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Piero Bevilacqua, Prefazione a Alberto Berton, “La storia del biologico. Una grande avventura”, Jaca Book – Fondazione Luigi Micheletti, Milano 2023.

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Diverse motivazioni hanno spinto Alberto Berton, che da anni si occupa di agricoltura biologica e ne va ricostruendo la storia, a scrivere questo libro. Un testo di storia di questo particolare ramo dell’agricoltura, contemporanea tengo a sottolinearlo, che, per quanto ne sappia, non ha l’eguale nella letteratura internazionale per ampiezza e completezza di ricostruzione. E il lettore informato se ne convincerà subito. Esistono infatti moltissimi libri e opuscoli che raccontano soprattutto le origini dell’agricoltura biodinamica e dell’agricoltura organica, scritti spesso da scienziati protagonisti di innovazioni importanti, qualcheduno con un preciso fine storiografico come quello di Lucy Milankovic, Origini e sviluppo dell’agricoltura ecologica in Europa (1990), ma questa “avventurosa storia” possiede un’ampiezza di arco storico esplorato e una ricchezza di informazioni introvabili altrove.

La prima motivazione è di natura ideale e politica. Ridare slancio, recuperare i valori originari che hanno accompagnato fin dal suo nascere quel che ora chiamiamo indistintamente agricoltura biologica, e che negli ultimi decenni, pur affermandosi quantitativamente con un successo economico senza precedenti, si è molto appiattita sul versante degli affari, tradendo talora i suoi principi oltre che i suoi disciplinari. L’autore ricorda che nel 2015 l’ifoam, l’International Federation of Organic Agriculture Movements, la Federazione Internazionale dei Movimenti per l’Agricoltura Biologica – che era stata fondata nel 1972 a Versailles – presentò un importante documento dal titolo Organic 3.0 (Biologico 3.0). Quel rapporto era il frutto della riflessione di un gruppo costituitosi nel 2012, il Sustainable Organic Agriculture Action Network (soaan), che si poneva non solo il problema di assicurare maggiore sicurezza ai prodotti “certificati” dell’agricoltura biologica, ma anche di ridare slancio a questo settore di fronte alle sfide molteplici che si aprivano in campo agricolo.

Quindi la prima e forse la più importante ragione ideale di questo libro è fornire di radici storiche il movimento biologico, che non è un settore economico come un altro ma un originalissimo impasto di cognizioni scientifiche e di valori umanistici, di concezioni alternative del mondo e di progetti per assetti futuri della società. Per rispondere a tale fine è quindi necessario mostrare il lungo cammino percorso da questo complesso movimento, scandendone le fasi e dando il rilievo e il profilo ai tanti protagonisti seppelliti sotto una coltre di oblio di una cultura nazionale, quella italiana, che ha sempre dedicato poca e superficiale attenzione ai temi dell’agricoltura, un ambito che pur ne costituisce uno dei caratteri originali più riconosciuti nel mondo. Sia pure a livello di cucine.

Si tratta dunque, per l’autore, di mostrare che «Lungi dall’essere una moda effimera, il biologico, come abbiamo visto, è un movimento scientifico e sociale che ha quasi un secolo di storia. Nel corso del Novecento questo movimento ha interagito e si è rapportato con le diverse problematiche emergenti, con i travolgenti sviluppi scientifici e tecnologici e con i più disparati contesti storici, culturali, politici, istituzionali ed economici: questo giustifica l’uso dell’aggettivo “avventurosa” per qualificare la sua storia».

Per la verità anche se attualmente, dopo cento anni di storia, l’agricoltura biologica certificata interessa meno dell’1,6% della superficie agricola mondiale, non è meno rilevante e significativo il suo peso anche in termini strettamente economici, tanto da legittimare una ricostruzione storica esaustiva. «Oggi – ricorda l’autore – oltre 190 nazioni su più continenti – Africa, America, Asia, Europa e Oceania – sono impegnate nell’agricoltura biologica, tanto che il mercato globale dei prodotti certificati è stimato intorno ai 120 miliardi di euro».

E tuttavia una ricostruzione storica come quella che ci propone Berton non si limita a scandire le fasi novecentesche di questo movimento, il suo affermarsi in sordina in Europa e negli usa negli anni ’50 e ’60, la sua rinascita negli anni ’70 dopo il successo e l’allarme creato nel 1962 dalla pubblicazione di Silent Spring di Rachel Carson, che aveva mostrato come il ddt, usato contro gli insetti, entrava nella catena alimentare. E poi il nuovo slancio che esso prese dopo la catastrofe di Chernobyl, nel 1986, che mostrò al mondo intero la possibilità di una contaminazione globale del cibo e quanto l’origine agricola degli alimenti fosse importante per la salute umana. Infine, a seguire la crescita economica, ma anche l’opacità e l’appannamento ideale e umanitario nel nuovo millennio, quando si afferma quello che viene definito biologico 2.0. Credo che uno degli elementi di maggiore interesse e originalità di questo libro consista nella ricostruzione delle origini più remote di questo movimento, quando ancora il termine “biologico” non faceva parte del lessico corrente del dibattito scientifico.

Berton, infatti, con ammirevole precisione e ricchezza di particolari, risale al xix secolo, ai primi o quasi primi studi sulla natura organica del suolo, sui suoi componenti vitali, sui legami ed effetti col mondo delle piante. Domina in questa ricostruzione la figura di Justus von Liebig, che insieme ad altri scienziati riesce a creare negli anni ’40 i primi concimi fosfatici, e a dimostrare che le radici delle piante assimilano direttamente i sali minerali dal terreno e non è l’humus a decidere della loro crescita e produttività. Il lettore si accontenti di queste rozze semplificazioni di chi deve riassumere un racconto molto articolato e complesso. Quel che è importante qui ricordare è che da quella posizione si creò allora nel mondo scientifico, fra chimici, biologi, agronomi, un intenso dibattito fra due schieramenti contrapposti: quello dei mineralisti, seguaci della teoria di von Liebig, e quella degli umisti, che continuavano ad assegnare all’humus una funzione decisiva nel processo vitale delle piante. Non è qui possibile neppure accennare alla questione alla luce delle conoscenze scientifiche attuali. Il lettore, del resto, troverà risposte alle sue curiosità in queste pagine. Quel che qui importa ricordare, come fa l’autore, è che i mineralisti ebbero allora la meglio, soprattutto alla luce dei successi pratici ottenuti coi concimi chimici, come spesso è accaduto alle vie riduzioniste intraprese dalla scienza, che hanno ottenuto vittorie, anche importanti, ma limitate nel tempo. È utile, tuttavia, qui ricordare che la figura di Justus von Liebig non va interamente schiacciata su una posizione che coincide con i criteri dell’agricoltura convenzionale del nostro tempo. Prima che il grande chimico tedesco sperimentasse i concimi minerali e si convincesse della loro efficacia, era al contrario ossessionato dal problema del rinnovamento della fertilità della terra. Di fronte alla crescita della popolazione e all’impetuoso incremento dei consumi alimentari, von Liebig temeva quel fenomeno che nella sua lingua chiamava Raubbau, cioè l’impoverimento progressivo e irreversibile dei suoli nelle campagne, che avrebbe portato a carestie di portata imprevedibile. Avendo egli verificato che nelle feci umane si ritrovavano tutti gli elementi chimici presenti nei vegetali, dal fosforo, al potassio, al calcio, ecc. di cui gli uomini si alimentano, era decisamente persuaso che esse dovessero ritornare al suolo per rinnovarne la fertilità, come era del resto sempre accaduto nelle città europee almeno dal medioevo. Ragione per la quale montò un’aspra polemica contro le innovazioni allora in corso soprattutto in Gran Bretagna, dove l’avanzare di nuove concezioni igieniche portava le amministrazioni delle città a sbarazzarsi delle deiezioni umane attraverso i sistemi fognari: «Nelle grandi città d’Inghilterra – egli polemizzava nelle Lettere prime e seconde sulla chimica e sue applicazioni all’agricoltura – si consumano i prodotti dell’agricoltura del Paese e dell’estero ma non si restituiscono più alle terre i principi minerali indispensabili alle piante. Certi usi, propri ai costumi inglesi, non vogliono che vi si raccolga quell’immensa quantità di fosfati che ogni giorno si versano nelle acque per mezzo delle urine e degli escrementi solidi».

Nel libro di Berton incontriamo ancora sul finire del ixi secolo ignote ma importanti figure che sono da considerarsi come piccoli affluenti destinati a ingrossare il grande corso dell’agricoltura biologica, ma anche delle scienze biologiche e agrarie. E cominciamo a fare conoscenza con personaggi del mondo scientifico italiano come quella del botanico italiano «Giuseppe Gibelli (1831-1898), direttore della Stazione Sperimentale Agraria di Modena, che si interessò alla presenza sulle radici di tutti i castagni delle ife, i delicati filamenti da cui poi si originano i funghi porcini». Una scoperta che nel 1885 «il biologo tedesco Albert Bernhard Frank (1839-1900) definì “micorrize” (dal greco mykos: fungo, e rhiza: radice) queste associazioni che presiedono ai diversi e complessi, per molti versi ancora misteriosi, scambi mutualmente benefici, ovvero simbiotici, tra funghi e piante». Una scoperta che ancora oggi impegna gli scienziati e che rappresenta una complessità del mondo vivente assolutamente trascurata dall’agronomia convenzionale e dell’agricoltura industriale che la sottintende.

Ma certamente la scoperta più ricca di sviluppi, sempre sul finire del secolo fu quella «avvenuta nel 1889 da parte del chimico agrario tedesco Hermann Hellriegel (1831-1895) e del suo collaboratore Hermann Wilfhart (1853-1904), dei batteri simbionti che vivono nei tubercoli delle leguminose, capaci di fissare l’azoto atmosferico». Si trattò di un vero disvelamento delle ragioni di un successo produttivo che aveva cambiato, sul finire dell’età moderna, la storia dell’agricoltura. In Inghilterra, tra xvii e xviii secolo, grazie alle leguminose (trifoglio, erba medica, ecc.) introdotte in rotazione col grano, era stato possibile abolire il maggese e nutrire gli animali mantenendoli in stalla, avendo così a disposizione letame tutto l’anno. Ora si scopriva che erano dei batteri presenti nelle radici delle leguminose a garantire la loro capacità di arricchire il terreno di azoto. Un fenomeno che i contadini conoscevano almeno dai tempi di Columella, nel i sec. d.C. Il quale, nella sua Res rustica ricordava che la coltivazione delle fave rendeva fertile il terreno e accresceva la produzione delle colture successive.

Tuttavia, il salto scientifico più importante verso la configurazione dell’agricoltura biologica come una scuola teorica e culturale distinta e come una pratica agricola alternativa si verifica negli anni ’20 del Novecento. Qui naturalmente operiamo una sintesi grossolana del racconto di Berton, soprattutto per quanto riguarda le conquiste scientifiche nell’ambito della cultura tedesca. Possiamo tranquillamente dire che non c’è Paese d’Europa e probabilmente del mondo, come la Germania, in cui gli studi sull’humus, sulla biologia e la chimica del suolo, sulla vita delle piante siano stati più intensi e più fertili. E tuttavia, come dice l’autore: «Se si vuole però stabilire una precisa data di nascita del movimento biologico, essa va posta al 1924, l’anno in cui Albert Howard con la moglie Gabrielle inaugurò a Indore, nell’India centrale, l’Institute of Plant Industry e Rudolf Steiner tenne durante la Pentecoste, nel castello di Koberwitz (attualmente Kobierzyce a sud di Wrocław, in Polonia) una serie di otto conferenze sull’agricoltura intitolate Impulsi scientifico-spirituali per il progresso dell’agricoltura».

Albert Howard era stato inviato in India dal governo inglese nel 1905, «per promuovere l’agricoltura chimica» in quelle campagne – come ricorda Vandana Shiva nell’introduzione a una recente pubblicazione, della sua opera fondamentale, An Agricultural Testament (1940) – e divenne un ammiratore dell’agricoltura contadina indiana, che era stata capace di assicurare per millenni la fertilità del suolo pur dovendo nutrire uno dei più popolosi Paesi della Terra. E qui il grande agronomo inglese mise a punto un metodo di compostaggio che divenne un elemento della sua scuola. Quello di Howard fu soprattutto un contributo di natura empirico-sperimentale, mentre invece Rudolf Steiner, studioso delle opere scientifiche di Goethe, si mosse su un piano più esplicitamente filosofico, non senza, tuttavia, indicare, nelle sue famose Lezioni, alcune pratiche agrarie tratte probabilmente da antiche tradizioni agricole germaniche, che diventeranno poi elementi fondativi dell’agricoltura biodinamica. È giusto, però, ricordare che se l’Antroposofia, vale a dire la concezione filosofica entro cui Steiner integra la vicenda dell’agricoltura, oggi risulta scientificamente datata, egli tuttavia anticipa una concezione olistica del rapporto uomo-natura di piena attualità. Sia qui sufficiente accennare a quanto afferma nei suoi Impulsi scientifico-spirituali: «Noi uomini non possiamo immaginare di poterci isolare: siamo anzi uniti col nostro ambiente e in ultima analisi vi apparteniamo».

Non è qui possibile dar conto neppure per cenni di tutte le dettagliatissime informazioni che Berton fornisce su queste scuole ed esperienze, così come su quelle immediatamente successive degli Stati Uniti, dove nel 1935 era stato istituito il Soil Conservation Service, per iniziativa del governo federale a causa dalle disastrose tempeste di sabbia – il famoso Dust bowl – imperversate negli anni della Grande Depressione nelle pianure degli Stati centro-meridionali (Great Plains). Si trattò di una vera catastrofe ambientale poco conosciuta al grande pubblico, almeno italiano, nonostante sia stata oggetto di ricostruzioni letterarie e cinematografiche. Ma della scuola biodinamica occorre qui ricordare il grande contributo teorico e scientifico sperimentale dato da un allievo di Steiner, come ricorda l’autore, Ehrenfried Pfeiffer, un chimico svizzero che in un’opera fondamentale, La fertilità della terra, terminata nel 1938, frutto di lavoro di laboratorio e di esperienze sul campo condotte in vari Paesi d’Europa e negli Stati Uniti, esprimeva tutta la visione complessa del suolo come ecosistema, non riconducibile a uno strato indistinto e inerte da sfruttare indefinitamente.

Un aspetto assolutamente originale di questa fatica di Berton e dunque una delle ragioni implicite che la ispirano e di cui abbiamo parlato all’inizio è il ruolo che hanno avuto gli scienziati italiani nella ormai secolare avventura del biologico. Nella vasta letteratura internazionale l’Italia, infatti, non figura, e la prima organizzazione biologica significativa viene individuata nella fondazione dell’Associazione Suolo e Salute nel 1969 a Torino. Ma, spiega l’autore, «Un’indagine storica più approfondita mostra però una realtà diversa che trova nell’agronomo modenese Alfonso Draghetti (1888-1960) una figura straordinaria, che si posiziona cronologicamente a metà strada tra i primi pionieri quali Howard e Steiner e l’internazionalizzazione del movimento biologico». E Draghetti, che si mosse sulla scia dell’approccio sperimentale di Howard, rappresenta per Berton «il padre dimenticato dell’agricoltura biologica italiana”. Colui che contrappose in maniera radicale la concezione economica dell’agricoltura a una “concezione biologica».

Non sono poche le scoperte che anche gli addetti ai lavori troveranno in questo libro. Una delle più sorprendenti è venire a conoscenza che l’agroecologia – il nuovo paradigma dell’agricoltura organica di cui l’agronomo cileno Miguel Altieri ha fatto le esperienze fondative in America Latina (M.A. Altieri e altri, Agroecologia: una via percorribile per un pianeta in crisi, Edagricole, Milano 2015), – nasce in Italia. Scrive Berton: «“Recente è l’origine di questa disciplina!”. È questo l’incipit con cui si apre Ecologia Agraria, testo pubblicato nel 1944 da Girolamo Azzi, studioso di Imola al quale venne assegnata nel 1924, presso l’Istituto Superiore Agrario di Perugia, la cattedra di Ecologia Agraria, la prima nel mondo».

Ma quel che più conta, come l’autore mette bene in evidenza, è che non si tratta di figure isolate. Accanto a Girolamo Azzi (1885-1969) si pone Alfonso Draghetti. I suoi lavori sulla circolazione della materia organica nell’azienda agricola, basati sulla concezione ecosistemica di Pietro Cuppari – altro autore dimenticato – risultano di importanza fondamentale sia per l’agricoltura biologica che per l’agroecologia, «tanto che – ricorda sempre l’autore – Fabio Caporali, professore ordinario di Ecologia Agraria presso l’Università degli Studi della Tuscia, individua nella tradizione italiana di studi agrari che porta da Cuppari a Draghetti le radici di questa disciplina. Nella figura di Draghetti troviamo quindi legate sia la storia dell’agricoltura biologica, con la sua attenzione alla materia organica del suolo e la sua ambizione di riforma della pratica agronomica, sia la storia dell’agroecologia moderna, basata sulla concezione agro-eco-sistemica dell’azienda agricola».

L’autore ha il merito di affrontare, a conclusione del suo meticoloso lavoro, le complesse questioni legate alle sfide che la biotecnologia, e in particolare gli ogm, e di recente la creazione delle piante costruite con le tecniche note con il termine New Breeding Techniques (nbt) o con New Genomic Techniques (ngt) – lanciano all’agricoltura organica o a quelle nuove agricolture che oggi trovano la loro più pregnante espressione semantica nel termine di agroecologia, l’unica forma di economia che dichiari sin nel suo nome la consapevolezza di agire entro un ecosistema. Non è possibile entrare nel merito di queste questioni a cui tuttavia l’autore fornisce delle risposte apprezzabili e persuasive, confermando il principio che «l’agricoltura biologica, e più in generale l’agroecologia, è meglio attrezzata dell’agricoltura industriale a fronteggiare e a cercare di mitigare la crisi climatica, i cui effetti negativi si ripercuotono in maniera diretta proprio sul settore agricolo e quindi sulla sicurezza alimentare».

Berton menziona giustamente la critica forse più persuasiva che sia stata mossa agli ogm, quella del genetista agrario Salvatore Ceccarelli, il quale mostra come l’antica pratica contadina di mescolare i semi, sostenuta e arricchita dai genetisti, sia in grado assai meglio delle piante geneticamente modificate di affrontare le sfide del caos climatico e degli attacchi parassitari. Il “miglioramento genetico partecipativo”, come egli lo chiama, quello realizzato in cooperazione dai contadini e dagli scienziati per creare il miscuglio più adatto all’ambiente locale, è anche un “miglioramento genetico evolutivo” perché si adatta progressivamente alle domande e alle sfide dell’ambiente naturale (Mescolate contadini mescolate: cos’è e come si fa la selezione genetica partecipativa, Pentagora, Savona 2016). Gli ogm riducono la biodiversità e rappresentano solo delle soluzioni temporanee che funzionano fino a quando tanto gli insetti che le erbe infestanti non organizzano la propria resistenza attaccando le monoculture create in laboratorio. Le policolture contadine sostenute e arricchite dalle concezioni dell’agroecologia, stanno elaborando pratiche, su cui qui non è possibile soffermarsi, che rappresentano la frontiera più avanzata per affrontare il riscaldamento climatico e i problemi che ne conseguono.

Ma è un’altra l’argomentazione fondamentale e irrefutabile con cui affermare che tutte le innovazioni tecnologiche messe in campo dall’agrobusiness (e dagli istituti di ricerca che ubbidiscono ai suoi interessi e alle sue logiche), sono strade in sostanza fallimentari. Beninteso, le innovazioni tecniche sono in genere benvenute quando realmente utili, ma esse sono surrogati di deficit sistemici e non possono aggirare il nodo strategico fondamentale. E questo nodo è il modo di produzione capitalistico. La necessità intima del modo di produzione capitalistico di produrre sempre di più a costi decrescenti per incrementare i profitti monetari degli investitori non è più compatibile con gli equilibri del pianeta. Perché l’agricoltura industriale deve continuamenteconcimare la terra con fertilizzanti chimici, usare diserbanti, consumare acqua in quantità crescenti, alterare il clima, rendere intrinsecamente sempre più innaturali i suoi prodotti.

«Il problema dell’insicurezza del cibo – è stato affermato, ma lo attesta una sterminata letteratura – è anche esacerbato in gravità ed estensione dalla degradazione del suolo. Questo è specialmente vero a causa dell’impoverimento della struttura del suolo e delle sue proprietà idrologiche, in combinazione con la riduzione in quantità e qualità del carbone organico del suolo, generato dal largo uso di pratiche di coltivazione estrattive» (R. Lal, B.A. Stewart (a cura di), World Soil Resources and Food Security, Routledge, London-New York 2012).

Dunque, l’agricoltura ispirata dal capitale, obbligata a pratiche sempre più estrattive, distrugge le basi della stessa vita agricola. E come se non bastasse occorre aggiungere che «i terreni in cui si utilizzano fertilizzanti azotati emettono protossido d’azoto, un gas serra 300 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. Ogni anno i suoli fertilizzati emettono più di 2 miliardi di tonnellate (in termini di anidride carbonica equivalente) di gas serra» (S.J. Scherr, S. Sthapit, Agricoltura e uso del territorio per raffreddare il pianeta. Worldwatch Institute State of the World 2009, Milano 2009).

Non è il caso di continuare. È ormai evidente che l’agricoltura capitalistica può continuare il suo corso sfruttando sempre di più il suolo, l’acqua, le risorse naturali, gli uomini. Mentre oggi, di fronte a un pianeta sconvolto dai saccheggi dell’economia contemporanea, per produrre cibo e salvaguardare la terra è necessaria una economia che combini produzione e cura, raccolti e rigenerazione della fertilità. Il libro di Berton rende merito a una grande ed epica storia, una vera avventura dell’intelligenza e della passione umana per il bene comune, e chiunque voglia sapere come si è arrivati all’agricoltura organica, biologica, biodinamica, agroecologica, alla nuova economia che è in grado di risolvere i problemi presenti e futuri dell’alimentazione dell’umanità, deve leggere le sue pagine.

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