Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Le antiche radici mentali del neoliberismo e la società dei consumi. Una prospettiva psicoculturale

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“There is no alternative”: è la lapidaria affermazione con cui Margaret Thatcher usava liquidare ogni possibile obiezione alle politiche neoliberiste che riuscì a imporre, nonostante i pesanti costi per la popolazione, come l’unica strada possibile per risolvere la crisi economica, e che sarebbero presto diventate un modello per tutto il mondo globalizzato. Allo stesso modo oggi, di fronte alle drammatiche conseguenze sul versante ambientale del modello di sviluppo basato sulla continua crescita di produzione, profitti e conseguente prelievo di risorse naturali, che trova i suoi fondamenti strutturali proprio in quel neoliberismo, la risposta prevalente, implicita o esplicita, continua ad essere la stessa: non c’è alternativa; e coloro che pensano ad un modello diverso di società e di economia sono considerati utopisti privi del senso della realtà. Posto che il rischio, come gli scienziati da tempo avvertono, è quello di una profonda e irreversibile alterazione degli equilibri della biosfera[1], con la prospettiva dell’estinzione non solo della specie umana, ma della stessa vita biologica come noi la conosciamo[2], acquista una sinistra veridicità l’affermazione attribuita al filosofo Fredric Jameson, secondo la quale sembra che sia più facile immaginare la fine del mondo piuttosto che la fine del capitalismo.

Accade così che di fronte allo scioglimento, già in atto, delle calotte polari, che avrà drammatiche conseguenze non solo per l’innalzamento del livello degli oceani, ma anche per la diminuzione della capacità del pianeta di riflettere le radiazioni solari, con conseguente ulteriore accelerazione del riscaldamento globale, si registra l’entusiasmo (e la competizione) degli attori commerciali e politici per i possibili vantaggi della più breve “rotta polare” di collegamento tra l’Asia e l’Europa[3]. Così come accade che di fronte alla carenza di acqua dolce pulita, che già oggi affligge buona parte del mondo e che si configura come una delle più gravi emergenze planetarie dei prossimi anni, la risposta del sistema economico sia stata la quotazione in borsa di questo bene primario, con conseguenti possibilità di speculazioni finanziarie sulle oscillazioni del suo prezzo[4].

Vicende come queste ci mostrano da un lato il legame strettissimo tra la crisi ecoclimatica e le dinamiche economico-politiche, e dall’altro lato però anche l’importanza di una dimensione definibile come psico-culturale, che rinvia appunto alla estrema difficoltà di concepire una possibile alternativa, e che consente di considerare accettabili o addirittura giusti gli sviluppi che quelle vicende descrivono. Lo stesso può dirsi rispetto allo scarto, sempre più evidente e pericoloso, tra i richiami all’azione urgente da parte degli scienziati e l’inerzia dei decisori politici. Ad esempio, quando un governo nazionale si oppone all’adozione di direttive ambientali europee più stringenti, ad esempio in tema di decarbonizzazione dei trasporti, riuscendo a presentare tale azione presso la sua opinione pubblica come un proprio grande successo politico, ciò risponde certamente a potenti interessi economici, ma può avvenire anche perché lo stile di vita e il modello attuale di società e di economia sono profondamente radicati nell’orizzonte mentale delle persone, che li considerano scontati, quasi “naturali” e di fatto immutabili. Per questo oltre a riflettere, com’è necessario fare, sul versante socio-economico di questi problemi, soprattutto per individuare le azioni più idonee dal punto di vista politico, è importante cercare di comprendere anche in che modo quel modello di vita e di economia si è imposto all’immaginario collettivo come l’unico possibile.

Il “sogno americano” tra economia, politica e psicologia

Al riguardo, uno dei fattori da considerare è la progressiva convergenza, in un lungo percorso di reciproco rinforzo, tra gli sviluppi del pensiero economico di stampo liberista – dalle prime formulazioni classiche fino alle più recenti esasperazioni – e la cultura del consumo, la cui maturazione ha accompagnato la costruzione della società dei consumi nelle sue diverse fasi ponendosi, insieme appunto all’ideologia liberista nelle sue varie forme, come pilastro fondativo dei processi di globalizzazione attualmente in corso. Di questo lungo percorso può essere utile richiamare qualche passaggio, per evidenziare alcuni elementi importanti che hanno favorito quella convergenza e il conseguente radicamento mentale di questo modo di intendere la vita e la società. Un momento particolarmente rilevante a questo proposito furono i primi decenni del Novecento negli Stati Uniti, quando la nascente cultura del consumo si andò caratterizzando per l’intreccio di tre dimensioni, la cui saldatura ha svolto – e svolge tuttora – un ruolo fondamentale nell’affermazione di quel modello di società: la dimensione economica, quella psicologica e quella politica.

Sul versante propriamente economico, i consumi furono individuati come volano della crescita della produzione e dell’occupazione e quindi garanzia di aumento della ricchezza complessiva. Significativo il fatto che in quegli anni si sviluppò il concetto di “obsolescenza programmata” non solo come espediente per aumentare i profitti delle aziende, ma anche come strategia complessiva per uscire dalla crisi economica[5]. Al livello psicologico, fu in quegli anni e in quel contesto che si consolidò l’idea che i beni di consumo potessero avere non solo la funzione di soddisfare bisogni e rendere la vita più comoda, ma anche quella di favorire la piena realizzazione personale in un orizzonte di massimizzazione della felicità individuale. Al terreno delle necessità materiali, per loro natura concrete e finite, si aggiungeva quello del desiderio, della fantasia e del sogno, in grado di mobilitare dinamiche psicologiche profonde e in una prospettiva tendenzialmente senza limite. Una grande importanza ebbe però anche la dimensione più propriamente politica: il modello di società fondato sulla crescita costante della ricchezza complessiva e sulla valorizzazione della potenzialità e della felicità individuale fu ben presto esaltato come il migliore possibile, espressione piena e al tempo stesso presupposto necessario di quella società democratica che orgogliosamente si contrapponeva ai totalitarismi avanzanti in Europa. Produrre e consumare sempre di più andò acquistando i connotati simbolici di un dovere civico, espressione di fede nell’identità nazionale e nell’ideale democratico[6].

In questo percorso, fu cruciale il ruolo della psicologia, che stava allora maturando i suoi strumenti teorici e operativi e il cui contributo fu ampiamente utilizzato tanto in campo economico quanto in campo politico al fine di approfondire la comprensione dell’animo umano e perfezionare le strategie di persuasione. Significativo in tal senso, anche se poco noto, il lavoro di Walter D. Scott (1869-1955), che si impegnò molto nell’applicazione delle scoperte della psicologia alla comprensione e all’indirizzamento del comportamento dei consumatori, con alla base l’idea che tale comportamento fosse largamente influenzato da processi automatici e dinamiche di tipo affettivo, e che quindi la pubblicità dovesse essere indirizzata non tanto alla presentazione dei vantaggi oggettivi del prodotto quanto piuttosto a catturare l’attenzione, provocare risposte automatiche e generare sentimenti positivi[7]. Più nota la vicenda di John B.Watson (1878-1958), il fondatore del comportamentismo, che, dopo essere stato sollevato dall’incarico universitario per aver avviato una relazione con una studentessa, trasferì le sue competenze – in maniera molto più redditizia – nel mondo del marketing e della pubblicità. Entrato nella già allora potentissima agenzia J. Walter Thompson, vi fece una brillante carriera, divenendone vicepresidente nel 1924 e legando il suo nome a molte importanti campagne pubblicitarie.

Per il discorso che qui stiamo facendo, tuttavia, è particolarmente interessante la figura Edward L. Bernays (1891-1995). Doppiamente imparentato con Sigmund Freud (suo padre e Freud infatti avevano sposato l’uno la sorella dell’altro) e presto trasferitosi con la famiglia negli Stati Uniti, Bernays è noto come antesignano dei cosiddetti “spin doctors”, vale a dire i consulenti di comunicazione che tanta parte hanno avuto e hanno tuttora nell’orientare le scelte, le azioni concrete e soprattutto l’immagine pubblica dei protagonisti della sfera politica ed economica[8]. Nella sua lunghissima e molto lucrosa attività (morì ricchissimo a 104 anni) svolse un ruolo di rilievo sia nel campo della pubblicità e del marketing sia nel campo propriamente politico, servendo come ascoltato consulente di vari Presidenti e contribuendo a definire quel legame stretto tra consumi, motivazioni individuali e sistema politico-economico di cui stiamo descrivendo le origini.  Il suo punto di partenza era l’idea che le persone scelgono e concretamente agiscono, specialmente nella società di massa, non sulla base di valutazioni razionali, bensì sulla spinta di emozioni e automatismi, che possono essere opportunamente manipolati con tecniche adeguate. Si trattava di un’idea non nuova, già esplorata dalla psicologia delle folle di inizio Novecento, e appunto da Freud, le cui opere Bernays si occupò di diffondere negli Stati Uniti; ma anche da molti degli psicologi che stavano mettendo le loro competenze a disposizione degli obiettivi di vendita dell’industria e del mercato. L’aspetto decisivo della sua azione era tuttavia il fatto che tale manipolazione, pur essendo esplicitamente finalizzata al profitto dei committenti (economici o politici), veniva caratterizzata non già come un’indebita interferenza nella libertà individuale, bensì come una funzione sociale decisamente utile. Posto che l’individuo non è in grado di scegliere razionalmente ciò che è effettivamente meglio per lui e per la società, e soprattutto in un contesto di rapidissimo sviluppo delle comunicazioni di massa e quindi della quantità di informazioni che arrivano, si rende necessario un opportuno orientamento dei pensieri e delle valutazioni, nel superiore interesse della società:

La manipolazione cosciente e intelligente delle opinioni e delle abitudini organizzate delle masse è un elemento importante nella società democratica.… In teoria, ogni cittadino si fa la sua idea sulle questioni pubbliche e sulle proprie condotte private. In pratica, se tutti gli uomini dovessero studiare per proprio conto i complessi dati economici, politici ed etici implicati in ogni questione, troverebbero impossibile arrivare ad alcuna conclusione[9].

Su queste basi, e con un’attenta valorizzazione tanto dei risultati della psicologia e quanto delle tecniche di comunicazione di massa che si andavano sviluppando, Bernays si dedicò a delineare la teoria e la pratica di una “ingegneria del consenso” sostanzialmente fondata su una stretta integrazione fra gli interessi economici delle grandi corporations e i valori della democrazia americana. Esemplare in proposito la sua celebre campagna pubblicitaria per favorire il fumo delle donne in pubblico, fino a quel momento considerato sconveniente; un preciso interesse dei produttori di tabacco venne presentato come un’affermazione dei valori di libertà e uguaglianza, come la vittoria della “intelligenza americana” contro i pregiudizi:

Sulla stessa linea, ma con enfasi ancora maggiore e più esplicita sulla dimensione politica, il suo impegno nella campagna organizzata dalla National Association of Manifacturers per contrastare il New Deal con il quale F. D. Roosevelt stava cercando di superare la crisi economica dei primi anni ’30 con politiche volte a limitare il potere di banche e imprese private, a favore di investimenti pubblici e a sostegno dei ceti popolari. Momento culminante della campagna fu la fiera mondiale di New York nel 1939, di cui Bernays fu consulente di spicco, e in cui il legame tra democrazia, impresa privata e alto standard di vita venne presentato con un livello altissimo di spettacolarità, in grado di stimolare profondamente l’immaginazione e i desideri delle persone.

In definitiva, in quegli anni e in quel contesto si andò strutturando un insieme di interessi, convinzioni e modalità operative il cui intreccio può considerarsi come un nucleo fondativo, di natura insieme socio-economica e psico-culturale, che ancora oggi funziona nel rendere apparentemente non superabile il modello neoliberista. Elementi costitutivi di tale intreccio furono alcune idee che ritroviamo, in forme aggiornate, fino ad oggi: che il benessere individuale e collettivo fosse basato principalmente sulla quantità di beni prodotti, posseduti e consumati; che il consumo sempre crescente di beni fosse garanzia di felicità e soddisfazione per l’individuo, ma anche espressione di quei valori di autorealizzazione, indipendenza e libertà considerati fondamento della democrazia; che tutto ciò potesse svilupparsi pienamente solo lasciando campo libero ai meccanismi di mercato, per loro natura orientati alla crescita costante e quindi all’allargamento del benessere collettivo; che la scienza e la tecnologia, in potente avanzamento, avrebbero assicurato un livello sempre più alto di controllo del mondo fornendo anche soluzioni per eventuali problemi che si potessero verificare. Parallelamente però, e in modo alquanto contraddittorio rispetto alla convinzione circa la capacità di autodeterminazione dell’individuo, si andava consolidando l’idea che in realtà le persone non fossero in grado di conoscere e valutare in modo oggettivo le convenienze proprie e del sistema sociale, essendo mosse principalmente da dinamiche di tipo irrazionale ed emozionale. Per questo coloro che hanno la responsabilità della gestione politico-economica della società avrebbero non solo il diritto, ma anche il dovere di indirizzare le scelte delle persone nella direzione per tutti più vantaggiosa, che corrisponde di fatto agli interessi del mercato e delle imprese.

A questo scopo si trovò utile enfatizzare molto la prospettiva del sogno e del desiderio, ponendo così le basi di una trasformazione che risulterà cruciale per lo sviluppo del sistema socio-economico fondato sulla crescita continua di produzione e consumi: i beni materiali presentati non più come strumenti per soddisfare necessità e bisogni, nell’ottica di rendere la vita quotidiana più comoda e sicura, ma piuttosto come chiavi di accesso ad un mondo fantastico governato appunto dal desiderio, in cui si perde il confine tra realtà e immaginazione. La differenza, ai fini dell’affermazione di un modello socio-economico fondato sulla crescita senza fine, è del tutto evidente: le necessità e i bisogni sono in qualche modo finiti o molto difficilmente espandibili, mentre sogni e desideri sono per loro natura senza limiti, senza confini e non soggetti ai vincoli della realtà. Un’altra dimensione psicologica molto importante, individuata e valorizzata in quegli anni quale supporto per il modello socio-economico che si andava consolidando, fu la tendenza all’autoaffermazione e alla competizione. Tale tendenza è infatti certamente presente nel quadro motivazionale degli esseri umani, anche come risultato del nostro lunghissimo percorso di evoluzione biologica; nell’ambito del quale, tuttavia, essa convive e si integra con la tendenza opposta, anch’essa estremamente importante ai fini del nostro successo adattivo, che ci spinge invece alla cooperazione con i nostri simili[10]. Il modello socio-economico che si stava affermando trovò invece molto utile enfatizzare e promuovere principalmente, se non esclusivamente, il versante competitivo del nostro assetto motivazionale, considerato come del tutto “naturale”, e quindi presentandone il perseguimento come un fondamentale diritto in termini di autorealizzazione. Il tutto in pieno accordo da un lato con gli ideali di un sistema politico fondato sulla libera iniziativa individuale e dall’altro con i presupposti utilitaristici dell’economia classica, che considerava appunto la ricerca del vantaggio individuale quale motore del sistema economico e garanzia del suo buon funzionamento.

Un ultimo elemento che va considerato è che tutto ciò fu costruito con il decisivo supporto dei mezzi di comunicazione di massa, che all’epoca stavano consolidando le proprie potenzialità, anche a seguito dei rapidi sviluppi tecnologici, ponendosi come elemento strutturante della mentalità e della cultura che si andava formando[11]. In particolare, fu ampiamente valorizzata soprattutto quella dimensione di spettacolarizzazione che allora cominciava a mostrare la sua importanza e che sarebbe poi diventata così fondamentale negli anni a venire, fino a delineare quella società dello spettacolo e del divertimento di cui Guy Debord[12] e Neil Postman[13] daranno così lucida descrizione.

L’esportazione del modello americano

Il ruolo decisivo che gli Stati Uniti d’America ebbero nelle due guerre mondiali contribuì molto alla diffusione di quel modello di società. A cominciare dal celebre viaggio di W. Wilson in Europa nel gennaio del 1919 nel quale egli si adoperava per favorire una giusta soluzione per le lacerazioni della prima guerra mondiale, ma al tempo stesso presentava la propria nazione e la propria cultura come punto di riferimento e guida morale, ricevendo calorosa accoglienza dalle folle che incontrava nelle capitali europee. Il viaggio fu un grande evento mediatico, sempre nella prospettiva di costruire consenso tramite la spettacolarizzazione della politica, com’era peraltro già accaduto due anni prima quando, con la consulenza di Bernays, Wilson si era impegnato per convincere gli americani dell’opportunità di entrare in guerra. In questo caso, ciò che ci si sforzava di propagandare era la superiorità di un modello sociale e culturale, che veniva presentato come scintillante esempio di modernità ed efficienza contrapposte all’arretratezza della vecchia Europa. In realtà, era già da tempo che la vecchia Europa guardava con curiosità e interesse alla ricetta americana di modernizzazione della vita politica e sociale, anche con riferimento alla possibile importazione degli sviluppi dell’utilitarismo e del pragmatismo. A tale interesse corrispose però da subito anche una diffusa diffidenza, impostando ben presto quella contrapposizione americanismo-antiamericanismo che tanta parte avrà, nel corso del Novecento, nel dibattito filosofico e culturale.

Riferimento imprescindibile per la ricostruzione di questo percorso, nelle sue complesse relazioni con molteplici aspetti della vita politica e sociale, è il pensiero di Antonio Gramsci. Com’è noto, egli dedicò infatti molte delle sue riflessioni a ciò che definiva “americanismo e fordismo”, descrivendone il contenuto sia sul versante economico che su quello culturale, ed evidenziandone le possibili ricadute in termini sociali e politici[14]. Già in Gramsci, come si potrà poi osservare in gran parte del dibattito successivo su questo tema, sono presenti elementi di ambivalenza nelle valutazioni che si possono fare al riguardo. Egli esprime infatti da un lato preoccupazione e condanna per gli aspetti negativi di quel modello, tanto sul versante delle relazioni economiche e politiche quanto sul piano propriamente culturale; dall’altro lato, però, ne comprende il possibile ruolo in direzione di una razionalizzazione e modernizzazione dei processi sociali rispetto alle quali la “vecchia Europa” faceva molta resistenza.

La valorizzazione dell’American way of life, anche in chiave politica come confronto fra la democrazia americana e i totalitarismi europei, subì una forte accelerazione con lo scoppio della seconda guerra mondiale. Negli anni del sofferto dibattito circa l’opportunità di intervenire nel conflitto, acquistò rilevanza la possibilità (per alcuni un vero e proprio dovere) che gli Stati Uniti, abbandonando definitivamente un’antica tendenza all’isolamento, si assumessero la responsabilità di proporsi al mondo come guida anche morale, in grado di accompagnare con il proprio esempio le altre nazioni verso un futuro di benessere, di libertà e di democrazia. Significativo al riguardo il celebre editoriale dal titolo “The American century”[15] del magnate dell’editoria H. R. Luce, che può essere considerato un vero e proprio manifesto di quello che poi molti definiranno come una nuova forma di imperialismo. Potentissimo proprietario di riviste di grande successo come Life, Time, Fortune e Sports Illustrated, che in quegli anni stavano trasformando le regole del giornalismo contribuendo in maniera rilevante a costruire la cultura della nazione, con quel testo Luce auspicava che gli Stati Uniti avviassero un deciso programma di espansione economica e culturale, finalizzato a mettere a disposizione degli altri Paesi meno fortunati tanto le proprie competenze scientifiche e tecnologiche quanto le proprie vincenti ricette nei campi dell’organizzazione della produzione, della vita sociale e della politica. A suo avviso, gli Stati Uniti avevano l’opportunità, ma soprattutto anche il dovere, di assumere una “leadership di principi”, fondata non solo sulla superiorità militare, ma soprattutto sul prestigio derivante dall’aver individuato e perfezionato gli elementi fondanti di una nazione prospera: la libertà d’impresa, la democrazia, l’abbondanza di beni a disposizione. È in questo senso che il secolo sarà appunto “americano”: una bandiera trionfante di libertà e benessere, di uguali opportunità, autoaffermazione e indipendenza ma anche cooperazione. Nelle sue parole:

È venuto per noi il tempo di essere la centrale dalla quale gli ideali si diffondono in tutto il mondo e svolgono il loro misterioso lavoro di elevare la vita del genere umano dal livello delle bestie a quello che il Salmista ha definito solo un po’ basso degli angeli[16].

Alla conclusione della seconda guerra mondiale un potente veicolo di concretizzazione di quel progetto fu il “Piano Marshall”, con il quale gli Stati Uniti contribuirono alla ripresa dell’Europa. Esso comprendeva infatti consistenti aiuti finanziari, ma anche il supporto di numerosi consulenti economici, percorsi specifici di formazione degli operatori economici negli Stati Uniti, nonché materiali propandistici e prodotti audiovisivi con i quali, oltre l’apparente finalità di descrivere scopi e risultati del Piano, si illustrava in modo molto enfatico la superiorità del modello economico, sociale e politico degli Stati Uniti. Un esempio significativo al riguardo è il filmato The Marshall Plan at Work in Great Britain[17], nel quale alle drammatiche condizioni della nazione alla fine della guerra si contrappone, con un accorto uso del montaggio e delle musiche, l’incipiente esplosione del benessere, ottenibile grazie al sostegno economico degli USA ma soprattutto alla scelta di adottare un’ottica industriale, modalità di organizzazione del lavoro, e stili di vita e di consumo che riproducono il modello statunitense. Interessante il fatto che nuova direzione di sviluppo venga presentata come non in contrasto, bensì in perfetta continuità e sintonia con i valori consolidati: i potenti nuovi trattori che non confliggono con il tradizionale paesaggio agricolo; la catena di montaggio applicata all’antichissima produzione di whisky. Soprattutto, si sottolinea quanto il nuovo stile di vita e la diffusione della ricchezza riguarderà sempre di più tutti, anche la classe operaia, e come tutti potranno finalmente accedere a livelli di benessere prima impensabili, descritti in maniera molto accattivante, con richiami anche alla dimensione ludica, evocata ad esempio da immagini gioiose di tuffi in una piscina.

Successivamente, nel clima sempre più teso della guerra fredda, i consumi furono considerati in modo sempre più esplicito come la prova evidente della superiorità di un sistema fondato sulla libertà d’impresa senza interventi da parte dello Stato, con al centro, a fungere da motore dell’economia, l’iniziativa individuale e il perseguimento della massima soddisfazione delle persone. In proposito si può ricordare l’episodio del 1959 passato alla storia come il “dibattito della cucina” tra l’allora vice-presidente americano Richard Nixon e il premier sovietico Nikita Kruscev[18]. Erano gli anni in cui la tensione fra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica si inaspriva di giorno in giorno pericolosamente, e l’Amministrazione americana, su precisa indicazione del Presidente Eisenhower, si adoperò per favorire un maggiore contatto, finalizzato a smussare le asperità, ma anche a mostrare la superiorità del proprio modello di economia e di società, trasferendo quindi il conflitto dal piano militare a quello culturale. Di questo progetto faceva parte una grande Esposizione realizzata a Mosca dagli americani, nella quale era stata riprodotta anche una cucina, completa di mobili ed elettrodomestici, di fronte alla quale i due statisti avviarono un improvvisato confronto fra i due sistemi di società e di vita, proseguito poi davanti a telecamere da poco in grado di effettuare registrazioni a colori[19].

Fu un confronto molto interessante sia per i toni, molto fermi, ma cortesi e anche ironici da entrambe le parti, sia per i contenuti. Alcuni scambi riassumono bene il senso delle due opposte visioni del mondo. Ad esempio, quando Kruscev contesta il fatto che le case negli Stati Uniti sono fatte per durare poco, così che i costruttori ne possano vendere di nuove, e Nixon replica che le persone hanno il diritto di cambiare prodotti obsoleti e trarre vantaggi dagli avanzamenti tecnologici; oppure quando Nixon afferma che ogni lavoratore può acquistare una casa come quella mostrata pagandola a rate in trent’anni, e Kruscev replica che nel loro caso tutto ciò che occorre fare per avere una casa è essere nati in Unione Sovietica; oppure ancora quando Nixon decanta il risparmio di lavoro consentito dagli elettrodomestici, e Kruscev ribatte che non gli sembra poi così difficile spremere limoni a mano, e chiede sarcasticamente se sia già pronto un apparecchio che spinga il cibo nella bocca. L’episodio ebbe una grande risonanza nei media americani, contribuendo a rinsaldare l’orgoglio per lo stile di vita nazionale anche in chiave di confronto e contesa politica; e lo stesso Nixon ne ricavò un consistente aumento di popolarità, che lo aiutò ad ottenere la nomination repubblicana alle successive elezioni presidenziali (poi perse contro J. F. Kennedy).

Sappiamo cosa è successo dopo, e come il potente sviluppo economico del secondo dopoguerra nelle diverse nazioni e poi i processi di globalizzazione intensificatisi negli ultimi decenni siano stati profondamente marcati da valori, stili di vita e modalità di organizzazione sociale che si possono definire in senso lato “americani”, o che comunque avevano trovato negli Stati Uniti dei primi decenni del secolo una loro prima formulazione esplicita e ben integrata tra aspetti propriamente economico-politici e aspetti psico-culturali. Fondamento di questa visione del mondo l’idea di una stretta relazione tra libertà di mercato, libertà individuali, progresso scientifico-tecnologico e benessere, inteso quest’ultimo non solo come soddisfacimento dei bisogni materiali, ma soprattutto come autorealizzazione fondata principalmente sull’uso di una quantità sempre più grande di oggetti, beni e servizi. La progressiva espansione di questo modello in zone sempre più ampie del mondo, nonostante le ricorrenti crisi, i guasti evidenti in termini di giustizia sociale e le drammatiche conseguenze sul versante ambientale, è stata certamente spinta e governata da processi di tipo economico e complesse dinamiche geopolitiche. Non c’è dubbio però che nella sua diffusione ha giocato un ruolo importante anche la convinzione, pervasivamente diffusa, che quel modello sia il migliore possibile. Colpisce in particolare che tale convinzione sia largamente condivisa anche da coloro che sono ancora ben lontani dal partecipare alla promessa abbondanza. Certamente non è stata mantenuta, infatti, una delle promesse basilari di quel modello, che lo ha legittimato fin dall’inizio anche dal punto di vista etico; vale a dire l’idea che l’aumento complessivo della ricchezza, ottenuto grazie alla liberazione delle sane energie del mercato e della competizione, si sarebbe diffuso a cascata sull’intera società, con vantaggi evidenti per tutti. Com’è noto, e come ricordano continuamente le indagini nazionali e internazionali, la ricchezza si va invece concentrando sempre di più nelle mani di sempre meno persone, e cresce sempre di più il divario tra i Paesi ricchi e quelli poveri. Su questi ultimi, peraltro, si sta già scaricando e sempre più si scaricherà il peso delle gravi conseguenze della crisi ecoclimatica, alla quale essi hanno contribuito in misura infinitesimale. Questo è in effetti l’aspetto più assurdo e intollerabile anche dal punto di vista etico: che la catastrofe ambientale verso la quale siamo avviati stia avvenendo solo per consentire a pochi ricchi di diventare sempre più ricchi.

Interrogarsi sul versante psico-culturale che ha sostenuto e tuttora continua a sostenere questi processi non significa ovviamente dimenticarne le profonde radici di tipo economico e politico. Al contrario, può essere molto utile per orientare le possibili soluzioni, specie nella direzione di una più ampia consapevolezza nell’opinione pubblica, che possa poi anche sperabilmente orientare l’azione politica nella giusta direzione. In effetti la psicologia ha avuto un ruolo notevole, all’inizio di questa storia, nella diffusione di questo modello di società e di vita. In particolare, è risultata ed è tuttora determinante nella configurazione di quella cultura del consumo che tanta parte ha oggi nel farci considerare insostituibile quel modello. Allo stesso modo, in una prospettiva diametralmente opposta, un’approfondita conoscenza della dimensione psicologica implicata in questi processi può aiutare a raggiungere lo scopo, sempre più urgente, di metterne in discussione i fondamenti[20].


[1] Si vedano i rapporti sempre più allarmati dell’International Panel on Climate Change: IPCC, Climate Change 2021: The Physical Science Basis, 2021(https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg1/); Id., Climate Change 2022: Impacts, Adaptation and Vulnerability, 2022 (https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-working-group-ii/); Id., Climate Change 2022: Mitigation of Climate Change (https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-working-group-3/), 2022.

[2] E. Kolbert, La sesta estinzione. Una storia innaturale, Neri Pozza, Vicenza 2014.

[3] C. Fontana, Ghiacci artici. Russia e Cina alla conquista delle nuove rotte, 2019; A. H. Lynch, C. H. Norchi, X. Li, The interaction of ice and law in Arctic marine accessibility, PNAS, 119 (26) e2202720119, 2022.

[4] R. De Carolis, Nel silenzio generale, l’acqua è stata quotata in borsa per la prima volta nella storia (e potrà essere oggetto di speculazione), 2020.

[5] B. London, Ending the Depression Through Planned Obsolescence, pubblicato in proprio nel 1932 e riprodotto in Id. The New Prosperity: Permanent Employment, Wise Taxation and Equitable Distribution of Wealth, New York 1933.

[6] C. McGovern, Sold American: Consumption and Citizenship, 1890–1940, The University of North Carolina Press, Chapel Hill 2006.

[7] W. D. Scott, The Psychology of Advertising in Theory and Practice, Small, Maynard & Company, Boston 1921.

[8] L. Tye, The Father of Spin: Edward L. Bernays & The Birth of Public Relations, Crown Publishers, New York 1998.

[9] E. L. Bernays, Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia, Lupetti, Bologna, 2008, pp. 9-11 (ed. or. Usa 1928).

[10] M. Tomasello, Altruisti nati. Perché cooperiamo sin da piccoli. Bollati Boringhieri, Torino 2010.

[11] D. J. Czitrom, Media and the American Mind: From Morse to McLuhan, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1982.

[12] G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2017 (ed. or. francese 1967).

[13] N. Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, Marsilio, Venezia 2002 (ed. or. Usa 1985).

[14] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino varie edizioni; si veda in particolare il Quaderno n. 22.

[15] H. R. Luce, “The American Century”, “Life”, 17.2.1941; ora in “Diplomatic History”, XXIII (1999) n. 2, 1999, pp.159-171 e in rete al seguenti indirizzo: https://news.harvard.edu/wp-content/uploads/2015/03/luce.pdf.

[16]  Ivi, p.171.

[17] Disponibile in rete al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=bbp71o40fVA

[18] Una descrizione accurata dell’episodio si trova in R.Pujara Cold War’s Hot Kitchen”: How Kitchen Debate unfurled a new frontier for ‘cultural offensives’.

[19] Tale registrazione è disponibile (https://www.youtube.com/watch?v=z6RLCw1OZFw) e costituisce un documento storico molto interessante; ne è disponibile anche una parziale trascrizione  (https://www.cia.gov/readingroom/docs/1959-07-24.pdf).

[20] Per un approfondimento dei temi trattati in questo articolo B. M. Mazzara, Società dei consumi e sostenibilità, Carocci, Roma 2023.

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