consumiamo” gli alimenti, in genere non si pensa a quanto siamo debitori al suolo per questi fenomeni; avete visto che ho scritto ”consumiamo fra virgolette perché in realtà il cibo non si “consuma” ma i suoi atomi e molecole continuano sotto forma di gas di respirazione e soprattutto di escrementi che vengono raccolti da fognature e depuratori, i cui prodotti di trasformazione in genere vengono “perduti” nei fiumi e nel mare, pur essendo ricchi di sostanze che dovrebbero tornare al suolo, come è avvenuto per millenni. Per la maggior parte degli abitanti delle civiltà urbane il suolo è quello che calpestiamo e che seppelliamo spesso sotto l’asfalto stradale; quello agricolo è “toccato” soltanto da un numero sempre più limitato di coltivatori agricoli e di addetti alla zootecnica, per lo più sconosciuti; eppure il nostro cibo dipende da loro e dagli innumerevoli “operai” biologici ancora più sconosciuti che operano nel suolo.

Per millenni il ciclo naturale suolo-vegetali-animali-cibo-suolo è stato abbastanza chiuso, in equilibrio: tanta materia sottratta, tanta materia restituita; una popolazione non molto numerosa, si pensi che nel 1800 era di appena 900 milioni di persone nel mondo, traeva dal suolo una quantità in media sufficiente per la sopravvivenza degli umani, e restituiva al suolo la maggior parte degli escrementi e degli scarti e perfino dalle spoglie dei corpi umani, dopo la morte.

Con lo sviluppo della società industriale e urbana è cominciato il progressivo distacco della popolazione dal suolo agrario e la popolazione urbana ha cominciato a dipendere per il proprio cibo dall’agricoltura e dall’allevamento degli animali, praticati da altri; è anche diminuita la restituzione al suolo delle spoglie, degli scarti e degli escrementi. L’igiene urbana chiedeva la raccolta separata degli escrementi e anche dei residui della preparazione agroindustriale degli alimenti commerciali, e il loro trattamento e trasformazione in altre scorie, la cui destinazione finale era sempre meno la restituzione al suolo.

Si è così visto che il suolo si impoveriva delle sostanze nutritive per i vegetali e si sono osservate, in corrispondenza con l’aumento della popolazione umana, della diminuzione delle rese agricole. A dire la verità, la “stanchezza” del suolo in seguito a successive continue coltivazioni era stata osservata fin dai tempi più antichi. Lo sapevano gli Ebrei i cui sacerdoti, come spiega il libro biblico del Levitico, avevano imposto, ogni cinquanta anni, di “far riposare la terra” agricola per dar modo al suolo di reintegrare le sostanze sottratte dalle precedenti continue coltivazioni.

Gli studiosi romani di agricoltura, come Columella, avevano capito che un impoverimento del potere nutritivo del suolo si verificava in seguito alla coltivazione delle stesse specie per più anni successivi nello stesso terreno. Ed era stato compreso che era bene alternare le coltivazioni di cereali con quelle delle leguminose che dovevano contenere qualcosa di utile perché, se si seppelliva il loro raccolto nel suolo, l’anno dopo la resa dei cereali ridiventava elevata come prima.

Ci sarebbe voluto il grande chimico tedesco Justus von Liebig, nella metà dell’Ottocento, per spiegare che quel “qualcosa” restituito dalle leguminose al terreno era l’elemento azoto di cui le leguminose erano ricche perché le loro radici erano dotate di speciali microrganismi che “fissavano” l’azoto dell’aria direttamente nelle piante. Le leguminose, lasciate decomporre nel terreno, rendevano il loro azoto disponibile per le successive coltivazioni dei cereali per la cui crescita occorreva non solo azoto, ma anche fosforo e altri elementi la cui carenza nel suolo influenzava le rese agricole. Liebig spiegò che bastava la mancanza di una sola delle sostanze nutritive del suolo per far diminuire le rese delle coltivazioni e formulò la “legge del minimo”, forse la prima espressione scientifica dell’esistenza di fattori limitanti della crescita.

Liebig spiegò anche che la crescente popolazione mondiale avrebbe potuto essere sfamata restituendo al terreno azoto e fosforo con l’aggiunta di sostanze contenenti questi elementi: leguminose, poi escrementi e residui organici, poi con l’addizione di minerali contenenti tali elementi ed esistenti nelle rocce naturali. Grandi depositi di escrementi di uccelli marini, in parte mineralizzati, si trovavano nelle isole peruviane; nitrati in grandi estensioni si trovavano nell’altopiano del Cile, fosfati in molte zone dell’Africa.

Liebig fu, oltre che un grande scienziato, un fertile divulgatore della storia naturale del suolo; pubblicava a puntate le sue più recenti scoperte scientifiche nei quotidiani a grande tiratura; le sue “Lettere sull’agricoltura” venivano poi raccolte in volumi che furono tradotti in moltissime lingue e che aprirono gli occhi del mondo sulle proprietà del suolo.

Non solo: Liebig spiegò anche che gli elementi nutritivi potevano essere assorbiti dalle piante soltanto se erano in forma di sali solubili in acqua perché il suolo non è un corpo solido, ma è pieno di acqua e in questa acqua del suolo le piante immergono le radici e da essa traggono, appunto, le sostanze nutritive che vi sono disciolte. Ad esempio i fosfati del Nord Africa contenevano fosforo sotto forma di fosfato tricalcico Ca3(PO4)2, insolubile in acqua ed erano quindi inutili ai fini della nutrizione vegetale; Liebig spiegò che solo trattando i minerali fosfatici con acido solforico si potevano trasformare nelle due forme di fosfato dicalcico CaHPO4 e monocalcico Ca(H2PO4)2, solubili in acqua e utili per l’agricoltura. Nasceva così l’industria dei concimi “artificiali”.

Il nitrato di sodio del Cile andava bene perché era solubile in acqua, ma l’azoto degli escrementi e del guano può diventare utile per l’agricoltura soltanto se viene trasformato in nitrato. Liebig e altri descrissero la chimica del ciclo dell’azoto: l’azoto delle molecole proteiche e organiche, per diventare assimilabile deve essere trasformato per via microbiologica in sali di ammonio che, a loro volta vengono trasformati, da speciali batteri del suolo, dapprima in nitriti e poi in nitrati solubili e finalmente assimilabili.

Per la diffusione internazionale di queste idee fu fondamentale il suo libro “La chimica (organica) e il suo impiego in agricoltura e fisiologia” del 1840, con immediate traduzioni in moltissime lingue. Liebig insistette comunque sull’importanza della materia organica nel terreno e sulla necessità di conservarne il contenuto di humus e anzi di arricchirlo mediante concimi organici, anticipando in questo molti dei principi della agricoltura “organica”, in un corretto equilibrio fra i concimi artificiali e quelli naturali.

L’autentica scienza del suolo è nata peraltro, nella seconda metà dell’Ottocento ad opera di due scienziati russi, Vasilij Dokaecev e Sergei Vinogradskij. Il primo, osservando le conseguenze sull’agricoltura delle ripetute siccità dell’Ottocento, con pericolo per l’esaurimento della fertilità della steppa, fonte di ricche esportazioni di cereali, confrontò le teorie proposte da geografi, geologi e botanici e spiegò le trasformazioni fisiche e chimiche dei terreni, la “metamorfosi”, e il rapporto fra la struttura dei terreni e il clima. Vinogradskij era un chimico e un medico e, partendo dalle osservazioni di Louis Pasteur, sviluppò le conoscenze sulla microbiologia del suolo.

In questa atmosfera culturale furono elaborate varie classificazioni dei suoli: una di queste è basata sul diametro delle diverse particelle, separate, dopo essiccazione del suolo, mediante setacci in frazioni distinguendo le particelle con diametro superiore a 2 mm, la sabbia con diametro compreso fra 2 e 0,2 mm, il limo, con diametro fra 0,02 e 0,002 mm e l’argilla, con diametro inferiore a 0,002 mm. La sostanza organica è in gran parte costituita dalle spoglie di vegetali e animali, più o meno trasformate.

La pedologia conobbe un grande sviluppo negli Stati Uniti in seguito ai gravi fenomeni di erosione del suolo dovuta al vento, e alle siccità che colpirono il paese soprattutto nei primi decenni del Novecento. Apparve chiaro che i danni, anche economici, oltre che ecologici, erano dovuti all’eccessivo sfruttamento agricolo del suolo e alla mancanza di appropriate azioni di manutenzione. Hugh Hammond Bennett fu un agronomo che diffuse l’attenzione per le perdite di suolo fertile: un suo libro del 1928, intitolato: “Soil erosion: a national menace”, spinse l’amministrazione Roosevelt ad istituire, nel 1933 un Soil Erosion Service nell’ambito del ministero dell’Interno (che, negli Stati Uniti, a differenza degli omonimi ministeri europei che sono soprattutto ministeri di polizia, era il ministero delle risorse naturali). Nel 1935 una speciale legge trasferì il servizio, col nome di Soil Conservation Service (si noti il cambiamento del nome, da “difesa contro l’erosione”, a “conservazione del suolo” per le generazioni future) al Dipartimento dell’agricoltura. Conservazione necessaria non solo per motivi ecologici, ma anche per rispondere a quell’invito a ”Nutrire il pianeta” che è stato scelto come motivo dell’esposizione universale di Milano EXPO 2015.

E si sa bene quanto queste considerazioni sono (sarebbero) importanti per l’Italia dove si perdono continuamente, ogni anno, migliaia di ettari fertili per fare posto ad strade e autostrade, a ferrovie, a quartieri urbani, fino a distese di pannelli solari secondo la nuova moda che, nel nome delle energie rinnovabili, è divenuta fonte di speculazioni finanziarie e di perdita delle risorse naturali che sono le uniche veramente rinnovabili e durature. In Italia si parla tanto di ”consumo di suolo” ma azioni efficaci saranno possibili soltanto con la diffusione di una autentica cultura del suolo, base della nostra vita e della nostra economia.

Impatto ambientale della produzione alimentare sulla gestione dei rifiuti

Si è già accennato negli articoli precedenti che il cibo umano è il risultato di una lunga catena di scambi materiali che vanno dall’agricoltura e zootecnia, alle industrie di trasformazione, alla distribuzione, fino ad arrivare ai “consumatori” finali, famiglie, comunità, ristorazione collettiva, eccetera. I quali non “consumano” niente: non fanno altro che trasformare il cibo in sostanze solide, liquide e gassose. Ciascun passaggio di questa catena è integrato dall’aggiunta di energia, di acqua, di prodotti industriali come imballaggi e alla fine i materiali di tutte queste operazioni finiscono nell’ambiente naturale.

I conti che seguono si riferiscono ai 60 milioni di abitanti dell’Italia, ma, fatte le debite proporzioni per diversi numeri di abitanti, possono valere per altri paesi europei. Si tratta di ordini di grandezza e si propongono di identificare le masse di rifiuti solidi che si formano nell’agricoltura, nella zootecnia e nell’industria agroalimentare. Da tali conti sono escluse le quantità di acqua impiegata per l’irrigazione in agricoltura, in parte assorbita dalla biomassa vegetale, impiegata per abbeverare gli animali da allevamento e che in parte si ritrova nella biomassa animale e negli escrementi, impiegata nei processi industriali e l’acqua potabile usata dai consumatori finali e che in parte si ritrova negli escrementi.

La massa di alimenti (espressi come biomassa secca) usati dai “consumatori” finali ammonta a circa 700 grammi al giorno per persona, pari a circa 250 kg all’anno, a loro volta corrispondenti a circa 500 kg all’anno, tenuto conto dell’acqua che essi contengono. La massa di alimenti vegetali e animali tali-e-quali ”consumati” in Italia si può stimare di circa 30 milioni di tonnellate all’anno, circa 25 di prodotti vegetali e circa 5 di prodotti animali. In Europa tale flusso di biomassa tale-e-quale si può stimare di circa 150-200 milioni di tonnellate/anno.

I rifiuti nella fase agricola

Ai fini dell’analisi del flusso di “rifiuti solidi”, considerati come materiali solidi che si formano come scorie, residui e rifiuti nelle varie fasi del ciclo della produzione alimentare, con l’agricoltura e con la situazione italiana: la biomassa vegetale destinata all’alimentazione umana e degli animali da allevamento si può stimare di circa 100 milioni di t/anno: cereali, tuberi, frutta, verdura, eccetera, con un contenuto di acqua variabile fra 10 e 80 %. Di questi circa 50 vanno ai processi di trasformazione e circa 50 sono assorbiti dall’alimentazione del bestiame.

La biomassa vegetale “utile” a fini alimentari è accompagnata da una produzione di circa 50 milioni di t/anno di biomassa vegetale che si separa nelle operazioni di raccolta e che è costituita da scarti agricoli diversissimi come composizione chimica, prevalentemente di natura lignocellulosica; una parte trova impiego peri impieghi ausiliari non alimentari in agricoltura e zootecnica; una parte finisce nell’ambiente bruciata o sepolta nel suolo in modo da recuperarne il contenuto di elementi nutritivi per il terreno.

Zootecnia

I circa 50 milioni di tonnellate/anno di biomassa vegetale assorbita dagli animali da allevamento consente di ottenere circa 20 milioni di t/anno di biomassa animale che, per successivi trattamenti, fornisce latte, carne, uova, importanti per l’alimentazione umana; gli alimenti di origine animale, infatti, sono ricchi, più di quelli di origine vegetale, degli amminoacidi essenziali, necessari per la formazione delle proteine del corpo umano, che l’organismo umano non è capace di sintetizzare e che pertanto devono essere apportati con la dieta.

In grossolana approssimazione si può calcolare che la popolazione di animali da allevamento, bovini, suini e pollame, abbia una biomassa complessiva di circa 5 milioni di tonnellate di peso vivo. Il fabbisogno alimentare si può stimare in media di circa 10 t di biomassa vegetale tale-e-quale all’anno per t di peso vivo, corrispondente quindi ai quei circa 50 milioni di t/anno di biomassa vegetale a cui si faceva cenno prima. Tale biomassa è costituita da erba, mangimi a loro volta contenenti parte dei sottoprodotti e residui che si formano nella trasformazione della biomassa agricola vegetale in prodotti per l’alimentazione umana.

Nel corso del metabolismo animale si formano, oltre ai gas della respirazione, circa 10 t/anno di escrementi per t di peso vivo, complessivamente circa 50 milioni di tonnellate nelle quali la parte solida (circa il 10 %) e quella liquida sono miscelate; i circa 5 milioni di t/anno di materia solida degli escrementi in parte vengono sottoposti a qualche forma di depurazione, eventualmente con recupero di fanghi e di biogas, in parte vengono immessi nel terreno al quale possono restituire una parte degli elementi nutritivi sottratti dall’agricoltura.

Gli allevamenti zootecnici forniscono ai processi di trasformazione quei circa 20 milioni di t/anno, prima ricordati, di materiali di cui una parte, circa 5 milioni di t/anno si ritroverà sotto forma di alimenti per i consumatori finali umani.

Industria agroalimentare

Come si è già accennato, la biomassa di origine vegetale e animale prodotta dall’agricoltura e dalla zootecnica praticamente non arriva sulle nostre tavole come tale; anche le uova, che la natura ha “preconfezionate” con il loro imballaggio, o verdura e frutta subiscono qualche trattamento di lavaggio e confezionamento.

Le operazioni di trasformazione e conservazione sono numerosissime: in ciascuna una parte della biomassa va “perduta” sotto forma di rifiuti solidi.

I valori relativi alla massa di rifiuti solidi delle industrie agroalimentari sono molto incerti e variano a seconda della dimensione dell’azienda di trasformazione dei processi di trasformazione, della richiesta del mercato; ad esempio un’eccedenza di produzione o la contrazione della richiesta possono provocare la distruzione di biomassa vegetale o animale di valore alimentare che diventa rifiuti da smaltire.

Qualche dato si può ricavare da uno studio di settore del 2001 su “I rifiuti del comparto agroalimentare” dell’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente e dall’Osservatorio Nazionale dei Rifiuti.

Solo pochi dati relativi all’Italia. La produzione di circa 7 milioni di t/anno di frumento duro e tenero è accompagnata dalla formazione di circa altrettanti steli e paglia; nel processo di macinazione delle cariossidi per produrre, rispettivamente, semole e farina si formano oltre un milione di t/anno di cruscami che solo in parte sono usati come alimenti del bestiame.

Nei processi di vinificazione si formano circa 1,2 milioni di t /anno di raspi e fecce. Nella produzione di zucchero dalle barbabietole, ormai molto ridotta in Italia, si ottengono circa 10 kg di terra e fogliame di scarto per t di barbabietole lavorate, corrispondenti a circa 50 kg di scarti per t di zucchero prodotto. Questi sottoprodotti sono in genere immessi in discariche nel terreno. Nel processo di estrazione si formano per ogni t di zucchero, circa 4 kg di polpe fresche che vengono in parte essiccate e usate come alimento per bestiame.

Ogni 17 kg di conserva di pomodoro, ottenuta da 100 kg di pomodori, si formano circa 3,5 kg di rifiuti costituiti da semi, pellicole, ecc. Simili scarti e rifiuti solidi si hanno nei processi di produzione di marmellate, altri vegetali in scatola, succhi di frutta.

Nella produzione di circa 400.000 t all’anno di succo di arancia si formano come sottoprodotto circa 500.000 t all’anno il “pastazzo” contenente circa il 20 % di sostanza secca costituita da acidi, vitamine, sali inorganici; una parte viene impiegata nell’alimentazione del bestiame. Una parte di questo residuo viene avviata alla produzione di compost, un additivo per il terreno e una parte viene smaltita come rifiuti organici. Talvolta i rifiuti solidi sono trattati industrialmente per ricavarne prodotti commerciali; è il caso dell’olio essenziale che si recupera in ragione dello 0,2-0,5 % delle bucce delle arance lavorate e che viene impiegato in cosmesi e nell’industria alimentare.

Fra gli alimenti di origine animale, si possono ricordare i sottoprodotti della macellazione. Da 1000 kg di peso vivo di animale macellato si ottengono circa 500 kg di carne destinata alla distribuzione, parte della quale verrà utilizzata dai consumatori finali o dalle industrie di trasformazione; al fianco della carne nei macelli si ottengono, sempre per 1000 kg di peso vivo, circa 80 kg di pelli, circa 40 kg di sangue e il resto è costituito da rifiuti solidi e liquidi, in parte sottoposti a trattamenti di depurazione e in parte destinati a discarica. Nel caso di epidemie, intere carcasse di animali infetti sono sepolti in discarica o bruciati.

Il latte, prodotto in Italia in quantità di circa 10 milioni di tonnellate all’anno, in parte viene utilizzato per la distribuzione diretta, previa sterilizzazione e imbottigliamento, e in parte viene trasformato in formaggi, circa un milione di t/anno, con formazione di sottoprodotti costituiti per lo più da siero; il siero prodotto nei caseifici contiene circa 1 milione di t/anno di sostanze solide, una parte delle quali viene smaltita nell’ambiente.

In Italia si consumano ogni anno circa 13 miliardi di uova; i gusci rappresentano una massa di circa 80.000 t/anno e sono in parte dispersi nei rifiuti urbani, durante l’uso domestico, in parte sono ottenuti come rifiuti nelle attività artigianali e industriali che usano le uova per la produzione di paste alimentari e dolciumi o per l’essiccazione.

Alla fine dei processi di trattamento e conservazione della biomassa vegetale e animale destinata all’alimentazione umana i vari prodotti vengono, per la maggior parte, avviati alla distribuzione confezionati entro imballaggi che vanno da materie plastiche, a cartoni, a bottiglie di vetro, a scatolami di alluminio o di banda stagnata utilizzati in ragione di circa 5 milioni di t/anno.

Distribuzione e “consumo” finale

Tutti i prodotti alimentari arrivano al consumatore finale attraverso innumerevoli mercati, negozi e supermercati nei quali si formano altri residui solidi, per lo più sotto forma di imballaggi e di scarti di alimenti invenduti.

Alla fine di questo lungo cammino dai campi alla cucina i circa 30 milioni di t/anno di biomassa vegetale e animale tale-e-quale di alimenti per il consumatore finale, vengono infine trasformati, metabolizzati e trasformati, da ciascuna persona, in prodotti gassosi e liquidi e solidi. La frazione solida degli escrementi umani ammonta a circa 3 milioni di t/anno, che finiscono per lo più nelle fogne e nei depuratori di rifiuti domestici; qui in parte vengono trasformati in fanghi destinati a discarica, in parte sono decomposti da microrganismi in composti liquidi o gassosi come il biogas.

La parte di alimenti acquistati ma non “consumati”, metabolizzati, dalle famiglie e nelle operazioni di ristorazione collettiva, stimabile in circa 20 milioni di t/anno, è costituita da residui di cibo e di operazioni di cucina, a cui si aggiungono circa 4 milioni di t/anno di imballaggi; circa 400.000 tonnellate soltanto le bottiglie di plastica e vetro che trasportano ai consumatori finali 11 milioni di t/anno di acqua in bottiglie. Questa massa di materie finisce nei rifiuti solidi urbani, solo in parte riutilizzata e riciclata.

Un breve bilancio

Si può concludere questa rapida corsa nei cicli produttivi degli alimenti riconoscendo che il ciclo agricoltura-zootecnia-industria-consumo, iniziato con circa 150 milioni di t/anno di biomassa vegetale tale-e-quale, così come è come fornita dalla natura, dopo aver soddisfatto il fabbisogno nutritivo dei circa 60 milioni di abitanti dell’Italia, comporta la produzione di circa 90 milioni di t/anno di materie solide come scarti, residui e rifiuti che in varie forme ritornano nei corpi riceventi naturali; il resto è costituito dai gas del metabolismo umano e animale e da una parte dell’acqua contenuta originariamente nella biomassa vegetale e animale.

Questa rilevante massa di materiali ha un contenuto energetico equivalente a quello di alcuni milioni di t di petrolio, nella sola Italia. In una società opulenta, come la nostra e quelle occidentali, vale la pena recuperare soltanto una piccola parte di tale energia (quel po’ di biogas degli escrementi degli allevamenti animali e poco altro). Ma il tema dell’EXPO 2015, “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” suggerisce che nelle società in via di sviluppo l’”estrazione” di energia dai sottoprodotti agricoli, soprattutto quelli lignocellulosici, che residuano dopo che sono state nutrite le persone, aspetta soltanto innovazioni tecnico-scientifiche che aiutino quelle comunità a disporre di calore ed elettricità che rendano meno dura l’attuale vita. Una sfida che l’esposizione universale di Milano nell’anno prossimo spero induca molti, anche in Italia, ad accogliere anche come occasione di occupazione, di imprese e di soldi. Senza contare che tale “estrazione” un giorno potrebbe diventare utile anche nelle società oggi opulente.

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