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Vie d’uscita dall’assillo della crescita

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Contributo al seminario, Decrescita: una via ecosociale al cambiamento, Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 30 marzo 2023.

Accordiamo il lessico

La prima cosa da fare, quando si tratta di crescita o decrescita, o anche di stato stazionario, è precisare la grandezza a cui si fa riferimento. Fin dall’inizio, cioè, bisogna sapere se lo ‘spazio’ del discorso è quello

  • del Prodotto interno lordo, vale a dire del valore monetario del flusso di beni e di servizi del quale esso si compone, oppure
  • dei flussi fisici, di energia e materia, che quegli stessi beni e servizi richiedono per essere prodotti, consumati e smaltiti, o anche riciclati, oppure
  • di tutte e due le cose[1].

Se si tratta dei flussi fisici, ritengo che la posizione da prendere sia ben chiara: i consumi di energia e materia imputabili ai paesi ricchi devono decrescere, e devono farlo in modo rapido e massiccio, affinché quelli imputabili ai paesi poveri possano crescere senza pregiudicare definitivamente le possibilità di ‘vita buona’ sul pianeta Terra. L’affermazione riposa appunto sul combinato disposto (i) delle acquisizioni scientifiche in materia Planetary Boundaries e (ii) del principio etico-politico intitolato alle Common but Differentiated Responsabilities and Related Capabilities -e in certa misura può anche essere tradotta in numeri. Per esempio, “gli ecologisti industriali ritengono che a scala globale l’estrazione e l’uso di materiali non dovrebbe eccedere 50 miliardi di tonnellate. Nel 2015 l’economia globale ne ha utilizzate 87 miliardi all’anno, superando il limite del 74% […]. Questo superamento è quasi interamente dovuto all’eccessivo consumo di risorse nei paesi del Nord globale [che] nel 2015 ha consumato 27,71 tonnellate di materiale procapite, che è quattro volte la soglia sostenibile di 6,80”.  E neppure si tratta soltanto del massiccio effetto di spiazzamento che si legge nelle cifre appena riportate, bensì di un vero e proprio drenaggio di risorse, perché accade anche che “la maggior parte dell’eccessivo consumo del Nord (il 58%) sia frutto di un’appropriazione netta dal Sud globale”[2].

In termini fisici le cose non mancano dunque di evidenza. Ma la questione della decrescita, in realtà, implica potentemente la dinamica dei flussi monetari nei quali, grazie al “sistema impersonale dei prezzi” (Arrow), riassumiamo l’andamento dell’attività economica. Di fatto, almeno all’inizio, l’idea è stata formulata proprio con riferimento al Pil – collegandosi anche, così, a giustissime istanze di de-mercificazione (concetto che ovviamente può essere chiamato in causa soltanto nello spazio dei valori di scambio) e all’ondata di critiche nei confronti della ‘significatività’ del Pil in corso da decenni, che ormai ha svelato tutti i suoi difetti.

Comunque, in proposito, non c’è motivo di accapigliarsi. Per ragioni che mi sembrano anche abbastanza importanti, in questo contributo userò sempre il termine decrescita con riferimento all’evoluzione dei flussi monetari; ma anche se decidiamo di riservarlo all’andamento dei flussi di energia e materia (posizione oggi prevalentemente sostenuta da coloro che ne fanno una bandiera[3]), la sorte da riservare alla dinamica del Pil non può comunque sparire dal discorso, se non altro perché il Pil ‘distribuisce’ i redditi monetari. I salari e i profitti si pagano e realizzano in denaro, non in termini fisici, così come in denaro, non in termini fisici, si pagano le tasse: non mi sembra proprio che da questa situazione sia possibile recedere, e tanto basta, però, a far sì che il destino del Pil non possa essere trattato con troppa sufficienza[4].

Ripeto e generalizzo. Per parte mia, salvo diversa specificazione, tutti e tre i termini, crescita, decrescita e stato stazionario, saranno sempre usati con riferimento ai flussimonetari che formano il Pil – nella speranza di dire cose che possano interessare anche chi li usa in modo opposto.

Nello spazio così definito, non sono in grado di proporre un’indicazione altrettanto netta e univoca di quella formulata circa i flussi di energia e materia. Sono però in grado di dare un nome preciso alla linea di ragionamento che mi sembra degna di essere esplorata – un nome tutt’altro che inedito, e magari apparentemente vago, o addirittura debole, ma in verità, a prenderlo sul serio, fin troppo pregnante e demanding. In breve si tratta dell’idea che nei paesi occidentali è tempo di pensare al futuro dell’economia in termini di ‘post-crescita’[5]. Alla fine del discorso saranno chiare (spero) le ragioni di questa scelta lessicale. Qui comincio col dire come uso il termine, comunicando al lettore che si tratta di un termine ‘ombrello’, per due motivi:

  • da un lato, perché raccoglie sotto di sé considerazioni di tipo normativo e di tipo positivo, di desiderabilità e di probabilità;
  • dall’altro, perché raccoglie sotto di sé diversi modi di abbandonare il dominio che il ‘discorso’ della crescita (del Pil) ha esercitato negli ultimi due o tre secoli, da che capitalismo è capitalismo.

Concettualmente, il tempo della crescita è appunto un tempo nel quale la crescita si impone come il porro unum – l’istanza-chiave, l’imperativo categorico, ecc. – di tutta la vita sociale ed economica. La ‘post-crescita’ è un tempo nel quale questo dominio – l’assillo della crescita – viene a cadere, è ‘reso storia’, come dicono gli inglesi.

La ‘figura’ della crescita

Intanto, l’argomento ha una precisa sostanza matematica. Secondo la tesi che intendo sostenere, il dominio esercitato dal ‘discorso’ della crescita coincide con la pretesa, leggibile nei documenti dell’establishment economico globale, che il Pil aumenti a un saggio composto del 2-3% all’anno, vale a dire che aumenti all’infinito, senza limiti di tempo, in modo esponenziale – appunto di un fattore pari a 1,02-1,03 all’anno. Dunque, proprio la cosa che, secondo Boulding, soltanto un pazzo, o un economista, può pensare sia possibile – con l’aggiunta, rispetto al joke, del ritmo che l’aumento deve rispettare. Il 3%, per esempio, era previsto per l’Europa dalla Strategia di Lisbona (2000), ma se prendiamo l’insieme degli Integrated Assessment Models utilizzati dall’IPCC nel suo ultimo rapporto (2023) troviamo ancora valori compresi tra il 2,5 e il 3,5%[6].

Cercherò di dire qualcosa anche circa questi numeri. Ma innanzi tutto conviene che la forma esponenziale sia messa a tema in quanto tale, cioè proprio nella sua ‘figura’ – e domandarsi quale sia la sua radice. La riposta può essere fornita in termini stringenti, al modo delle necessità che sorgono sul piano dei concetti. La crescita del Pil deve essere di tipo esponenziale perché viviamo in un’economia di tipo capitalistico, ovvero perché il Pil è il terreno sul quale in ultima istanza si gioca la partita della valorizzazione del valore – lo ‘spazio’ nel quale avviene il processo di autoespansione del denaro, che del capitalismo costituisce il bulk. È qui, nel movimento D-M-D’, denaro-merce-denaro in quantità maggiore, per usare l’insuperata formula di Marx, che l’esponenzialità trova la sua origine – e di qui, però, si ‘trasferisce’ all’intero flusso di beni e di servizi che chiamiamo Pil. Per sua vocazione, il capitale si accumula, e però, anno dopo anno, deve aumentare in ragione della quantità che già è stata accumulata. Tale l’‘atto di nascita’ dell’esponenzialità, che tuttavia, per forza di cose, finisce per investire l’intero volume dell’attività economia: come David Harvey dice in modo apprezzabilmente semplice, se il Pil non cresce al 2-3%, bensì, poniamo, a meno dell’1%, molti capitalisti non riescono a realizzare i profitti attesi (i quali, beninteso, sono molto più alti del 2-3% all’anno) e il quadro, per conseguenza, assume connotati di tipo recessivo[7].

Così, tra l’altro, si capisce perché l’argomento contempli in modo impegnativo il tema dell’‘infinità’. Anche qui siamo in presenza di una cospicua valenza concettuale, essendo la stessa natura del denaro – puramente quantitativa, indifferente, astratta – a far sì che la sua crescita non contenga al proprio internoalcun principio di limitazione. Al riguardo conviene proprio lasciare la parola a Marx: “Certo, cento sterline sono divenute 100 +10. Ma […] una volta che si tratti di valorizzazione del valore, il bisogno che si ha di valorizzare centodieci sterline è lo stesso di quello che si ha per cento, poiché cento e centodieci sono entrambi espressioni limitate del valore di scambio, e quindi hanno ambedue la stessa vocazione di avvicinarsi alla ricchezza assoluta espandendo la propria grandezza”[8]. Perciò, appunto, il must di un progressus in infinitum – che dal denaro in quanto tale, o meglio in quanto capitale,passa nel sistema.

E così, ancora, si comprende quanto necessario e stringente sia il rapporto che il ‘discorso’ della crescita intrattiene con il piano dei valori monetari, perché e per come il ‘discorso’ della crescita riguardi proprio il Pil – che giustamente, in questo senso, è stato preso di mira dall’opposto ‘discorso’ della decrescita

Diverso il caso della domanda che verte sull’entità del saggio di crescita eletto a ‘norma’. Per quanto la riguarda, piuttosto che di un motivo concettuale, siamo in presenza di una cospicua ragione storica, di una macroscopica evidenza empirica. In media, da quando esiste, il capitalismo ha fatto registrare un tasso di crescita del Pil pari al 2,2-2,3% all’anno, del quale si può quindi dire che di fatto è stato sufficiente a farlo ‘funzionare’. D’altra parte, essendo una media, il valore appena citato nasconde periodi buoni e cattivi, comprese fasi di recessione più o meno catastrofiche. Così, un bench mark del 3% corrisponde all’idea di un’economia capitalistica ‘sana’, in buono stato di salute. Analogamente, trattandosi di una media, il valore storico del 2,2-2,3% nasconde anche grandi differenze in termini geografici: argomento che a sua volta, naturalmente, non può restare estraneo alle proiezioni di lungo e di lunghissimo periodo. E infatti, il riferimento al 3% va adesso precisato con l’osservazione che la maggior parte dei modelli contiene valori più bassi per i paesi ricchi, intorno al 2%, e più alti per quelli poveri, intorno al 3,5%, o anche più.

Ma l’ordine di grandezza, come si vede, resta lo stesso, e proprio questo dato di costanza rende tanto più robusto il significato dei numeri in questione: di preciso, quei 2 e 3% non sono niente di meno che la messa in cifre delle condizioni di riproduzione del capitalismo, che per altro, visto lo ‘spirito’ del sistema, non potrebbero mai mancare di assumere la veste di certe quantità – e però di quantità ‘dicibili’, che non rimangano affidate al caso.

Perché ‘post-crescita’

La figura della crescita così delineata, compresa l’indicazione del saggio eletto a norma, si presta adesso a tre rilievi.

  • In primo luogo la sua insostenibilità ambientale, cioè, precisamente, l’incompatibilità con la decrescita (diminuzione) dei flussi fisici della quale vi è bisogno, rapida e massiccia come deve essere[9].
  • In secondo luogo la sua (alta) improbabilità, che d’altra parte non è una buona notizia, visto che nessuno può volere una crescita fallita, cioè una società ‘organizzata’ per crescere che però non riesce a farlo.
  • In terzo luogo, per l’uno e per l’altro aspetto, la conseguente necessità di abbandonare il bench mark del 2-3%, per quanto è pregnante, e però di farlo in modo riflessivo, intenzionale, consapevole – di abbandonarlo in a just and safe way, come spesso capita di leggere.

3.1

Per quanto riguarda il punto (a),delle tantissime cose che si potrebbero dire, scelgo la crescente evidenza, come mi sembra, delle questioni che sorgono dal lato della materia piuttosto che da quello dell’energia (sicché, naturalmente, il pensiero corre subito a Georgescu-Roegen e alle discussioni intorno all’incerta esistenza di una ‘quarta legge della termodinamica’).

La giustificatissima attenzione alla questione del Climate Change, che essenzialmente è una questione ‘energetica’, ha finito per mettere in ombra il fatto che esiste una autonoma questione dei ‘materiali’, delle resources, nel senso in cui l’espressione è usata in letteratura. Come abbiamo già visto, oggi siamo a un consumo di 85 Gtons contro le 50 sostenibili, e le previsioni contenute negli ‘scenari base’ (appunto quelli che incorporano il bench mark di cui sopra) non sono meno catastrofiche di quelle che riguardano la concentrazione della CO2 nell’atmosfera e il Global Warming. Discorso analogo vale per il consumo di acqua, già oltre la soglia critica, come risulta da una recente revisione dei Planetary Boudaries (2022).

In più, il problema dei materiali (e dell’acqua) sorge anche dal lato dell’energia, come un ospite più o meno inatteso e imbarazzante. Secondo il seguente percorso logico.

  • I combustibili fossili possono essere sostituiti dalle fonti rinnovabili, essenzialmente dall’energia solare, che è gratuita, pulita e inesauribile.
  • Sì, ma l’uso delle fonti rinnovabili implica l’impiego di materiali (e suolo), che invece sono disponibili in quantità finite e la cui estrazione comporta impatti ambientali di grandi proporzioni (e un grande consumo di risorse idriche).
  • Sì, ma i materiali si possono riusare.
  • Sì, ma non si possono mai riusare integralmente e soprattutto, per riusarli, c’è bisogno di energia, cioè, per il punto 2, di altri materiali (e altro suolo, e altra acqua).

In forma più compatta: i problemi che sorgono dal lato della materia, non possono essere aggirati via riuso dei materiali già usati, perché questo riuso richiede energia, che certo può essere fornita da fonti rinnovabili, ma non senza l’impiego di altri materiali. Questi ultimi, a loro volta, potranno essere riusati, ma non senza l’impiego (di altra energia e quindi) di altri materiali ancora, in un processo che in ogni caso comporta un aumento netto del consumo di materia. Del resto, come scrive Burkett, “given that the earth is open to massive solar energy inflows but basically closed materially, it is not surprising that low-entropy matter, not energy, emerges most clearly as the ultimate constraint on human production”[10].

D’altra parte, siccome nel frattempo si verificano vari fenomeni di riduzione dell’intensità di energia e materia per ogni unità di Pil, cioè vari guadagni di efficienza, che ovviamente non è il caso di mettere tra parentesi, il risultato che si ottiene non è immediatamente chiaro. Per dirla con Tim Jackson, “it still isn’t clear that this immediately rules out some form of growth” [non è tuttavia immediatamente chiaro che questo mette fuori gioco qualsiasi forma di crescita]. Tutto dipende dal combinato disposto di molte velocità relative (alcune delle quali catturate dalle Kaya identities, che poi sono un’altra versione del ‘modello’ IPAT). In particolare, conta il confronto tra il saggio di aumento dei Pil e la riduzione dei vari coefficienti che catturano il suo impatto ambientale (per esempio contenuto di energia di ogni unità di Pil e la quantità di CO2 associata a ogni unità di energia, ma anche, appunto, la quantità di materia richiesta dalla produzione di ogni unità di energia, ecc.).

Non per questo, però, siamo consegnati a una condizione di pura e semplice incertezza. La conclusione, anzi, colpisce per quanto è stringente. Ancora con Tim Jackson: “it’s clear that the larger the economy becomes the more difficult it is to decouple that growth from its material impacts. We don’t even need thermodynamics to make this point. A bigger economy implies a bigger capital stock. A bigger capital stock means higher depreciation. An infinite economy (the ultimate outcome from eternal growth) means infinite depreciation. Infinite maintenance costs”[11]. Giustissimo, salvo irrobustire ancora il ragionamento, come in effetti mi sembra possibile, tornando a mettere in evidenza il fatto che stiamo parlando una crescita di tipo esponenziale, circa la quale si può sostenere un punto di principio, e utilizzarlo per ‘illuminare’ un’evidenza empirica (la situazione nella quale, di fatto, ci troviamo).

Siccome una crescita esponenziale implica aumentinell’unità di tempo che tendono all’infinto in valore assoluto, bisogna che ogni genere di impatto materiale diventi uguale a zero, altrimenti si rivelerà, esso stesso, infinito – e però, mentre una grandezza monetaria infinita è perfettamente concepibile, una riduzione a zero del suo contenuto materiale, e del suo conseguente impatto, è fuori discussione. Fin qui sul piano dei principi. Ma l’impossibilità logica (o semi-logica) dell’azzeramento dell’impatto materiale di ogni unità di Pil suggerisce l’idea che esisterà un qualche punto del processo oltre il quale, sebbene ‘non ancora’ infinito, il valore assoluto della crescita nell’unità di tempo sarà tanto grande da rendere impossibile la sua compensazione – visto che la riduzione dei flussi di energia e materia contempla appunto motivi di ‘rigidità’ che la nozione di crescita esponenziale e la natura astratta del denaro non conoscono. E sulla base delle evidenze empiriche disponibili, però, si può avanzare l’ipotesi che il suddetto ‘qualche punto del processo’, della cui esistenza siamo abbastanza certi, sia adesso – o meglio, da vari decenni a questa parte[12]. Chiaramente, questo non è più un giudizio ‘logico’, bensì un giudizio storico, a matter of fact. Tuttavia, a metterli insieme, è pur vero che la necessità del primo si ‘riverbera’ sull’evidenza oggetto del secondo, rendendola in certo modo più ‘definitiva’.

Se il filo di questo ragionamento non è insensato, non soltanto il joke di Boulding makes perfect sense – l’idea di una crescita esponenziale all’infinito è una follia – ma l’infinito, per così dire, è già qui, tra noi, è ormai venuto all’ordine del giorno.

3.2

Dunque non dobbiamo (voler) crescere al 2-3% all’anno – e chi invece avanza questa pretesa può ben essere accusato di (voler) imporre un dominio della crescita. Ma nell’ultimo decennio, a questo ordine di considerazioni, di tipo normativo, si è aggiunto un certo numero di analisi accomunate dall’idea che le economie dei paesi ricchi devono oggi fare i conti con la prospettiva di un’incombente o già iniziata secular stagnation, o comunque con uno slow down della crescita, del resto in corso dalla fine della Golden Age. Dunque, come anticipato, un giudizio di tipo ‘positivo’: qualunque cosa pensiamo della crescita, ci piaccia o no, vi sono buoni motivi per aspettarci che di fatto ce ne sarà di meno. Come pure degno di nota è il fatto che giudizi del genere non sono appannaggio esclusivo di autori più o meno eterodossi, sempre propensi a pensar male, ma circolano anche, con una certa larghezza, all’interno del pensiero economico ‘ufficiale’ – almeno da quando Larry Summers, già capo economista della World Bank e Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, nonché rettore di Harvard, ha sollevato la questione in un discorso tenuto otto anni fa presso il Fondo monetario internazionale.

Nel dibattito che è seguito, ha preso piede la tendenza a distribuire le posizioni dei partecipanti su due versanti, a seconda che la prospettiva sia ricondotta a fattori operanti dal lato della domanda ovvero dell’offerta. Forse, la distinzione si è irrigidita oltre il dovuto, ma naturalmente non è questa la sede per tentare una valutazione ponderata di tutti gli argomenti in campo. Molto brevemente, quindi, mi limiterò a dire quali indicazioni, per parte mia, ricavo dal dibattito.

(a) Il problema non riguarda la distanza tra l’output effettivo e l’output potenziale dell’economia (come nel contributo di Summers). E neppure, pertanto, riguarda l’impossibilità che il tasso d’interesse, dato il suo lower bound, scenda fino al punto di ottenere che i due aggregati vengano a coincidere (via crescita della domanda di beni capitale). Tra l’altro, un approccio del genere implica l’adesione al quadro analitico incentrato sull’idea dei loneable funds – vale a dire sulla domanda/offerta di fondi a prestito, frutto delle scelte di risparmio compiute dalle famiglie e dalle imprese, con le banche a fare soltanto da ‘intermediari’ – che veramente si vorrebbe vedere messa da parte una volta per tutte.

(b) Il problema, come tra gli altri lo intende Gordon, riguarda proprio il potenziale di crescita dell’economia – pur sempre misurato nello ‘spazio’ dei beni e dei servizi il cui flusso forma l’aggregato noto come Prodotto interno lordo (dunque in termini monetari).

(c) Tre sono i fattori che più al fondo giustificano l’idea che oggi, dal potenziale di crescita dell’economia, misurato come detto, ci si debba aspettare (e si debba pretendere) meno che in passato.

(c.1) Il peso crescente, nella composizione settoriale delle attività produttive, di ambiti variamente affetti dal “benefico morbo dei costi” che Baumol ha scoperto oltre cinquant’anni fa, vale a dire l’incidenza di attività contraddistinte da condizioni intrinsecamente avverse alla sostituzione del lavoro vivo con quantità crescenti di tecnologie. Il risultato è un livello di produttività pressocché stabile, o comunque destinato ad aumentare con lentezza – che d’altra parte, proprio perché necessariamente tale, non ha niente a che vedere con dati di inefficienza, arretratezza o simili.

(c.2) Al capo opposto dello spettro merceologico, alcuni tratti salienti dell’innovazione tecnologica di stampo digitale, il cui contributo alla crescita della produttività – come testimoniato per tempo dal Solow Paradox – è molto meno pacifico di quanto ci si potrebbe attendere. Delle controversie che ne sono derivate, a me sembra, si può venire a capo osservando che le innovazioni di stampo digitale hanno determinato una specie di disaccoppiamento tra l’entità delle trasformazioni materiali, vistosissime, e la consistenza delle stesse in termini economici (di nuovo il dato leggibile nel Pil). Certamente va in questa direzione la diminuzione dei coefficienti di capitale fisso (di due o tre ordini di grandezza) segnalata dallo stesso Summers; ma anche l’enorme quantità di servizi forniti a prezzo zero, perché tale è il loro costo marginale, torna a dire che macroscopici cambiamenti sul piano delle ‘cose’ – dei prodotti, dei consumi, dei comportamenti – non trovano riscontro in analoghe evidenze sul piano delle grandezze monetarie chiamate a ‘crescere’. Il che, conviene aggiungere, è ben lungi dal costituire un problema di natura soltanto statistica, di significatività del Pil, visto che dalle grandezze in questione, di nuovo, dipendono per intero i redditi distribuiti all’interno del sistema.

(c.3) Il rincaro dell’energia in termini assoluti e reali, vale a dire il venir meno di fonti contraddistinte da alti o altissimi ritorni di energia per ogni unità di energia impiegata. Nel caso dei fossili si è passati da rapporti intorno a 1:30 a rapporti intorno a 1:10: e le fonti rinnovabili, in genere, sono contraddistinte da valori ancora meno alti.

(d) L’enorme aumento delle diseguaglianze e la parossistica espansione dei mercati finanziari. Di entrambi i fenomeni, certamente nemici della crescita, va detto devono molto a scelte politiche più o meno consapevoli. Ma è importante aggiungere che queste ultime sono intervenute, amplificandole, su cause già operanti nella configurazione di base che l’economia ha assunto all’uscita dalla già citata Golden Age (i precedenti punti c.1 e c.2, altri ancora), e che larga parte dei conseguenti danni ‘aggiuntivi’ va imputata all’ostinato “perseguimento della crescita a tutti i costi anche in presenza di fondamentali ostili”[13], che pure è leggibile nelle scelte compiute da molti dei governi.

3.3

Molteragioni, dunque, e di diverso genere, per pensare in termini di ‘post-crescita’. I quali, però, non sono proprio univoci: in effetti, una volta che il bench mark di una crescita esponenziale del 2-3% all’anno, in eterno, si sia stato finalmente messo via, come indesiderabile e anche, ormai, poco realistico, si aprono varie possibilità:

  • una crescita non esponenziale, comunque low,contenuta, altamente ‘riflessiva’, in tutti i sensi che il termine può assumere; se si vuole, l’idea di un new normal della crescita, che ormai circola con una certa ampiezza (appunto a metà tra il fattibile e il desiderabile);
  • uno stato stazionario;
  • la decrescita.

(i) Come esempio della prima ipotesi, proporrei il modello LowGrow SFC, disponibile in rete, che Tim Jackson e Peter A. Victor hanno sviluppato per l’economia canadese, formato da 4 scenari. In quello ‘base’ (‘a legislazione invariata’, per così dire) non sono incorporati i vincoli ‘positivi’ a quanto il Pil può cresce, sicché, da questo punto di vista, le cose vanno bene, con la grandezza che passa da 1 a 2,81 in cinquant’anni (precisamente, dal 2017 al 2067, con un saggio di crescita esponenziale intorno 2%), ma a prezzo di un disastro dal punto di vista dell’ambiente (con il relativo indice che, nello stesso periodo di tempo, cade da 100 a 50). Nel caso dello scenario più desiderabile dal punto di vista dell’ambiente, il Pil passa da 1 a 1,4 nei primi 40 anni (una crescita lineare dell’1% all’anno) e poi si stabilizza: appunto, cresce poco, ma un po’ comunque cresce, e poi si stabilizza. Proprio per questo mi sembra possibile parlare di una crescita altamente ‘riflessiva’: né esponenziale, né infinita, ma non per questo nulla.

Vale la pena di insistere sui pregi del modello:

a) coordina esplicitamente grandezze fisiche (impatti ambientali) e grandezze monetarie (cosa che altri modelli, analogamente ispirati a verifiche di sostenibilità, mancano di fare[14]);

b) disegna un andamento nel tempo, di lungo periodo. Cosa che altri modelli, di nuovo, mancano di fare – come se, trovato un punto di equilibrio, tutto dovesse poi procedere per sempre nello stesso modo, ripetersi identico a se stesso per tutti i secoli a venire.

(ii) Questa ultima considerazione già introduce il tema dello ‘stato stazionario’ (sempre nello spazio dei valori monetari, non nello spazio delle grandezze fisiche, che invece devono diminuire). Qui subito viene alla mente Daly (salvo una più precisa determinazione analitica del concetto), ma naturalmente, prima di lui, Keynes (più o meno), Marx no, e soprattutto Mill. Dal quale, in particolare, mi pare importantissimo raccogliere l’idea di uno stato stazionario nel quale però tutto continua a cambiare.

[In] a stationary condition of capital and population … the industrial arts might be as earnestly and successfully cultivated, with this sole difference, that instead of serving no purpose but the increase of wealth, industrial improvements would produce their legitimate effect, that of abridging labour[15].

(iii) Infine, appunto, la decrescita, circa la quale tengo a dire che la escludo affatto, per partito preso, dal mio quadro interpretativo. Soltanto, non ritengo che si tratti di un risultato ovvio, immediato, inevitabile, dell’uscita dal dominio della crescita, dall’assillo che la riguarda, del quale, tuttora, siamo vittime. Può darsi che ce ne sia bisogno, ma la cosa non è così scontata: da quel dominio e da quell’assillo, in linea di principio, si può uscire anche per la strada di una crescita peculiarmente riflessiva o per quella di uno stato stazionario del tipo che diceva Mill. E comunque, se decrescita deve essere, bisogna precisare la forma della curva (un decadimento esponenziale, lineare, altro?), la sua regola di pendenza, se così posso dire, e il suo orizzonte temporale, ragionevolmente in vista dell’approdo a uno stato di tipo stazionario. Dopotutto, anche una decrescita all’infinito (vuoi esponenziale, vuoi, peggio, lineare) è una follia.

Un’istituzione chiave

Anche se al fine di scegliere tra l’una o l’altra possibilità c’è ancora molto da capire, da mettere in forma e poi quantificare, alcune implicazioni sono però comuni tutte. Così è, in particolare, per quanto riguarda la necessità di affrontare cospicui problemi di ‘equilibrio sociale’, soprattutto in materia di occupazione, oppure, se si vuole, di occupazione e diseguaglianza, tenuto conto della posizione a più riprese sostenuta da Thomas Piketty.

Per venire rapidamente al punto che soprattutto desidero discutere, richiamo in breve due passaggi che altrove ho delineato con maggiore ampiezza. (a) Occupazione e crescita hanno divorziato ormai da molto tempo: non è dalle percentuali di aumento del Pil che possiamo aspettarci la soluzione dei problemi di partecipazione al lavoro, o una distribuzione dei redditi meno irragionevole. Ma crescere meno, o non crescere, o decrescere, non sono certo prospettive che di per sé aiutino a migliorare lo stato delle cose. (b) Per migliorarlo, l’intera questione va impostata in termini di riduzione del tempo di lavoro, ovviamente a parità di reddito, scegliendo appunto di destinare gli aumenti di produttività al fine di lavorare meno piuttosto che a quello di aumentare i redditi, proprio come voleva Mill[16].

Esistono però due modi per conseguire questo risultato:

  • una riduzione del tempo di lavoro operata per via diretta, in forma ‘classica’ (Marx[17], Keynes[18], le lotte sindacali fino a quando ci sono state, la recente ripresa della parola d’ordine in termini di 4dayweek[19]);
  • l’istituzione di un basic income rigorosamente universale e non-condizionato[20].

Di questa alternativa, appunto, vorrei discutere – in modo aperto, ma senza nascondere che preferisco di gran lunga la seconda ipotesi (tenuto conto del fatto che non si possono volere tutt’e due insieme). Anzi, per essere più preciso, dirò di ritenere che la disponibilità di un basic income sia un connotato-chiave di una società della post-crescita, comunque essa venga a configurarsi, una condizione necessaria sebbene non anche sufficiente della sua edificazione.

La ragione più immediata della preferenza rispetto alla riduzione del tempo di lavoro in forma classica sta nel fatto che quest’ultima può riguardare soltanto l’occupazione dipendente, a tempo indeterminato, contrattualizzata su basi collettive, che è soltanto una parte del totale: altrove è semplicemente inimmaginabile[21]. Con il rischio, allora, che il risultato sia un’accentuazione dei fenomeni di segmentazione (disparità) che il mercato del lavoro presenta già fin troppo largamente. Più in generale, la formula classica rinvia a un mondo di megacorps molto più ordinato e compatto di quello in cui viviamo – e qui, allora, subentra un altro motivo, legato al precedente. Nel caso del basic income gli effetti di riduzione del tempo di lavoro non mancano di essere affidati a scelte di tipo personale,per quanto operate entro cornici legali che soltanto procedure di social choice possono porre in essere, e questo – che ognuno abbia modo di stabilire il punto di equilibrio che ritiene più appropriato tra vari modi di esercitare le sue capacità – mi sembra un bene. Tanto, infatti, è richiesto dalle ‘ragioni della soggettività’, per quanto sono profonde e per quanto, anche, sono ormai affiorate al senso comune, e nonostante tutto si rendono visibili nei comportamenti.

Più in generale, per precisare il quadro interpretativo, e giustificare meglio l’importanza che accordo all’argomento, il basic income può essere accreditato dei seguenti effetti.

  • Riduce il tempo di lavoro desiderato nell’arco della vita attiva dell’individuo ‘rappresentativo’ e quindi, ceteris paribus, fa sì che la quantità di lavoro socialmente necessario si distribuisca su un maggior numero di teste. Così, il risultato che emerge, forse un po’ a sorpresa, è che il basic income consente di fare un passo avanti sulla strada della piena occupazione. Certo, non in vista del modello di ‘piena occupazione piena’ approssimato alla fine della Golden Age[22], bensì di un modello più aderente alle ‘pieghe’ delle vite individuali – in certo modo ‘poroso’, o ‘transizionale’, ma non per questo indegno di contemplare l’aggettivo ‘piena’. Di nuovo, appunto, i ‘diritti della soggettività’.
  • In ogni caso, quali che siano gli equilibri che si determinano sul mercato del lavoro, evita che gli elevati livelli di incertezza che da tempo lo riguardano si traducano immediatamente in condizioni di insicurezza generalizzate. Questo, naturalmente, è il suo effetto più visibile e immediato, quello che più di ogni altro garantisce la possibilità che la ‘post-crescita’ risulti una prospettiva socialmente difendibile (anche in termini di eguaglianza). In più, l’istituto aumenta il potere contrattuale dei lavoratori, sia sul mercato che all’interno dei luoghi di lavoro (anche là dove non arriva il sindacato).
  • Nella misura in cui riduce l’offerta di lavoro aggregata, toglie vento alle vele del Pil potenziale, che è proprio quello che vogliamo, lo stesso che dire ‘post-crescita’. Dove appunto è il caso di notare che la riduzione che vogliamo, nelle diverse forme che può assumere, non riguarda mai il Pil effettivo, bensì, appunto, quello potenziale. Cioè: vogliamo che il Pil effettivo sia uguale a quello potenziale, ma vogliamo anche che quest’ultimo, in un modo o nell’altro, eviti di diventare più grande del sensato (e che non si cerchi di renderlo più grande del possibile).
  • Non soltanto libera tempo a vantaggio di attività diverse dal lavoro professionale, remunerato, ma genera anche un complessivo effetto di ‘rasserenamento’, favorevole a che esse, effettivamente, possano fiorire. Su questo punto vorrei concludere, anche perché è quello nel quale il discorso della ‘post-crescita’ si apre a ragioni diverse dalle ragioni tipo ecologico, sebbene con queste solidali.

Oltre i confini della forma merce

Intanto, ancora sul piano ecologico, osserviamo che le forme dell’agire sociale che giacciono oltre il perimento del Pil, beneficiare della diversa libertà di allocazione del tempo che l’esistenza di un basic income offre alle persone, sembrano fatte apposta per riempirsi di contenuti materiali – iniziative, attività, esperienze – corrispondenti a obiettivi di cura dell’ambiente; e che tanto può accadere in chiave sia collettiva che individuale.

Per il primo aspetto, quello collettivo, si tratta di tutto ciò che può realizzarsi su basi di comunità, associative, di impegno civile; e meglio ancora, sulla base di originali connubi, che pure sono concepibili, tra i doveri d’intervento delle istituzioni pubbliche e le capacità di auto-organizzazione presenti nel seno delle realtà territoriali e nei mondi della vita quotidiana. Come pure è il caso di osservare che all’interno di cornici associative, o di comunità, possono anche prendere corpo attività remunerate, professionali, dunque comprese nel perimetro del Pil, che tuttavia non sono affatto animate dal must espansivo vigente nel mondo delle merci prodotte su basi capitalistiche, bensì destinate a trovare in se stesse precisi motivi di ‘misura’. In una versione adeguatamente robusta, le comunità di energia rinnovabile sono un buon esempio di sviluppi del genere; e più in genere lo sono tutte le realtà di water-, food- and energy-shed planning.

La chiave individuale può essere fatta coincidere con la prospettiva di uno sfruttamento in proprio di proprie capacità ‘poietiche’, rappresentata anche, per esempio, dal movimento dei makers, che nell’aprile del 2011 si è meritato la copertina della rivista Wired. E particolarmente, qui, va citato il respiro ideale e pratico che possono assumere attività di tipo riparativo, delle quali la causa dell’ambiente può beneficiare in infiniti modi.

Ma il discorso, come accennavo, può essere allargato. Il fatto, adesso, è che nel lungo periodo, a prescindere dagli interventi pubblici ordinati a ridurre il divario tra il Pil effettivo e quello potenziale, la crescita di quest’ultimo fa tutt’uno con un aumento della quantità di beni e di servizi prodotti come merci – coincidenza ormai problematica, però, perché si dà il caso che la forma merce sia peculiarmente inadatta ai contenuti sostantivi delle esperienze di soddisfazione dei bisogni, lette come “manifestazioni di vita umana”, che soprattutto, oggi, si tratta di rendere possibili[23]. Detto in modo figurato, non soltanto esistono partiture che non si prestano a essere suonate nella chiave dei rapporti mercantili, ma la loro esecuzione, da qualche tempo, è venuta a trovarsi sul versante più esposto dello svolgimento storico – come possibilità di sviluppo umano mature e peculiarmente alte, che tuttavia, se disattese, lasciano spazio esiti nefasti. Insomma, esistono più cose in cielo e in terra di quante la forma merce possa sognarne nella sua filosofia; di esse, oggi, c’è bisogno come del pane, e di certo non si tratta di svolgimenti meno appealing di quelli che il mercato riesce a concepire. Soltanto, hanno poco o niente a che vedere con la ‘crescita’.

Materia, si capisce, per altri interventi, che forse potrebbero essere intitolati a un’ecologia della mente, ovvero della soggettività, in qualche modo in sintonia con quella del pianeta Terra[24].


[1] Qui sorge subito un problema – di quelli che si usa dire grossi come case. Proprio in ragione del suo carattere monetario, il Prodotto interno lordo è grandezza omogenea, della quale, pertanto, si può dire senza difficoltà se cresce, diminuisce, resta uguale. Non così nel caso dei flussi di energia e materia, che sono formati da cose assai diverse, sulle quali è molto meno facile formulare giudizi sintetici. Vale la pena di osservare che la questione era ben presente a Giorgio Nebbia, che pure, da chimico ed ecologista, era interessatissimo a studiare l’economia sub specie materiae: “benché l’idea di una contabilità intersettoriale in unità fisiche sia stata suggerita già molti anni fa, la realizzazione pratica di una tale tavola si è finora scontrata con la difficoltà, già più volte citata, di sommare e sottrarre grandezze fisiche non omogenee” (G. Nebbia, Le merci e i valori, Jaca Book, Milano, 2002, p. 34). Non è questo il luogo per fare il punto dei progressi compiuti da quando Nebbia scriveva queste parole. Vale però la pena di dire che, sia in sede teorica che sul piano pratico, l’argomento incontra quello del cosiddetto Energy-Materials Nexus, appunto il nesso di energia e materia, ragionevolmente destinato ad acquistare sempre maggiore rilievo con la necessaria sostituzione delle renewables alle fonti fossili. In buona parte, come avremo modo di osservare, la partita della sostenibilità si gioca proprio sul terreno di queste ‘equivalenze’.

[2] J. Hickel et al., Imperialist appropriation in the world economy: Drain from the global South through unequal exchange, 1990-2015, Global Environmental Change 73 102460, 2022. “Per ‘appropriazione netta’ si deve intendere che le risorse non sono compensate in termini equivalent attraverso gli scambi: in effetti sono trasferite gratis”, essenzialmente in virtù di diversissimi poteri di mercato. E ancora va osservato che i flussi di materia dal Sud al Nord globali implicano che gli impatti ambientali delle attività estrattive (cruciali, per esempio, nel caso delle perdite di biodiversità e dei fenomeni di water stress)siano largamente offshored verso il primo.

[3] Cfr. per esempio J. Hickel, What does degrowth mean? A few points of clarification, “Globalizations”, 18:7, 1105-1111, 2022. DOI: 10.1080/14747731.2020.1812222

[4] Un chiaro esempio di sottovalutazione si trova in A societal trasformation for staying below +1.5* C, Edited by the Heinrich Böll Foundation and Konzeptwerk Neue Ökonomie, che per pure, per altri aspetti, è un testo apprezzabilissimo. L’elaborazione, vi si legge, “non è guidata da parametri economici ma da quantità fisiche, del tipo: quanta carne si consuma? quanta terra è necessaria per la produzione del cibo? quanto viaggiamo? quanta CO2 è emessa per chilometro? […] In teoria sarebbe possibile calcolare l’ammontare dei beni e dell’energia prodotta e moltiplicare tali numeri per qualche tipo di prezzi, na crediamo che questa sarebbe una stima […] non necessaria […] visto che la domanda dovrebbe essere ‘possiamo immaginare una vita buona con un dato ammontare fisico di beni e di servizi?’ e non ‘ammontano questi beni e servizi a un valore monetario che sembra soddisfacente?’”.

[5] Di nuovo, la restrizione dell’affermazione ai paesi occidentali, ovvero alle economie ‘ricche’, riflette la convinzione che i paesi poveri del Sud globale debbano invece disporre di spazi di crescita coerenti con i loro punti di partenza. Approfitto però di questa ripetizione per aggiungere che non per questo la ‘crescita’ deve assumervi lo stesso senso che ha avuto nell’esperienza storica del nostro ‘angolo di mondo’.

[6] IPCC AR6 WG III, Working group iii contribution to the Ipcc sixth assessment report (ar6), Summary for policymakers, marzo 2023, p. 28: “The underlying assumptions on global GDP growth (ppp) range from 2.5 to 3.5% per year in the 2019-2050 period”. L’ultimo Outlook di IEA riporta valori globali del 3,3% dal 2021 al 2030 e del 2,6 dal 2030 al 2050 (IEA, World Energy Outlook 2022, ottobre 2022, p. 108).

[7] Cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 39. Le recessioni – si può aggiungere con David Landes – sono sempre una “crisi di nervi” dei capitalisti, che appunto vedono deluse le proprie attese di profitto, e delle loro sofferenze, però, rendono partecipe la società intera.

[8] K. Marx, Il Capitale, Libro primo, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 184.

[9] Perloppiù, in letteratura, l’argomento compare nei termini dell’impossibilità di conseguire un disaccoppiamento assoluto di Pil e pressione sui Planetary Boundaries che sia sufficientemente ampio e duraturo.

[10] “The key assumption of this analysis is that the entropy law applies not just to energy but also to matter, that is, that ‘matter, too, is subject to an irrevocable dissipation’ (Paul Burkett, Marxism and Ecological Economics. Toward a Red and Green Political Economy, Brill Leiden, Boston, 2006, p- 144). [L’assunzione chiave di questa analisi è che la legge dell’entropia non si applica soltanto all’energia, vale a dire che anche la materia è soggetta a irrevocabili processi di dissipazione]. Nel testo: [In effetti, dato che la terra è esposta a massicci flussi in entrata di energia sociale, ma fondamentalmente è un sistema chiuso dal punto di vista materiale, non sorprende che l’entropia della materia, non l’energia, emerge con più chiarezza come il vincolo di ultima istanza della produzione umana”]

[11] T. Jackson, How the light gets in—The science behind growth scepticism, Blog, News, 4 novembre 2018. https://timjackson.org.uk/how-the-light-gets-in/ [E’ chiaro che quanto più un’economia diventa grande tanto più difficile è disaccoppiare la sua crescita dai suoi impatti materiali. Non abbiamo bisogno della termodinamica per stabilire questo punto. Un’economia più grande comporta uno stock di capitale più grande. Uno stock di capitale più grande comporta un maggiore deprezzamento. Un’economia infinita (il risultato finale di una crescita eterna) significa un deprezzamento infinito. Costi infiniti di mantenimento.]

[12] Così, appunto, propongo di interpretare le cospicue evidenze disponibili circa il mancato disaccoppiamento assoluto, negli ultimi 30 anni,di crescita del Pil e crescita della pressione sui Planetary Boundaries – a dispetto di tutti guadagni di efficienza, senza dubbio notevoli, che pure si sono registrati. Dove ancora vale la pena di osservare che mentre nel caso delle emissioni di CO2 si è verificato un disaccoppiamento relativo affatto insufficiente ma pure ben visibile, e localmente, nei paesi ricchi, si sono anche verificati ‘episodi’ di vera e propria riduzione, nulla del genere è accaduto sul versante dei materiali, il cui consumo è immancabilmente aumentato di pari passo con quello del Pil (anzi, in qualche fase, con fenomeni di disaccoppiamento ‘al contrario’). Bruttissima premessa, visto quanto il versante in questione è destinato a essere messo sotto pressione dalla sostituzione dei combustibili fossili con le fonti rinnovabili.

[13] T. Jackson, The Post-Growth Challenge—Secular Stagnation, Inequality and the Limits to Growth, CUSP Working Paper Series, No 12, Maggio 2018

[14] Come nel caso del già citato A societal trasformation for staying below +1.5 C.

[15] John Stuart Mill (1848), Principles of Political Economy, with Some of their Applications to Social Philosophy, citato in J. M. Polimeni et al., Jewons Paradox, Earthscan, 2008, p. 8. [In una condizione stazionaria del capitale e della popolazione le arti industriali potrebbero essere coltivate altrettanto alacremente e proficuamente, con la sola differenza che invece di essere ordinate al solo scopo di aumentare la ricchezza, produrrebbero il loro giusto effetto, quello di abbreviare il lavoro.]

[16] “Il punto fondamentale […] è che i benefici della maggiore produttività per ora lavorata […] offrono alla società diverse alternative: l’aumento del prodotto pro capite è solo una delle alternative; un’altra è la riduzione delle ore lavorate pro capite” (A. Gly, Capitalismo scatenato, Milano, Brioschi, 2007, p. 244).

[17] “Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa”: così si conclude il celeberrimo passo del Terzo libro del Capitale sul passaggio dal regno della necessità al regno della libertà (K. Marx, Il Capitale, Libro terzo, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 933).

[18] “Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo” (J. M. Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, Id. La fine del Laissez-Faire e altri scritti economico-politici, a cura di G. Lunghini, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 65).

[19] Cfr. per esempio J. B. Schor et al., The Four Day Week: Assessing Global Trials of Reduced Work Time with No Reduction in Pay, Four Day Week Global, Auckland, NZ, 2022.

[20] “Ma il capitalismo, avendo sviluppato il potenziale produttivo dei paesi ricchi a un livello inimmaginabile cento anni fa, è riuscito a gettare le basi per un nuovo equilibrio tra lavoro e altre attività? La più innovativa proposta politica per muoversi in questa direzione è quella del reddito sociale” (A. Glyn, op. cit., p. 245, nel seguito si capisce che il ‘reddito sociale’ è proprio un basic income individuale, universale e incondizionato).

[21] Sia pure in modo che rivela una certa resistenza a prendere il toro per le corna, il punto affiora in un recente intervento di Claudio Treves, dove appunto si afferma la necessità di “articolare la sacrosanta tesi della riduzione d’orario alla luce di un mondo del lavoro fatto di persone con orari multipli (prestazioni di breve durata spesso svolte anche in luoghi fisicamente distinti), cui la riduzione secca della durata potrebbe non dire molto” (C. Treves, La mossa del cavallo per riformare le politiche del lavoro, https://centroriformastato.it/la-mossa-del-cavallo-per-riformare-le-politiche-del-lavoro/, c.vo mio). Significativo, del testo, il fatto che il termine usato sia l’orario di lavoro, mentre l’argomento, per come va inteso, è piuttosto quello tempo di lavoro, che subito può essere riferito all’intero arco della vita attiva delle persone. 

[22] Messo prima del sostantivo, l’attributo ‘piena’ assume il consueto valore estensivo, riferendosi appunto all’universalità della partecipazione al lavoro: in parole povere, lavorano tutti coloro che hanno la capacità e la volontà di farlo. Messo dopo, assume piuttosto un senso intensivo, alludendo piuttosto alla misura e al modo in cui il lavoro ‘riempie’ le vite individuali: un’attività che inizia presto e finisce tardi nell’arco della vita, senza interruzioni; come inizia presto e finisce tardi nel corso di ogni giorno.

[23] L’espressione “manifestazioni di vita umana” è ripresa dai Manoscritti di Marx (p. 123 dell’edizione Einaudi del 1968).

[24] Naturalmente, l’espressione ‘ecologia della mente’ è ripresa da Bateson, restando ancora da vedere, però, il rapporto che conviene stabilire con il modo nel quale egli la impiegava.

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  1. In realtà sembra esserci stato un significativo decoupling (relativo) anche per quanto riguarda i materiali oltre che per l’energia, se hanno ragione Krausmann et al, Long term trends in global material and energy use, 2016

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