Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica

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Sino a pochi anni fa non avevo mai visto un parco naturale, non ero mai stata in montagna, non sapevo da che pianta nascesse una zucchina, in che ecosistemi nascessero i funghi e in quali habitat vivessero le volpi. Eppure, sentivo crescere dentro di me una coscienza ecologista. Questa coscienza non nasceva da una passione per la bellezza di una “natura” che sentivo il bisogno di difendere, ma è nato in città, leggendo delle lotte in Valsusa, della gente alluvionata che decideva di alzare la testa, dei bambini e delle bambine del quartiere Tamburi a Taranto a cui venivano chiuse le scuole per i fumi dell’Ilva.

Quello che mi muoveva non era l’idea di preservare una supposta natura incontaminata, se mai oggi ci possa essere ancora qualcosa di incontaminato, ma la percezione che queste storie e queste battaglie riguardassero in primo luogo il tema della giustizia. Mi sembrava ingiusto vedere le proprie case seppellite dal fango per garantire gli introiti delle industrie del marmo che producono a ritmi incessanti abbattendo ogni limite al loro profitto, primo fra tutti i limiti ambientali e di sicurezza. Era ingiusto ammalarsi per garantire a migliaia di turisti sulle navi da crociera di approdare, consumare la città in poche ore e poi andarsene, lasciando agli abitanti disagi e malattie. Era ingiusto essere avvelenati dall’amianto per mandare avanti un’opera come il Terzo Valico che – come dimostrato dalle inchieste – garantiva esclusivamente interessi illeciti. 

Le diseguaglianze si mostravano nei territori in tutta la loro violenza e politicità, e palesavano senza possibilità di replica che la natura non è “altro” da noi, ma è “dentro” di noi, è “incarnata nel quotidiano da chi sta ai margini della società capitalista”[1]. Proprio perché riguarda il diritto stesso a respirare, a mangiare, a bere, in sostanza a vivere, la natura è il terreno più politico che ci possa essere, e per questo non può che essere un campo di battaglia.

Non avrei saputo dirlo con queste parole a quel tempo, ma era questo ciò che sentivo e che mi ha spinta ad intraprendere questo percorso di ricerca. Oggi, anche grazie a questi territori e queste comunità in lotta, ho imparato a trovare le parole. 

“Tu hai la pallottola, io la parola. La pallottola muore dopo la detonazione, la parola vive moltiplicandosi”. Queste sono le parole di Berta Càceres, attivista indigena uccisa in Honduras per via delle lotte ecologiste che conduceva contro una centrale idroelettrica, e che ancora risuonano in tutto il mondo. 

Spero che nominando l’ingiustizia ambientale che attanaglia questo paese e le storie di chi vi si è opposto, anche questo libro possa dare il suo piccolo contributo.

Studiare oggi i conflitti territoriali

Indipendentemente dal nome con cui le si chiamino, le proteste locali in difesa del territorio sono divenute a partire dagli anni Novanta un vero e proprio fenomeno sociale con cui sia policy-makers che studiosi hanno dovuto fare i conti. Non che prima di quel momento non vi fossero state proteste locali contro opere o attività ritenute dannose per il territorio. Basti pensare a quella contro la costruzione della diga nel Vajont al confine tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia o a quella per la chiusura dello stabilimento chimico Farmoplant nel distretto Apuano, che evidenziano l’esistenza di una sensibilità legata alla difesa del territorio già nella seconda metà del secolo scorso. Tuttavia, queste forme iniziano a presentarsi in modo ricorrente tra metà anni Novanta e inizi Duemila, in corrispondenza di una ristrutturazione del capitalismo su scala globale che apre la strada ad una ulteriore liberalizzazione e privatizzazione di beni e servizi. Con la globalizzazione si assiste ad un processo di deterritorializzazione e riterritorializzazione[2] che porta ad una ridefinizione politica del territorio e delle dinamiche che lo abitano.  Alla fluidità dei flussi finanziari globali che contraddistingue i processi neoliberali, fa da contraltare la messa a profitto dei territori che divengono oggetto e presupposto dei nuovi processi di accumulazione. Questo processo di accumulation for dispossesion[3] ha trasformato i territori in merce da cui estrarre valore. Se il polo industriale era la cifra dello sviluppo economico sfrenato degli anni ’70 in occidente, la grande opera – non meramente in termini infrastrutturali ma più largamente intesa in termini relazionali – è per certi versi la cifra di questa governance neoliberale dei territori.

D’altro lato, è proprio nelle crepe che il progetto neoliberale ha prodotto che si sono innestate nuove resistenze. Questa trasformazione economica strutturale ha fatto delle proteste territoriali – in qualche modo già presenti nel paese – un fenomeno endemico. Le proteste locali in difesa del territorio da episodiche divengono ricorrenti nelle forme, richieste e modalità, dando motivo per guardare ad esse come ad un unico fenomeno che assume caratteristiche diverse a seconda dei contesti geografici. Gli attivisti dei diversi territori iniziano a parlare un linguaggio comune, a condividere simboli e parole d’ordine. In questo processo, un ruolo che può considerarsi centrale è quello giocato dal Movimento No TAV che già agli albori degli anni Novanta riesce a reinventare un immaginario a cui molti territori negli anni successivi attingeranno.

Provando a fornire una panoramica in termini numerici della protesta territoriale in Italia e delle sue variazioni nel corso degli anni è possibile confermare innanzitutto la significativa crescita delle contestazioni territoriali legate a impianti e infrastrutture di vario genere. Se dal primo monitoraggio realizzato nel 2004 risultano 190 proteste, negli anni seguenti si registra un progressivo aumento sino ad arrivare al 2016 a 359 contestazioni di cui 119 relative a nuovi impianti[4]. Nella Protest Event Analysis condotta insieme a Massimiliano Andretta, questo trend trova conferma: dal 1994 ad oggi sono cresciute – anche se in modo altalenante – le proteste legate ai temi ambientali anche rispetto agli altri temi di conflitto, e tra queste il 53% è animato da attori informali come comitati e centri sociali e l’81% avviene su scala locale[5]. Questi dati, se incrociati, ci danno conto della dimensione che i conflitti ambientali locali hanno assunto negli ultimi decenni.

Il Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sviluppato sulla base del piano di intervento pubblico europeo “Next Generation UE” induce a pensare che di queste contestazioni ne sentiremo ancora parlare per molto. Gli investimenti previsti con i 191 miliardi del PNRR sembrano infatti dare nuovo slancio al paradigma fallimentare delle grandi opere. Sul piano della transizione energetica, che raffigura come la principale linea di finanziamento del piano, vengono riproposti progetti energetici fondati sulle fonti fossili come gasdotti e rigassificatori, oggetto di duri conflitti in questi anni. Ancora, nel capitolo “mobilità sostenibile”, molti fondi sono destinati all’alta velocità in un paese che sconta una strutturale carenza infrastrutturale che condanna alcuni territori ad una condizione di marginalità, e una preoccupante assenza di sicurezza sulle linee esistenti (giusto per ricordare alcuni tra i più gravi e recenti capitoli di questa storia basti citare il crollo del Ponte Morandi nel 2018, la strage di Viareggio del 2009 o quella di Corato-Andria nel 2016, ognuna della quali ha macinato decine e decine di morti e numerosi feriti). È immaginabile che questo piano possa rilanciare in modo considerevole il paradigma delle grandi opere dando – di contro – nuovo e ulteriore slancio alle lotte territoriali che continueranno a ricoprire a mio avviso un ruolo importante negli anni a venire.

Eppure, nonostante la molteplicità di studi esistenti sui conflitti territoriali, ad uno sguardo più approfondito ci si accorge che numerose dimensioni sono rimaste tutt’oggi inesplorate o poco considerate (es. ruolo e strategie attori economici, analisi sistematica relazione media – protesta locale, trasformazioni nel fronte della protesta legata ad attori, frame e strategie di azione, ecc.) e che spesso si è fatto fatica a contestualizzare la lettura dei conflitti territoriali dentro un quadro contraddistinto da dinamiche globali legate all’accumulazione su scala planetaria di ricchezza e alla crisi eco-climatica. Per questa ragione, ancora oggi il territorio rappresenta uno spazio di indagine cruciale per osservare i processi e le dinamiche di un capitalismo estrattivo in continua evoluzione e per leggere la crisi eco-climatica come esito di un processo che ha luogo attraverso precise scelte, scelte che nei territori si materializzano e che dai territori si contestano. 

In uno scenario in continua evoluzione sia dal lato dei movimenti sociali che dal lato dell’organizzazione del potere politico, della comunicazione politica e nell’avanzata economica-finanziaria dei grandi capitali, i territori possono rappresentare uno spazio privilegiato per catturare e approfondire queste trasformazioni intrinsecamente multi-scalari.

Territori e giustizia ambientale

Le questioni ambientali sono questioni sociali, ovvero coinvolgono direttamente i temi della giustizia e della democrazia. È l’ingiustizia percepita e vissuta dalle comunità ad aver dato vita all’insorgere di un ciclo di contestazioni che da oramai trent’anni attraversa lo stivale, e non solo, e che non accenna a concludersi. Se la globalizzazione neoliberale ha intensificato l’assalto alle risorse naturali, al contempo ha preparato il terreno per un’intensa stagione di lotte nei territori che hanno materialmente ostacolato l’ingranaggio estrattivista. Nonostante l’ampia mole di studi che ha approfondito queste lotte, la loro lettura è rimasta confinata nella categoria dei conflitti ambientali, per mezzo della quale tali mobilitazioni sono state per lo più esaminate[6]. Naturalmente questa categoria ha consentito di mettere in luce molte delle caratteristiche delle proteste territoriali, ma allo stesso tempo ha lasciato sottotraccia il nesso tra mobilitazioni in difesa del territorio e giustizia ambientale, rimasto poco esplorato.

Le origini stesse della giustizia ambientale sono da rinvenire nelle battaglie nate da territori in cui gli abitanti hanno deciso di denunciare l’inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua e di opporsi a progetti che avrebbero prodotto danni ambientali. Queste mobilitazioni non si opponevano solamente alle nocività connesse alle produzioni industriali o alla gestione dei rifiuti, ma mettevano in evidenza il nesso tra ambiente e giustizia: i rischi ambientali venivano scaricati sugli strati sociali più discriminati per classe, razza e genere. È il caso del Love Canal Parent Movement, (trattato all’interno del libro), che aveva acceso i riflettori sul fatto che i tassi di inquinamento e i problemi sanitari prodotti dai rifiuti tossici interrati dall’azienda chimica Hooker Chemical Corporation si concentravano nei quartieri popolari abitati da famiglie a basso reddito[7]. O, ancora, vale la pena ricordare la mobilitazione degli abitanti della Contea di Warren (Stati Uniti) che nel 1982 si attivarono contro la realizzazione di una discarica di rifiuti tossici denunciando non solo la loro malagestione ma anche la natura prettamente razzista della stessa. Infatti nella contea, come nel resto degli Stati Uniti, le discariche erano costruite in prossimità di zone abitate da neri, evidenziando il fatto che le fasce della popolazione povere e non bianche fossero quelle sistematicamente più esposte alle nocività e alle conseguenze dell’inquinamento ambientale.

Non è dai panel governativi ma dai conflitti che hanno animato i territori che già verso la fine degli anni Settanta si è posta la questione dell’ingiusta distribuzione delle risorse naturali e dei rischi ambientali che l’economia capitalista tende a riprodurre sistematicamente. Questo tema interessa anche l’Italia, attanagliata da centinaia e centinaia di progetti nocivi, industrie non adeguatamente regolamentate, cementificazione illimitata del suolo, che producono i disastri ambientali e sanitari che purtroppo conosciamo, dalle frane che ad ogni pioggia seppelliscono gli abitanti ai cumuli di rifiuti legalmente o illegalmente interrati, dati alle fiamme, gettati in mare, dal disastro di Seveso o della Farmoplant al crollo del ponte Morandi, dalla mortalità infantile nel quartiere di Tamburi alle deformazioni di umani e animali nei terreni circostanti al Poligono di Quirra, dai morti per l’amianto presente nei luoghi di lavoro o scavato dalle montagne agli avvelenati da PFAS. 

Tutto ciò implica una violenza sui corpi e i territori, che non sempre è “spettacolare” e visibile, come nei casi di incidenti o esplosioni, ma che assume spesso i tratti di una violenza lenta (slow violence)[8], prolungata nel tempo e nello spazio, che non produce nell’immediato conseguenze evidenti e indignazione, ma che lascia nel corso del tempo ferite indelebili su quei corpi e quei territori.

Ma in che modo lo sfruttamento e la devastazione ambientale interseca il tema della giustizia nel nostro paese?

Il paradigma della socializzazione dei costi e della privatizzazione dei profitti ha come immediato risvolto pratico la condizione di continuo indebitamento dello stato, che si traduce nella vita quotidiana dei cittadini in debito pubblico e tagli sui servizi essenziali. Le politiche di austerity aggravano le condizioni sociali e materiali degli strati più poveri della società che non solo sono i primi a subire i costi ambientali e sanitari della gestione neoliberale dei territori, ma anche coloro che più soffrono la carenza di servizi come quelli legati alla sanità. Lo sfruttamento del territorio per mezzo di interventi invasivi di vario genere prima produce inquinamento, e poi – a causa dell’indebitamento pubblico – sottrae alle persone che ha avvelenato la possibilità di curarsi. Si produce nocività e si chiudono i presidi ospedalieri più piccoli (nel Patto per la Salute del 2014 è stata prevista la chiusura di ben 175 presidi di base), si accorpano ospedali per risparmiare sui costi, si chiudono i reparti ritenuti sacrificabili, si riducono gli orari in cui le ambulanze sono disponibili. A pagare maggiormente il prezzo per queste scelte di investimento sono gli strati più poveri che non potendo ricorrere alla sanità privata non potranno avere in tempi consoni le diagnosi e le cure necessarie, coloro che abitano più distanti dai grandi centri, i migranti che non dispongono dei documenti per accedere al servizio sanitario nazionale.

La posizione di marginalità sociale e geografica diventa moltiplicatore dei processi di violenza ambientale. E difatti, anche il modo in cui lo sfruttamento ricade sui territori dando vita a specifiche geografie della devastazione non è casuale, ma segue precisi criteri sociali e politici. Oggetto di questa violenza infrastrutturale[9] sono infatti i territori marginali, dove sono minori i costi per gli investitori. Ciò è dovuto al fatto che il valore economico riconosciuto ai territori dipende dai significati sociali attribuiti a chi li abita. In questo senso, certe comunità e certi territori valgono meno di altri, possono quindi divenire zone di sacrificio per perseguire il profitto. Nelle aree più povere e marginali, i cui abitanti sono politicamente meno rappresentati e hanno minore potere negoziale, le imprese inquinanti dovranno affrontare una minore opposizione politica e/o corrispondere risarcimenti di minore entità[10]. In questi contesti, l’autonomia politica delle istituzioni locali dagli attori economici si riduce e, di conseguenza, il loro potere contrattuale rispetto a grandi aziende e colossi multinazionali è risicato. Questo ci ricorda che il meccanismo di allocazione del mercato, ovvero il modo attraverso cui la “razionalità” economica porta ad una specifica localizzazione di un progetto di trasformazione del territorio, è tutt’altro che neutrale. Se la gestione neoliberale dei territori agisce sulle preesistenti condizioni di marginalità per assicurarsi il profitto, questa a sua volta produce e riproduce forme di marginalizzazione nella misura in cui le trasformazioni del territorio e le condizioni necessarie per avviarle (sottrazione di territorio e risorse, imposizione di un regime di emergenza, indebitamento pubblico) modificano la vita quotidiana degli abitanti.

A questo intricato nesso di processi e ingiustizie, le lotte territoriali hanno opposto resistenza. Compresse tra narrazioni che le hanno dipinte come Nimby e analisi che si sono soffermate sulla categoria del conflitto, si è perso di vista il fatto che le lotte territoriali sono state in questi decenni un freno al degrado ecologico e alla crisi climatica. Le opere e le industrie al centro di questa ricerca hanno a che fare con la produzione di co2, con l’inquinamento dell’acqua, del suolo e dell’aria, con la cementificazione, con la distruzione di attività di sussistenza. Di conseguenza sono parte costitutiva e motore dei processi di degrado ecologico e crisi climatica, che oggi esperiamo attraverso siccità alternate a fenomeni alluvionali, a crisi dei raccolti e boom di morti per inquinamento atmosferico. Così come le singole manifestazioni del degrado ecologico e della crisi climatica, seppur riguardanti uno specifico territorio, vanno lette come parti di un più generale processo di gestione neoliberale della natura, anche le resistenze territoriali necessitano di essere comprese come espressione di un “ambientalismo popolare che con mille forme e linguaggi diversi si oppone alla mercificazione della natura, all’espropriazione delle risorse comuni, ai megaprogetti modernizzatori, alla trasformazione delle loro terre in discariche globali”[11].

Se plurali sono le forme attraverso cui la devastazione ambientale si presenta, plurali sono anche i soggetti che vi si oppongono, i sistemi di conoscenza di cui dispongono e le forme con cui questi si organizzano e mobilitano per osteggiare tali processi devastatori. La lotta della tribù dei Sioux nel nord Dakota contro la costruzione di un oleodotto nelle proprie terre, le proteste nella Contea di Warren, gli abitanti indigeni dell’Amazzonia che difendono la foresta dal continuo processo di deforestazione, la lotta dei contadini cambogiani contro il landgrabbing, così come le proteste contro TAV, TAP o il MUOS, ci parlano della molteplicità di forme di resistenza che si sono date su scala planetaria, e che si inscrivono dentro un processo globale di mercificazione della natura ma anche di resistenza ad esso.

Queste forme di difesa da parte delle comunità del territorio “in cui vivono, lavorano e giocano”, coinvolge direttamente la sfera del cosiddetto “environmentalism of everyday life”[12]. È nel proprio ambiente di vita quotidiano che queste comunità hanno “ospitato percorsi di trasformazione politica e culturale [mostrando] più dinamismo nell’intercettare e inglobare discorsi e immaginari globali, e maggiore plasticità nel riadattarli al contesto locale”.[13]

Raul Zibechi, scrittore e attivista uruguayano impegnato nelle lotte anti-estrattiviste in America Latina, riflette sul ruolo delle lotte locali nello scenario attuale sostenendo che un “modello di rapina” come quello estrattivista che vede

i popoli [come] ostacoli all’accumulazione/rapina dei beni comuni [non si sconfigge] con leggi approvate in parlamento […] ma bisogna affrontarlo sul terreno. Le alternative reali sono quelle a scala locale, sul territorio […] e credo sia questo l’unico cammino possibile. Anche se non si ottiene nulla in poco tempo. Il sogno è che in futuro vi siano centinaia, migliaia, di Mondeggi e No Tav. E che tale molteplicità di resistenze e creazioni – perché resistere e creare vanno sempre di pari passo – finisca per erodere il capitalismo estrattivista-finanziario fino a superarlo[14].

Resistenze e creazioni, dimensione oppositiva e dimensione propositiva si intrecciano indissolubilmente, facendo dei conflitti territoriali “un cantiere aperto di rivendicazioni e progettualità intorno all’uso del territorio, al senso che si vuole dargli, al modo per abitarlo e re-immaginarlo nel tempo”[15]. In questa prospettiva “i corpi, le popolazioni e gli spazi minacciati sono indispensabili per creare un futuro socialmente e ambientalmente giusto per tutti”[16], in grado di scalzare i mercati e mettere la società – nella sua pluralità in termini di condizioni materiali ed esigenze – al centro di un nuovo modello di relazioni socio-ambientali.

Non è facile dire se le migliaia di lotte che raggiungono ogni angolo del pianeta possano essere una risposta sufficiente al modello neoliberale, ma senz’altro la loro presenza è imprescindibile per disvelare la vera natura della governance neoliberale anche quando si presenta come green, e per contrastare sul piano materiale operazioni di mercato e speculazioni finanziarie che niente hanno a che vedere con l’interesse collettivo. Per questo, provare a liberare la lettura dei movimenti territoriali dalle trappole discorsive in cui è spesso rimasta imbrigliata, ripensando “quei tanti movimenti come esperienze di lotta per la giustizia ambientale, significa fornire un armamentario teorico di critica e mobilitazione e provare a cercare un minimo comune denominatore che possa superare la frammentazione che caratterizza questa stagione di lotte”[17]. Significa, infine, riconoscere che il degrado ecologico e la crisi climatica sono qui e ora, sotto i nostri occhi, e che oggi, mentre gli appuntamenti delle COP continuano a deludere le aspettative di chi vorrebbe un cambio di passo e i governi si fanno principali fautori di una nuova ondata di investimenti socialmente e ecologicamente dannosi, le lotte territoriali sono il principale ostacolo materiale a questo processo di distruzione della natura.


[1] I. Iengo, M. Corongiu, Giustizia Ambientale, in Trame. Pratiche e saperi per unecologia situata, a cura di Ecologie Politiche del Presente, Napoli, Tamu Edizioni, 2021, pp. 17-39.

[2] A. Giddens, The Consequences of Modernity, Cambridge, Polity Press, 1990.

[3] D. Harvey, The right to the city, in “New Left Review”, Vol. 53, 2008.

[4] Nimby Forum, L’era del dissenso, 2018. [https://www.nimbyforum.it/wp-content/uploads/2019/04/Nimby_forum_2018_doppia.pdf; ultimo accesso 28/5/21]

[5] M. Andretta, P. Imperatore, 2023, Le trasformazioni del movimento ambientalista in Italia tra istituzionalizzazione e conflitto, in “Polis”, XXXVII (2023), n. 1, pp. 67-98.

[6] F. Rosignoli, Giustizia ambientale: Come sono nate e cosa sono le disuguaglianze ambientali, Roma, Castelvecchi, 2020.

[7] R. Pasetto, F. Rosignoli, Giustizia ambientale e salute ambientale, in “La salute umana”, XLVIII (2020), n. 280, p. 8.

[8] R. Nixon, Slow Violence and the Environmentalism of the Poor, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 2011.

[9] D. Rodgers, B. O’Neill, Infrastructural violence: Introduction to the special issue, in “Ethnography”, XIII (2012), n. 4, pp. 401-412.

[10] Rosignoli, Giustizia ambientale. cit.

[11] M. Armiero, Ribelli. Naturalmente, in Giorgio Nebbia, La contestazione ecologica. Storia, cronache e narrazioni, a cura di Nicola Capone, Napoli, La Scuola di Pitagora, 2015, p. 16.

[12] L. Pulido, Development of the ‘People of Color’ Identity in the Environmental Justice Movement of the Southwestern United States, in “Socialist Review”, XXVI (1998), n. 3-4, 1998, pp. 145-180.

[13] Si putìssi. Riappropriazione, gestione e recupero dei territori siciliani, a cura di M. Benadusi, A. Lutri, L. Saija, Firenze, Editpress, 2021.

[14] Raul Zibechi intervistato da Claudia Fanti: Esempi di resistenza al brutale capitalismo estrattivista, in “il manifesto”, 30.12.2022.

[15] Ivi, p. 15.

[16] D. N. Pellow, Toward Critical Environmental Justice Studies. Black Lives Matter as an Environmental Justice Challenge, in “Du Bois Review”, XIII (2016), n. 2, p. 224.

[17] Armiero, Ribelli, cit., pp. 19-20.

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