La primavera 2023 sta volgendo al termine e il mese di maggio si è concluso, segnalandosi come il secondo più piovoso degli ultimi settant’anni[1]. Le piogge hanno portato sollievo alle produzioni agricole soprattutto del Nord Italia, la portata dei fiumi e i livelli dei laghi subalpini sono tornate entro livelli di accettabilità, lo spettro di una nuova stagione irrigua senz’acqua appare quantomeno allontanato. Le immagini drammatiche e potenti delle alluvioni occorse in Romagna tra il due di maggio e il 16-17 dello stesso mese rappresentano però il contraltare a quella che avrebbe potuto essere interpretata come una notizia positiva. I paesi collinari isolati, senz’acqua e corrente elettrica, con le strade di collegamento travolte da centinaia di frane; le case inondate dal fango, i mobili e gli oggetti in esse contenuti accumulati come macerie assieme alle merci conservate in magazzini, supermercati e fabbriche; i rischi sanitari che stanno emergendo, connessi al permanere di acqua e melma tra le strade e le cantine delle zone di pianura più colpite; i terreni agricoli, ancora allagati a distanza di giorni, in una delle regioni economicamente più produttive d’Italia. Una sequenza di immagini che dà concretezza agli scenari evocati nell’ultimo rapporto dell’IPCC per il bacino del Mediterraneo[2]. L’innalzarsi della temperatura delle acque di questo mare è più intensa che in altri luoghi. Tale fenomeno porta con sé degli sconvolgimenti meteorologici che si riflettono sui territori affacciati, connessi all’energia liberata dalla tropicalizzazione di questo mare. L’Europa meridionale appare quindi stretta tra il pericolo della desertificazione e fenomeni meteorologici sempre più intensi e inusuali per questa parte di mondo, come il ciclone Minerva che ha devastato la Romagna sembra raccontarci.
Le piogge primaverili, seppur abbondanti, non allontanano del tutto il rischio di ripiombare in un nuovo periodo siccitoso né scongiurano la possibilità che, durante l’estate, torni a mancare l’acqua per portare a termine i raccolti agricoli[3]. I livelli delle precipitazioni scese in questo 2023 rimangono ancora sotto media a causa di un inizio dell’anno particolarmente secco e c’è ancora da colmare il deficit di precipitazioni avuto durante il 2022. In questo contesto le sfide aperte dalla crisi climatica, i cui sintomi si sono recentemente manifestati in un lungo periodo di siccità, seguito da eventi meteorologici estremi, susseguitesi in un breve lasso di tempo, pongono, per essere affrontate, dei necessari ripensamenti rispetto alle politiche di governo del territorio, per come si sono espresse in questi ultimi decenni. Ripensamenti che portino a produrre interventi che, chiaramente, vanno al di là delle possibilità insite nell’approccio emergenziale proposto dall’attuale governo, attraverso la nomina dell’ennesimo commissario straordinario e basato sulla mera proposta di interventi infrastrutturali, giudicati come sufficienti a mettere in sicurezza i territori. Tali interventi hanno poi l’ulteriore difetto di non essere inseriti in un quadro strategico dotato di organicità. Anche il dibattito pubblico, all’indomani della tragedia che ha investito la Romagna, appare schiacciato entro una prospettiva dalla quale fatica a emergere un punto di vista all’altezza della sfida. Beninteso, voci fuori dal coro esistono, anche in ambiente tecnico, e sottolineano la necessità di un drastico cambio di paradigma rispetto agli usi spregiudicati che sono stati fatti dei territori nel recente passato. Come sottolineato da Andrea Nardini su “Il Giornale dell’Ingegnere”
Ancora più preoccupante e rattristante è che l’insieme di queste azioni non ci assicura per nulla di essere in grado di fronteggiare il rischio attuale e molto meno di affrontare il cambiamento climatico. La ragione è che questa situazione è figlia di una lunga storia ispirata al cosiddetto approccio ingegneristico che intendeva dominare la natura attraverso opere: arginature, difese spondali, pennelli, soglie, etc. Questo approccio ci ha portato a un sistema fluviale e territoriale estremamente costoso e fragile: ogni volta che c’è un evento di piena o resiste (accumulando costi di manutenzione) o no (provocando danni enormi e imponendo costi di ricostruzione altissimi), ma non è capace di convivere armoniosamente. (NARDINI, 2023: 28)
L’approccio non cambia nemmeno se si prova a guardare alle soluzioni per fronteggiare i periodi di siccità e la conseguente carenza di risorse idriche per l’agricoltura. Anche in questo caso le politiche d’intervento proposte, come lo stesso dibattito pubblico che ne è conseguito, sembrano muoversi entro il solco ristretto di un approccio emergenziale, gestito attraverso la nomina di un commissario e limitato a meri interventi ingegneristici su un reticolo idrico già ampiamente artificializzato (CIRF, 2023). È questo il caso, ad esempio, della richiesta di realizzare decine di bacini di accumulo, dove stoccare l’acqua per la stagione arida, promossa da numerose associazioni di categoria in campo agricolo. Anche l’accenno all’innovazione tecnologica in ambito agricolo appare generico e poco approfondito rispetto ai costi, ai benefici e alle ricadute che potrebbe avere. Gli utilizzi e gli sprechi della risorsa acqua sono stati descritti e analizzati da dettagliate elaborazioni statistiche, ricche di dati e sicuramente veritiere nel porre l’attenzione sulle modalità con le quali determinati settori, in particolare quello dell’allevamento intensivo, hanno nello sfruttare questo prezioso elemento. Ma un approccio esclusivamente quantitativo al problema riduce la complessità delle soluzioni da mettere in atto. Continuando a considerare il territorio come uno spazio astratto sul quale liberamente progettare, occultando le componenti ecologiche che differenziano ogni contesto geografico, si rischia che gli interventi siano molto meno efficienti di quanto si era progettato e preventivato, anche se si utilizzano le più moderne tecnologie (BENEGIAMO, 2021). Il quadro d’azione, anche in questo caso, appare quantomai disorganico e sembra andare lontano da quella necessità di “Ricreare sistemi resilienti in grado di assorbire i massimi pluviometrici e sostenere le portate di magra, in un ampio spettro di scenari” (CIRF, 2023). In questa dettagliata nota pubblicata dal CIRF si delinea un quadro d’azione che non riduce la complessità e prospetta interventi a più livelli nel riqualificare i corpi idrici naturali, nel ripensare un sistema agroalimentare che consumi meno acqua, nel promuovere strategie per affrontare l’inaridimento e la perdita di sostanza organica dei suoli italiani, nel proporre sistemi irrigui che tengano conto delle esigenze ecosistemiche e paesaggistiche dei territori.
Il geografo italiano Eugenio Turri, attraverso l’espressione la Grande Trasformazione, mutuata dalla famosa opera di Karl Polanyi per descrivere l’affermazione dell’economia capitalista, ha indicato il processo di stravolgimento dei paesaggi italiani coinciso con il boom economico degli anni sessanta e settanta (TURRI, 2014). Un processo di trasformazione talmente esteso e profondo da non avere eguali nella storia del nostro paese, il quale è andato avanti anche nei decenni successivi in maniera disordinata e caotica. Il prodotto di tale modificazione, imposto da nuovi stili di vita e da nuovi modelli produttivi, ha dato vita a un’Italia “simile a un’unica periferia, anonima, poco accogliente, poco ordinata, dove però vive la maggior parte degli italiani” (TURRI, 2014: 21).
Tale processo è stato molto studiato a livello specialistico soprattutto dai geografi umani italiani. Già in seguito all’alluvione del 1966, attraverso un ricco e dettagliato lavoro di raccolta dati confluiti nel XXI Congresso geografico italiano tenutosi a Verbania nel 1971, si è posta l’attenzione sulle responsabilità umane nei disastri legati al dissesto idrogeologico:
È nell’ambito di queste riflessioni che (…) finalmente si contesta la fatalità della catastrofe naturale, le sue imprevedibili e ineluttabili dinamiche, indicando come un evento naturale non abbia mai niente di calamitoso. (VALLERANI, 2012: 22)
Anche i legami tra questi profondi stravolgimenti locali e i metabolismi connessi ai modelli economici globali sono stati indagati in profondità. Il geografo David Harvey ha sottolineato in maniera inequivocabile il ruolo del mercato globale nel modificare luoghi e paesaggi attraverso le sue logiche omogeneizzanti e predatorie[4]. È impossibile non tener conto della potenza degli interessi economici globali, se si vuole condurre un’analisi che indaghi adeguatamente le calamità recenti. Ciò vale in particolar modo con l’avvento della ristrutturazione neoliberista degli anni settanta, la pervasività della globalizzazione e la trasformazione dell’agricoltura italiana in enclavi produttive (AVALLONE, 2017), dominate da monocolture altamente specializzate e nuovi latifondi, laddove, ovviamente, l’attività agricola abbia mantenuto una certa redditività.
La potenza della narrazione neoliberista svilisce e annulla il senso dei luoghi qualora si frapponga al conseguimento del massimo profitto, mentre lo utilizza nel caso possa costruire pregiato valore aggiunto in operazioni di marketing territoriale, per la promozione turistico/immobiliare di aree acquistate a basso costo in modo da generare cospicue plusvalenze a vantaggio dei soliti pochi (VALLERANI, 2012: 25).
In questa analisi non si può non tenere conto degli interessi dei gruppi di potere italiani, grandi o piccoli che siano, i quali hanno determinato uno sviluppo distorto del territorio. Il ruolo della rendita fondiaria e la rincorsa alla sua massimizzazione hanno prodotto le orribili urbanizzazioni attorno alle città, l’esplosione delle lottizzazioni nelle località di pregio turistico, il proliferare di attività estrattive per soddisfare la crescente domanda di cemento e calcestruzzo del settore immobiliare. Questa spinta ha generato enormi squilibri negli usi del territorio, concentrando da un lato la popolazione nelle grandi conurbazioni soprattutto del Nord Italia, dall’altro condannando all’abbandono le tante aree interne della penisola italiana non meritevoli di valorizzazione turistica (TURRI, 2014). A rendere ancora più fosche le tinte di questo quadro, va aggiunto il ruolo dell’economia criminale, della speculazione finanziaria e del riciclaggio di denaro sporco, dello smaltimento illecito di rifiuti, dell’abusivismo edilizio (SETTIS, 2010).
Da quest’analisi emerge un’idea di spazio dominato dalle logiche della deterritorializzazione:
[la deterritorializzazione] è determinata da un sistema socioeconomico per sua natura de territorializzato, organizzato in uno spazio astratto, atemporalizzato, omologato, frammentario, casuale, sempre più artificializzato, destrutturante (…) si fonda sugli esiti del divorzio fra cultura e natura e sulla fiducia tecnologica nella possibilità di liberarsi definitivamente della natura e del territorio attraverso la costruzione di un ambiente totalmente artificiale in grado di sanare, con l’innovazione tecnica, le crisi crescenti dei sistemi ambientali e territoriali. (MAGNAGHI, 2001: 20)
Alla luce del cambiamento climatico e dei nuovi scenari che questo apre, la perdita di complessità del paesaggio agrario italiano assume un carattere potenzialmente catastrofico. La cartografia del dissesto idrogeologico in Italia fa emergere tutta la vulnerabilità dei nostri territori (VALLERANI, 2012). Una fragilità, è bene ricordare, che non deriva solo dalla forza degli eventi atmosferici in atto, ma è elemento strutturale che ha sempre condizionato l’abitabilità del territorio italiano. Un elemento con cui le comunità, le quali hanno costruito la complessa stratificazione territoriale che caratterizza le diverse zone d’Italia, si sono dovute confrontare nel corso dei secoli, dando vita nelle campagne italiane a forme d’abitare i luoghi originali e caratteristiche.
La collocazione della penisola nel cuore del Mediterraneo è stata in realtà duramente e lungamente pagata con la detenzione di un non invidiabile primato: l’esposizione delle sue terre migliori, dal Polesine alla Sicilia, con diverso grado e intensità, all’insidia e spesso al dominio della malaria. Sicché bonificare, in Italia, ha significato soprattutto vincere avversità ambientali formidabili, ostacoli – non sempre fronteggiabili tecnicamente – alla presenza stessa degli uomini sulla terra (…) gli ultimi due secoli segnano per l’appunto l’epoca della diffusione crescente, dell’uso sempre più intenso ed esteso dell’acqua nelle agricolture di tutto il territorio nazionale. Ed è senz’altro questa grandiosa vicenda di trasformazione dei dati originari di natura, che ha guadagnato nuovi o rinnovati spazi all’agricoltura, a segnare di profondi elementi di originalità, rispetto al resto d’Europa, le campagne dell’Italia contemporanea. (BEVILACQUA, 1989: 25).
Questo rapporto stretto con l’elemento acqua ha caratterizzato, da Nord a Sud, il lungo processo di territorializzazione, che ha di fatto creato i paesaggi italiani. Ripercorrendo brevemente questa storia, l’inizio di tale processo può essere fatto risalire al periodo medioevale, alla rinascita delle città, precedente al resto d’Europa, che da quel momento in poi esercitarono un potere politico e culturale sulle campagne sconosciuto altrove (BEVILACQUA, 1989). La fitta rete di piccole e grandi città favorì il diffondersi di colture promiscue per rispondere alla domanda diversificata di prodotti proveniente da questi stessi centri e contribuì così a influenzare in maniera profonda il paesaggio italiano attraverso saperi, tecnologie e investimenti che modellarono nei secoli quelle forme che tanta letteratura europea ha decantato. Nemmeno la trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura italiana, iniziata nel XIX secolo, riuscì a stravolgere del tutto questi caratteri peculiari, finendo con il creare un fitto mosaico di specializzazioni locali. Semmai fu il mondo contadino ad essere travolto da un processo di proletarizzazione che ne peggiorò le condizioni di vita materiale. La miseria delle campagne era dettata più dal perdurare di rapporti economici e sociali che subordinavano queste ultime alle esigenze dei mercati urbani e europei, piuttosto che da una scarsità di risorse materiali e tecnologiche (BEVILACQUA, 1989). La proprietà della terra rimaneva nelle mani di ristrette elites agrarie urbane e il costo della terra aumentò a tal punto da costringere i contadini a commercializzare il più possibile: i prodotti migliori non finivano sulle tavole di chi li aveva con fatica coltivati, ma erano destinati a mercati sempre più europei. La nuova organizzazione del lavoro determinò, inoltre, una crescente mobilità territoriale legata agli spostamenti dei lavoratori e delle lavoratrici stagionali. Furono queste particolari condizioni sociali che permisero la nascita di un vastissimo movimento di massa contadino che seppe introdurre nelle campagne italiane forme di lotta e organizzazione tipiche del conflitto sociale urbano. L’elevata conflittualità di questo movimento sarà, almeno fino alla prima metà del Novecento, uno dei principali fattori dell’accelerazione dei processi di modernizzazione nelle campagne (D’ATTORRE, DE BERNARDI, 1994).
La domanda dei mercati internazionali divenne, quindi, il principale motore di trasformazione dei paesaggi agrari, valorizzando quelle coltivazioni assenti nelle agricolture europee. Nell’Italia meridionale le particolari condizioni climatiche permisero il perdurare delle coltivazioni cerealicole legate al latifondo, alternate alla transumanza delle greggi provenienti dall’Appennino nella stagione invernale. Il grano era principalmente destinato a soddisfare la domanda proveniente anche dalle città del Nord. Furono altre piante le protagoniste di questa fase di trasformazione: si diffusero nelle pianure costiere di recente bonifica e nelle zone collinari le prime monocolture legate alla coltivazione dell’ulivo, le piantagioni di mandorlo per soddisfare le richieste dell’industria dolciaria europea, gli agrumeti e, dopo la crisi della viticoltura francese colpita dalla filossera nei primi del Novecento, anche la stessa vite. L’Italia centrale vide i suoi caratteri peculiari rafforzati. Era l’Italia dominata dal patto di mezzadria, dei poderi diffusi, dove vigeva il principio del piantare tutto da per tutto in accordo col carattere promiscuo di quest’agricoltura. L’agricoltura dell’Italia settentrionale fu coinvolta in un processo di trasformazione originale. Fu proprio in quel momento che la gestione del complesso sistema idrico che attraversa la Pianura Padana diventò il motore per rimodellare il territorio con l’obiettivo di avviare un’agricoltura intensiva. Nella Bassa Padana una rinnovata risicoltura diede slancio a una nuova stagione di bonifiche. Canali e opere di derivazione vennero realizzati per prosciugare acquitrini e paludi, contribuendo a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali. L’espandersi della risicoltura divenne
uno dei canali privilegiati per la penetrazione del capitalismo nelle campagne, perché era concepibile, dal punto di vista tecnico ed economico, solo all’interno di una moderna azienda agraria di vaste dimensioni, dotata di notevoli capitali e condotta servendosi esclusivamente di lavoro-salariato, tendenzialmente liberato sia dai vincoli dell’autoconsumo, sia dai legami con le pluriattività protoindustriali- (D’ATTORRE, DE BERNARDI, 1994: 22)
Si diffuse in questo territorio la cascina come centro dell’azienda agricola capitalista, vera e propria officina rurale dove risiedevano numerose figure lavorative, a seconda delle occupazioni stagionali. Nell’alta pianura asciutta, invece, si diffusero le colture promiscue legate alla piantata padana, le quali permettevano, sul medesimo appezzamento, la coltivazione dei seminativi alternati ai filari di vite maritati ai gelsi, che sostentavano l’allevamento dei bachi da seta. Il paesaggio che ne derivava era simile a una foresta coltivata, con una densità d’impianto di centinaia di piante per ettaro. Le zone montuose alpine e prealpine furono luogo d’eccellenza per l’allevamento e la produzione di formaggi. Le mandrie erano poi coinvolte negli spostamenti stagionali, trasferendosi verso le zone di pianura nella stagione autunnale e invernale, dando vita a particolari forme di mobilità e integrazione tra il mondo agricolo di pianura e quello montano. Nelle aree collinari del Settentrione, a partire da quelle piemontesi, si diffuse la produzione vitivinicola con la valorizzazione di vitigni locali, favorita dalla crisi della viticoltura francese.
I primi decenni del Novecento portarono con sé importanti segnali di disgregazione degli equilibri raggiunti negli assetti territoriali fino a quel momento. L’esperienza drammatica della Prima Guerra Mondiale, dove i contadini furono impiegati a milioni come soldati al fronte, le mobilitazioni imponenti dei lavoratori agricoli a conclusione del conflitto, l’ascesa del fascismo e la conseguente repressione dei movimenti bracciantili, la crescente e disordinata industrializzazione furono tra le principali forze che operarono in questo periodo.
Dopo la seconda guerra mondiale gli assetti dell’agricoltura italiana cambiarono definitivamente e il lavoro del mondo contadino, principalmente manuale, smise di essere la forza più importante nel modellare le forme del paesaggio. Nell’immediato dopoguerra ripresero le lotte bracciantili che portarono ad abolire il latifondo nel 1950, concedendo la proprietà della terra ai lavoratori agricoli. La riforma agraria risultò efficace solo nel Centro-Nord dove i braccianti agricoli si organizzarono in un forte movimento cooperativo. Mentre nel Meridione si rivelò un insuccesso a causa della parcellizzazione delle proprietà, che non permetteva ai conduttori investimenti adeguati in grado di introdurre le necessarie migliorie. Nel successivo ventennio, quello del boom economico finanziato dai soldi statunitensi del Piano Marshall, milioni di persone si trasferirono in cerca di maggior fortuna, andando a lavorare nelle fabbriche soprattutto del Nord Italia. L’avvento della Rivoluzione Verde in agricoltura stravolse in maniera mai vista l’organizzazione del lavoro nelle campagne lungo tutta la Penisola. In primo luogo, la diffusione di macchinari sempre più pesanti ebbe il risultato di liberare quote sempre crescenti di manodopera da impiegare nell’industria. Inoltre influenzò le scelte colturali, favorendo quelle coltivazioni seriali che meglio si adattavano al lavoro meccanico. Infine determinò una selezione nell’utilizzo dei terreni agricoli, portando a un progressivo abbandono di tutti quelli che presentavano difficoltà d’accesso. I pendii più impervi dell’Italia collinare e montana vennero lasciati a loro stessi, mentre le lavorazioni eccessive dei trattori, richieste dai nuovi modelli agricoli, sconvolgevano gli equilibri biologici del suolo, esponendo ampie zone della Penisola ai pericoli del dissesto idrogeologico. L’ampio ricorso alla concimazione chimica e all’uso di pesticidi e diserbanti ha sicuramente contribuito alla massimizzazione delle rese produttive, ma, al contempo, ha avuto pesanti ricadute ambientali. Ha rotto il ciclo chiuso e l’autonomia tecnica che caratterizzava l’agricoltura italiana fino a quel momento, ha inquinato laghi, fiumi e falde sotterranee, ha dissipato la sostanza organica presente nei suoli, contribuendo alla loro mineralizzazione e facilitando così l’azione erosiva dell’acqua. La dipendenza dalla chimica ha condotto gli agricoltori, ormai tramutati in imprenditori e non più contadini, alla mercé di grandi corporation che controllano i mercati delle sementi, dei prodotti fitosanitari e dei concimi chimici. La ristrutturazione neoliberista, avviata in seguito alla crisi petrolifera degli anni ’70, ha accentuato questi squilibri. L’agricoltura dei Paesi affacciati sul Mediterraneo è stata riorganizzata, definendo lo spazio agricolo in enclavi produttive altamente specializzate, basate sulla diffusione di monocolture intensive, dove le scelte colturali e gli investimenti tecnologici sono dominati dalle esigenze della Grande Distribuzione Organizzata (AVALLONE, 2017). Si diffondono usi del territorio differenti, legati alla costruzione di opere infrastrutturali, che comportano trasformazioni e stravolgimenti irreversibili. Le stesse campagne si urbanizzano, diventando il rifugio per chi scappa dalla vita urbana e dove sono diffusi stili di vita per nulla alternativi a quelli presenti in città. Le zone di pregio turistico, invece, sono oggetto di speculazioni immobiliari e sono dominate da attività di servizio legate alle esigenze del mondo urbano, destinate a rendere indimenticabili le vacanze e lo svago dei turisti. Non è più riconoscibile il legame di necessità tra i territori dell’abitare e l’ambiente che li circonda. È il dominio assoluto degli spazi deterritorializzati
Dopo questo breve sorvolo su alcuni dei caratteri peculiari che hanno reso originali i paesaggi storici italiani, appare più chiaro come la trasformazione profonda occorsa negli ultimi decenni sia particolarmente problematica. Non aver tenuto conto della complessa realtà geografica italiana nella progettazione degli interventi sul territorio, nella collocazione di case e industrie, ha esposto le popolazioni locali a innumerevoli rischi e pericoli.
Parlando delle sofferenze delle persone vittime del dissesto idrogeologico in Italia, il geografo Francesco Vallerani utilizza l’efficace espressione de “il silenzio dei luoghi” per indicare l’indifferenza nei confronti della memoria territoriale e la perdita di interesse per le qualità ecologiche, estetiche e culturali dei territori da parte dei suoi abitanti. Questa incapacità interpretativa si traduce nel degrado del legame ecologico, affettivo e identitario con i luoghi della propria quotidianità e mina alla base le possibilità di intervento per far fronte ai problemi che la crisi ecologica ci pone davanti. I segni del passato, legati a consuetudini plurisecolari nei quali è iscritta la storia di intere generazioni, sono stati rapidamente giudicati obsoleti e superflui dalle esigenze della società contemporanea. I segni emersi dai processi edificatori non si sono integrati con ciò che c’era prima e hanno dato vita a quelli che Marc Augé ha definito come non – luoghi, ossia spazi altamente spersonalizzati e anonimi dove è difficile intessere relazioni durature, ma nei quali ognuno di noi trascorre una buona parte della propria esistenza (AUGÉ, 1993). È venuta meno la capacità di guardare qualsiasi luogo nella sua complessità e di cogliere, quindi, quella “dimensione immateriale che conferisce densità culturale e spessore simbolico alle strutture materiali dell’ambiente” (LIGI, 2011: 119).
Abbiamo visto come l’incapacità a elaborare un piano strategico che sappia indirizzare gli interventi volti a mettere in sicurezza i territori è una storia che parte da lontano. Una storia che si lega all’incapacità, a livello di politiche pubbliche, di leggere i paesaggi nella loro complessità, in quanto prodotto di un continuo intreccio tra le comunità locali, i mondi non umani (animali, vegetali, etc.) e le componenti geologiche di una data zona geografica. Provare a ripercorrere il filo di questa vicenda, parlando dei paesaggi come un testo nel quale è iscritto questo dialogo, complesso e incessante, può essere utile a chiarire la strada da intraprendere per affrontare le sfide alle quali il cambiamento climatico ci espone; o, quantomeno, a renderci consapevoli della falsificazione sotto la quale la popolazione e la classe politica in Italia hanno interpretato i possibili utilizzi del territorio, congestionando di abitazioni, di fabbriche e di edifici commerciali zone strutturalmente fragili dal punto di vista idrogeologico (IOVINO, 2022).
Se l’eredità del passato è stata troppo in fretta giudicata obsoleta e inadatta a rispondere alle esigenze della società moderna, dobbiamo essere consapevoli che un suo recupero non può tradursi in una semplice, per quanto consolatoria, museificazione del bel paesaggio italiano, così come viene proposto da una certa industria del turismo. Anzi
Il senso dei nuovi paesaggi sarà – dovrà essere – essenzialmente in questo rifiuto del paesaggio della vecchia cultura borghese, il paesaggio come cosa fatta dal contadino e rimirabile dal cittadino. Solo in questa prospettiva, infatti, è possibile sciogliere il nodo problematico della «difesa del paesaggio». (TURRI, 2014: 185)
Nel contesto della crisi ecologica e delle sue conseguenze appare evidente la necessità di modificare la relazione tra società e ambiente, di cui il paesaggio ne è una delle manifestazioni. Trovare risposta alla questione è quantomai complesso e può dar vita a forme di disorientamento dovute al fatto che le problematiche ambientali mettono in crisi molti dei valori sui quali si fonda la società moderna, in primis il ruolo della scienza come “unica voce credibile nella definizione delle dimensioni di rischio-sicurezza, nocivo-sano, sostenibile-insostenibile” (LONATI, 2015). Questo disorientamento, però, non è di per sé un fatto negativo, anche se legato a un’incapacità diffusa a immaginare e elaborare relazioni altre con quanto ci circonda. Rappresenta, quantomeno, l’apertura di uno spazio di possibilità nuovo a fronte di una monolitica visione del territorio piegata agli interessi dei vari attori economici. Tale idea di territorio, incentrata su una concezione funzionalistica dello spazio, non è più in grado di produrre forme d’abitare i luoghi che riescano a convivere armoniosamente con gli elementi che le circondano. Il recupero di quei saperi locali che concorrono a formare la sapienza ambientale (MAGNAGHI, 2001) di un dato territorio rappresenta certo un passaggio necessario nell’ottica di ripensare forme di comunità sostenibili. La prospettiva non è però quella di un’esaltazione del passato, bensì si situa nell’urgenza di avviare un dialogo che sappia farli convivere con la scienza moderna nell’ottica di una nuova razionalità ambientale, che prenda campo dalle pratiche che presuppongono nuove modalità d’uso dell’ambiente (LEFF, 2009). Le forme di solidarietà e mutuo soccorso che si attivano per far fronte alle catastrofi che colpiscono i territori, le pratiche agroecologiche che promuovono forme di agricoltura alternative ai modelli agro-industriali, la conflittualità dovuta all’acuirsi delle problematiche ambientali portata avanti dalla variegata galassia dei comitati e dai nuovi movimenti legati alla giustizia climatica rappresentano sicuramente quelle energie sociali innovative in grado di immaginare e costruire nuove forme di abitare i territori, facendosi così promotrici, allo stesso tempo, di nuovi paesaggi (anche urbani). Come dare spazio a questa pluralità di pratiche e relazioni rimane una delle sfide più importanti a fronte di un sempre maggior ricorso alle logiche emergenziali del commissariamento nella gestione delle varie crisi ambientali. La strada da tracciare è tortuosa e ricca di insidie, il sentimento di calamità endemica e degrado territoriale diffuso che traspare dalle cronache italiane non aiuta a sviluppare comportamenti in grado di limitare la furia distruttrice in atto (VALLERANI, 2012). Se all’orizzonte non si profilano cambi di paradigma nella gestione del territorio e il futuro appare ancor più fosco visti i ritmi nell’avanzata del consumo di suolo nel nostro Paese[5], non rimane che continuare a sperimentare pratiche che in qualche modo rafforzino la coscienza e il senso dei luoghi, indagando quei profondi legami che connettono le comunità col proprio contesto di vita, quantomeno nel tentativo di alleviare le quotidiane sofferenze, conseguenza del dissesto idrogeologico e del degrado ambientale, nelle quali vivono sempre più numerose persone in Italia.
Bibliografia
- A. A. V. V., AR6 Sesto Rapporto di Valutazione, 2022 (https://ipccitalia.cmcc.it/ar6-sesto-rapporto-di-valutazione/)
- A. A. V. V., Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici, 2022 (https://www.snpambiente.it/2022/07/26/consumo-di-suolo-dinamiche-territoriali-e-servizi-ecosistemici-edizione-2022/)
- AUGÈ, M. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1993
- AVALLONE, G., Sfruttamento e resistenze. Migrazioni e agricoltura in Europa, Italia, Piana del Sele, Ombre Corte, Verona 2017
- BEVILACQUA, P., Agricoltura. Campagne cosmopolite. http://www.filosofiatv.org/
- BEVILACQUA, P., (a cura di). Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, Marsilio editore, Venezia 1989.
- BENEGIAMO, M., La terra dentro il capitale. Conflitti, crisi ecologica e sviluppo nel delta del Senegal. Nocera Inferiore (SA), Orthotes 2021.
- C.I.R.F. (a cura di), Siccità, alluvioni e gestione dei corsi d’acqua per l’adattamento al cambiamento climatico servono soluzioni integrate e basate sulla natura, 2023, https://www.cirf.org/it/siccita-alluvioni-e-gestione-corsi-acqua-per-adattamento-al-cambiamento-climatico-servono-soluzioni-integrate-e-basate-sulla-natura/
- D’ATTORRE, P., DE BERNARDI, A. (a cura di), Studi sull’agricoltura italiana. Società rurale e modernizzazione, Feltrinelli, Milano 1994.
- HARVEY, D., Geografia del dominio. Capitalismo e produzione dello spazio, Ombre Corte, Verona 2018.
- IOVINO, S., Paesaggio civile. Storie di ambiente, cultura e resistenza. Milano, Il Saggiatore 2022.
- LEFF, E., Racionalidad Ambiental, Siglo XXI, Città del Messico 2009,
- LIGI, G., “Valori culturali del paesaggio e antropologia dei disastri”, in “La Ricerca Folklorica”, 64, 119-129, 2011. http://www.jstor.org/stable/23629712
- LONATI, G., Disorientamento e crisi ecologica globale. 2015 https://www.alternativeaps.org/2015/05/04/disorientamento-e-crisi-ecologica-globale/
- MAGNAGHI, A. (a cura di), Rappresentare i luoghi, Alinea editrice, Firenze 2001.
- NARDINI, A., “Inondazioni: le Autorità di bacino distrettuale non eviteranno la tragedia” in “Il Giornale dell’Ingegnere”, 2, 28-30, 2023.
- SETTIS, S., Paesaggio, costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010.
- TURRI, E., Semiologia del paesaggio italiano. Venezia, Marsilio editori 2014.
- VALLERANI, F., “Dalla rottura degli equilibri al silenzio dei luoghi: Per una geografia dell’apocalisse diffusa”, in “La Ricerca Folklorica”, 66, 19-30, 2012. http://www.jstor.org/stable/24389823
[1] Molti sono i dati riscontrabili in rete. Per un approfondimento legato all’andamento atmosferico di questa primavera si rimanda a “Le alluvioni di maggio 2023: un’analisi scientifica” (https://www.cimafoundation.org/news/le-alluvioni-di-maggio-2023-una-analisi-scientifica/).
[2]Si rimanda al VI rapporto di valutazione dell’IPCC consultabile in italiano al seguente link https://ipccitalia.cmcc.it/ar6-sesto-rapporto-di-valutazione/
[3]Per un confronto e un’analisi dei dati pluviometrici per il 2023 si confronti la nota pubblicata da SNPA Ambiente sul proprio sito (https://www.snpambiente.it/2023/06/09/clima-in-lombardia-maggio-piovoso-ma-come-sara-lestate/#:~:text=In%20totale%20sul%20capoluogo%20sono,2002%2C%20con%20ben%20237mm).
[4]Per approfondire il ruolo del mercato globale nel produrre paesaggi si veda sia il lavoro di Harvey, in particolare “Geografia del dominio. Capitalismo e produzione dello spazio”, sia le analisi del sociologo statunitense Jason W. Moore “Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato”.
[5]Per un’analisi dettagliata del fenomeno del consumo di suolo in Italia confronta la pubblicazione a cura dello SNPA “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2022” (https://www.snpambiente.it/2022/07/26/consumo-di-suolo-dinamiche-territoriali-e-servizi-ecosistemici-edizione-2022/).