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Anselm Jappe, “Cemento arma di costruzione di massa”, Elèuthera, Milano 2022 (ed. or. 2020)

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Il libro di Alselm Jappe coglie forte nel segno: il cemento è uno dei fattori primordiali della società contemporanea, uno dei suoi simboli più visibili e citati, eppure tende a essere assunto come un fatto, parte di una seconda natura ineluttabile. La tesi di Jappe è che il cemento sia invece la principale materia, con la plastica e la benzina (p. 186), che struttura il capitalismo industriale nel suo crescendo distruttivo. “Il cemento fa male” (p. 91).

Per “cemento” si deve intendere il cemento armato, invenzione di fine Ottocento che ha ben poco a che fare con il suo antenato romano e le varianti comparse tra ‘700 e ‘800. Con il cemento antico è stato fatto il Pantheon, che è ancora su. Con il cemento armato è stato fatto il Ponte Morandi, ovviamente nell’idea che sarebbe stato ancora su: ma il cemento armato, spiega Jappe, è tutt’altra cosa dal buon vecchio cemento. Cemento e acciaio sono due cose che non vanno molto bene insieme soprattutto perché le fissurazioni del primo fanno corrodere il secondo, che si ossida, si gonfia e fa esplodere l’opera o una sua parte (p. 100).

In realtà il cemento armato non è mai stato pensato eterno, come invece il cemento-amianto (che purtroppo è davvero Eternit; sorprendente che vi sia un solo rapido accenno a p. 102). Negli anni Sessanta, quando il cemento conquista il mondo, si pensava a una durata di un secolo – sbagliando comunque per eccesso perché tendenzialmente si renderanno necessari ben prima interventi più o meno radicali.

Ma a parte questo, cos’ha che non va, il cemento armato? Il capitolo 3, dall’eloquente titolo: “Le devastazioni di un materiale”, è dedicato a un’impressionante elencazione dei costi ambientali del suo ciclo di produzione. Anzitutto, stiamo parlando di un’industria colossale: tra il 1950 e il 2019, informa Jappe, la produzione mondiale passa da meno di 200 milioni di tonnellate l’anno a 4,4 miliardi, un tasso di crescita triplo rispetto a quello dell’acciaio e oggi alimentato soprattutto dalla Cina (p. 87). I malefici del cemento sono ricondotti a quattro categorie: nocività per la salute umana; conseguenze dell’estrazione di sabbia e ghiaia; consumo di energia ed emissioni di biossido di carbonio durante la “cottura”; sterilità dei suoli. L’accento viene posto in particolare sull’impatto catastrofico sugli ecosistemi dell’estrazione di quantità immense di sabbia e sul contributo rilevantissimo alle emissioni annue globali di anidride carbonica (il ciclo di produzione del cemento ne è responsabile per una percentuale tra il 4 e l’8%, p. 93).

Tutto quanto detto è chiaramente molto importante e relativamente poco noto, meriterebbe quindi ampiamente di essere al centro di un libro. Eppure, la storia materiale del cemento armato e la denuncia dei suoi altissimi costi ambientali sono qui i pur fondamentali dati di contesto per un piano ulteriore del discorso, costituito da un attacco frontale all’architettura moderna. Questa, fondandosi sul cemento armato sin quasi a fare tutt’uno con esso, sigilla la sua marcia di espropriazione della millenaria capacità di costruire, variamente manifestata dalle comunità umane in tutto il pianeta. Di qui la frase che meglio sintetizza la prospettiva dell’autore: “Il suo [del cemento] più grave peccato è forse quello che in genere passa per il suo maggior merito: aver reso possibile l’architettura moderna” (p. 109).

Jappe nella muscolare pars destruens attinge al rigetto opposto da diversi situazionisti, in primo luogo da Guy Debord, alla grammatica architettonica e urbanistica di Le Corbusier, subito riconosciuta come traduzione fedele delle simpatie politiche fasciste del loro autore (il “caso Le Corbusier” è scoppiato in Francia nel 2015, quando due libri portarono l’attenzione su una serie di chiare scelte di campo, ripetute tra gli anni ’20 e gli anni ’40). Nel Secondo Dopoguerra Le Corbusier godeva in effetti di un’ammirazione internazionale e trasversale, come confermato nel libro dai giudizi dello storico dell’arte comunista Giulio Carlo Argan. Vale quindi la pena riportare parte di una lunga citazione di Debord, che fa capire assai bene la temperatura polemica del tempo ma anche del libro: “In quest’epoca sempre più sotto il segno della repressione, c’è un uomo particolarmente ripugnante, decisamente più sbirro della media. […] Il protestante Modulor, il Corbusier-Sing-Sing, l’imbrattatore di croste neocubiste, fa funzionare la ‘macchina per abitare’ per la maggior gloria di Dio, il quale ha fatto a sua immagine e somiglianza le carogne e i Corbusier” (p. 78).

Jappe nota giustamente come la città utopica di Constant, chiamata “New Babilon” su suggerimento di Debord, sia più la semplice inversione che un’effettiva alternativa rispetto alle parole d’ordine del funzionalismo nella sua declinazione vincente, quella appunto di Le Corbusier. La critica alla regola modernista poggia quindi in parte sulla rivalutazione di un grande outsider della storia dell’architettura (cap. 6: “Elogio di William Morris”), ma soprattutto su un’apologia delle architetture tradizionali o vernacolari, cioè esattamente quello che l’architettura moderna avrebbe assassinato (p. 115).

Qui Jappe mostra una carica affettiva, quasi sentimentale, che aiuta a distinguere la sua radicalità da quella rinvenibile in altre aree dell’ultra-sinistra: l’impasto deleuzian-foucaultiano che domina i nostri centri sociali tende infatti a produrre atteggiamenti “duri”, immersi in quella che Mario Perniola denominava “sonorità hardcore”. E giù spille, borchie, tatuaggi, techno, cani ma lupo, ecologia sì ma deep etc. La stretta via di Jappe prevede invece lo sguardo ammirato davanti a un edificato in piena armonia con la natura, persino l’ascolto dei muri delle antiche case “dove possiamo udire ancora, se davvero lo vogliamo, il mormorio delle generazioni che l’hanno abitato” (p. 121). Per Jappe il bello non è relativo, il bello esiste, ed è . Quindi anche il brutto esiste ed è simboleggiato dall’architettura brutalista, quella più svergognata nell’esibire cemento grezzo e interiora degli edifici. Ma il peggio è quando questi materiali vanno in rovina: “Quasi tutti concorderanno che questi resti sono orrendi da vedere” (p. 107). Qui in una nota Jappe cita l’archeologia industriale come una variante del trash, cioè come una disciplina fondata sull’attrazione esercitata dal brutto, costituito nella fattispecie dal patrimonio industriale. Di qui la prima delle tre note critiche conclusive.

In effetti, la nozione di patrimonio culturale è intrinsecamente relativista: tutto può farne parte perché tutto può essere riconosciuto come significativo per le future generazioni. Quindi sì, un hangar in cemento in rovina (p. 107) può diventare patrimonio, cioè oggetto di un ascolto che, se non proprio il mormorio delle generazioni che l’hanno abitato, punti a ricostruire la storia sociale di quel luogo (la Fondazione Micheletti lavora meritoriamente sul tema a partire dagli anni Settanta, in una prospettiva perfettamente espressa dal nome della rivista in cui è pubblicata questa recensione).

Di fronte poi al modo in cui Jappe identifica l’oggetto principale dei suoi attacchi, cioè l’architettura moderna, avrebbe gioco facile chi facesse notare la pressoché totale assenza di articolazione della critica: l’opera di Le Corbusier, assunta come blocco unitario e univoco, definisce senza resti l’architettura moderna e quindi anche l’unica alternativa citata, quella postmoderna. Finita qui la storia dell’architettura dell’ultimo secolo. Jappe, peraltro, dice all’inizio di non essere un esperto di storia dell’architettura e questo libro ha sicuramente i pregi, ma necessariamente anche qualche limite, del pamphlet. Non è questo il punto, per chi scrive. Ma proprio in questa chiave politica e polemica, spingere così tanto sul ruolo dell’architettura moderna come attore decisivo della rottura segnata dal cemento desta più di qualche perplessità. “Impiccare gli architetti?”, ci si chiede addirittura, citando un passo in effetti molto incisivo di Disraeli. Eppure mi pare sia lo stesso Jappe a rispondersi: quando Le Corbusier cerca di sfondare a Est, offrendo i propri servizi all’URSS stalinista, riesce a costruire solo un edificio. Il grande cementificatore non sarà certo il nostro untorello svizzero-francese, ma Chruŝĉëv, che significativamente negli anni ’50 presenterà il suo discorso programmatico sull’edilizia popolare “davanti a costruttori, architetti e lavoratori edili”. La platea si fa già più varia. Se teniamo conto che la strategia consisterà nell’industrializzazione dell’intero processo di costruzione mediante l’uso di prefabbricati in cemento installati mediante speciali trattori ed enormi carroponte su rotaie,  viene da pensare che la cementificazione reale sia avvenuta, materialisticamente diremmo, in presa diretta con la struttura industriale e logistica del Paese, a cui sono certo più funzionali tecnici con le competenze minime del caso rispetto ad architetti potenzialmente non allineati (nella misura in cui un architetto è allineato, basta il basso funzionario). Se poi stiamo all’Italia, per ogni stazione ferroviaria o alloggio universitario di architetto modernista o postmodernista citato o citabile da Jappe troveremo migliaia e migliaia di opere di geometri o architetti-geometri (cioè geometri che hanno studiato per poter “mettere la firma”, punto) ugualmente distanti dalle virtù dell’antico costruttore delle Cicladi o del muratore (prima che arrivassero gli architetti). Eppure, è il basso continuo di progetti che rivendicano di non avere alcuna pretesa “da rivista di architettura” che ha cambiato il Paese e che manda avanti la macchina. Un Paese che Jappe conosce bene, perché descrive alla perfezione le tattiche di auto-costruzione diffuse soprattutto al sud, con strati di cemento che si sommano anno dopo anno ma spesso senza giungere a compimento. Solo che questi esempi vengono usati per mostrare consapevolezza del fatto che il saper-fare “popolare”, oggi, non è un’alternativa all’architettura moderna. Benissimo, niente populismo, ma perché insistere su una pseudo-élite gregaria? Gli architetti sono attori non protagonisti di un processo gigantesco e profondo, all’incrocio di capitalismo industriale, finanza e mafie (dimensione che giustamente Jappe non dimentica mai, anche qui in linea con Debord). Così accanendosi, Jappe indulge in una ricostruzione spiritualista (“teoreticista” direbbe Bourdieu) della storia materiale della società contemporanea, un meccanismo in cui le archi-star, per quanto riescano a farsi pagare e per quanto dicano o scrivano, non possono che svolgere una funzione decorativa.

Infine, chiudere un lavoro del genere, abrasivo, urtante e appassionato, citando come riferimenti finali Hannah Arendt, Christopher Lasch e Zygmunt Bauman, smonta un po’. Al di là delle ovvie differenze, si tratta di intellettuali pubblici con background umanistico sicuramente degni di rispetto, ma esemplificativi di una forma di pensiero che tende a non vedere nel cemento armato una questione della massima rilevanza politica, come invece il bel saggio di Jappe aiuta a fare.

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Piero Bevilacqua, Prefazione a Alberto Berton, "La storia del biologico. Una grande avventura", Jaca Book - Fondazione Luigi Micheletti, Milano 2023.

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