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L’intelligenza artificiale come problema politico
Il primo problema che occorre affrontare discutendo di intelligenza artificiale è la definizione stessa di intelligenza. Appare incredibile come in tutte le discussioni che concernono i recenti sviluppi delle macchine “pensanti” questo stesso problema non venga affrontato in modo soddisfacente seppure mai venga anche solo accennato[1]. Cercheremo di affrontare il problema da un punto di vista materialistico e politico, sperando che il significato di questi termini possa emergere con chiarezza nel corso dell’esposizione.
Ci sono due posizioni al riguardo che ci sembrano entrambe deficitarie: da un lato, il rifiuto aprioristico di considerare autenticamente “intelligenza” ciò che viene prodotto dalla macchina, senza essere capaci di indicare perché e in che senso solo all’umano (o, al limite, al vivente) sarebbe possibile esercitare l’intelligenza; dall’altro, la svalutazione altrettanto aprioristica dell’“intelligenza” a mero processo generico di acquisizione e elaborazione di informazioni, così che, pur se con modalità differenti, qualsiasi macchina (o vivente) ne sarebbe dotato. Ci sono degli elementi di verità in entrambi i punti di vista: ad es. quando l’artista protesta definendo metaforiche espressioni come machine learning, “pensiero” e “creazione” da parte dell’AI in quanto esse occulterebbero un (mis)fatto semplice e grossolano: l’esistenza di un software che viola il copyright per riuscire a riprodurre e modificare opere d’arte senza consenso[2]; oppure quando si sottolinea che ridurre l’intelligenza alle modalità in cui essa si dà nell’umano sarebbe effetto di un volgare pregiudizio antropocentrico[3]. Nonostante ciò, qualcosa di essenziale nella nozione di intelligenza sfugge.
Per poco infatti che non ci si voglia arrestare ad un concetto spiritualistico di intelligenza appare del tutto evidente che il pensiero umano non esiste come facoltà isolata dalla dimensione corporea, né da quella sociale e che quindi ha implicitamente un correlato materiale che generalmente facciamo coincidere con il suo apparato strumentale. Questo significa che a prescindere dalla nostra definizione di intelligenza essa ha sempre la funzione di strumento, non importa se interno od esterno, in quanto necessita di una struttura oggettiva per esercitarsi. Questo è vero già nella forma della logica. Per poco che l’intelligenza superi la dimensione del puro bearsi di sé stessa, del vuoto pensamento dell’essere con dice Hegel[4], essa assume una conformazione che le dà inevitabilmente un corpo, un’articolazione. E quindi se questa forma primordiale della téchne – in forma fisica o simbolica – è qualcosa che si accompagna sempre all’esercizio del pensiero viene da chiedersi in che cosa dovrebbe consistere una intelligenza non artificiale.
D’altro canto, è essenziale sottolineare che la natura intrinsecamente sociale dell’intelligenza rende l’analisi di questo apparato un problema essenzialmente politico. E questo è l’aspetto che in ogni celebrazione dell’AI come semplicemente “altra” forma dell’intelligenza solitamente sfugge. Cercando di evitare le banalità dell’umanismo, dello spiritualismo e del conservatorismo questo modo di intendere l’AI è solitamente cieco rispetto a due problemi politici più radicali: in primo luogo, esso svaluta la natura essenzialmente sociale dell’intelligenza, considera cioè l’intelligenza attributo di un soggetto genericamente inteso e non di una relazione materiale tra soggetti determinati e tra questi soggetti e il mondo da essi prodotto[5]; in secondo luogo, e non casualmente, anche quando denuncia l’antropocentrismo dell’umanesimo tradizionale non ne denuncia le premesse e le conseguenze, cioè la persistente e occulta spinta al dominio sulla natura non-umana. Molta filosofia “post-umanista” è in realtà ancora vittima di un antropocentrismo pratico[6].
L’intelligenza artificiale non è però politicamente neutrale né per quanto riguarda il rapporto tra le classi sociali, né per quanto concerne il rapporto tra la società umana e le altre società animali. Essa nasce infatti nell’ambito di un paradigma epistemologico preciso, quello che intende applicare in modo integrale il meccanicismo alla sfera del pensiero e della vita. Il passaggio dagli animali-macchine di Cartesio all’uomo-macchina di La Mettrie è iscritto in un’esigenza di controllo dei processi naturali e sociali che opera attraverso una riduzione preventiva del vivente e del pensiero a processi calcolabili. Per quanto questo paradigma abbia avuto un’influenza fondamentale nella nascita della scienza moderna e nel superamento del pensiero magico, dell’animismo e dell’antropocentrismo e antropomorfismo tradizionali ha anche rallentato un’adeguata comprensione e definizione dei processi cognitivi, culturali, ecc. nel mondo animale. Solo negli anni ‘60 si è iniziato, con difficoltà, a riconoscere questo limite nel campo dell’etologia[7]. Fino a quel momento il modello dell’animale-macchina era invece considerato l’unico argine possibile allo spiritualismo. Perfino il marxismo, dalla II Internazionale fino allo stalinismo, pur rifiutando una generica identificazione tra meccanismi biologici e meccanismi sociali ha fatto resistenza verso tentativi di intendere il mondo animale in modo più articolato[8]. Dal comportamentismo di Turing fino alla cibernetica di Wiener, il progetto originario dell’intelligenza artificiale si muove nell’ambito di questo preventiva identificazione tra processi cognitivi e meccanismi fisicalistici[9]. Il tentativo di ricondurre tanto il vivente quanto il pensiero a sistema di segnali, a un processo determinabile in modo rigoroso in quanto fondato su meri rapporti di causa-effetto, azione e retro-azione, costituisce lo sfondo ontologico su cui lavora una nozione di intelligenza che vede l’umano e l’animale entrambi riconducibili a insiemi di processi automatici: la libertà (e dunque anche qualsiasi progetto emancipativo) appare qui necessariamente solo un vecchio arnese spiritualistico. Viene così completamente eluso il problema dell’intenzionalità di ciò che è intellegibile[10], della natura relazionale e artificiale – cioè collettivamente costruita – dell’intelligenza, viene espulsa alla radice la possibilità che l’intelligenza arrivi ad auto-definirsi in termini coscienti e universali come un “noi” al di là delle limitazioni classiste e speciste che attualmente ne irretiscono e condizionano lo sviluppo.
È vero che nel passaggio dalla cibernetica al machine learning[11]questo tipo di ingenua riduzione dei processi cognitivi a meccanismi elementari viene meno[12], ma ciò è vero solo perché questo nuovo paradigma permette una più fedele riproduzione del comportamento e delle capacità di previsione tipiche dell’umano lasciando cadere la ardua e forse impossibile impresa di una loro ricostruzione dall’interno. Le reti neurali funzionano meglio, non come i neuroni. L’importante, per parafrasare Turing, non è ciò che la macchina “sa” ma cosa “può fare”.
Questo ci indica che la direzione in cui occorre guardare per chiarire nella sua essenza il problema dell’intelligenza artificiale è quello dell’automazione: occorre cioè comprendere in che senso l’intelligenza si leghi alla sfera del lavoro umano. È qui che la “metafora” della macchina cessa di essere una mera analogia per diventare forza reale di trasformazione del lavoro e dell’umanità[13]. Ciò permette anche di porre le questioni su un piano storico-politico-economico piuttosto che ontologico e metafisico, cioè di intendere questi processi come caratteristici di uno specifico modo di produzione, non quindi definibili in modo astratto-universale. Al contrario, come vedremo, è solo collocando i fenomeni su questo sfondo materiale determinato che è possibile porre anche la questione dell’universalità di tali processi secondo una metodologia originariamente tracciata dal pensiero di Hegel e Marx e, oggi, nelle originali provocazioni di Reza Negarestani[14] e Benjamin H. Bratton[15].
Lavoro e dialettica dell’astratto
Cercheremo di definire in quanto segue l’intelligenza artificiale come la necessaria conseguenza di una specifica evoluzione del lavoro intellettuale sotto le condizioni del capitalismo avanzato. Occorre però anzitutto osservare che nel modo di produzione capitalistico la distinzione tra lavoro materiale e intellettuale è secondaria rispetto a quella tra lavoro astratto e lavoro concreto. Ed è tanto più importante ricordare questo in quanto nell’ambito della sinistra del secondo dopoguerra si sono fatte strada teorie che attraverso la definizione di “lavoro mentale” o “lavoro cognitivo” giungevano a porre nella digitalizzazione del mondo e dell’intelligenza una svolta epocale che sembrava richiedere specifici aggiornamenti anche dal punto di vista della teoria del valore e della prassi rivoluzionaria[16].
Il modo di produzione capitalistico si fonda sulla appropriazione da parte del capitale di lavoro astratto, ovvero di quel lavoro sociale complessivo che fluisce nei vari rami della produzione e che possiede le caratteristiche necessarie al processo di valorizzazione del capitale, tanto che è la stessa azione del capitale sulla società a rendere sempre più omogeneo alle proprie necessità questo lavoro. Il termine “astratto” sta qui ad indicare una serie di caratteristiche diverse ma tra loro connesse: la separazione dai mezzi di produzione, la subordinazione alle esigenze del capitale, la flessibilità della forza lavoro, cioè la sua capacità di adattarsi alla macchina in cui si oggettivano fasi del processo lavorativo.
“Astratto” quindi non significa solo “separato” ma indica (anche qui in senso profondamente hegeliano) il fatto che il carattere generale di questo lavoro, cioè il suo essere espressione della totalità sociale, esprime qualcosa di universale, seppuresolo in senso potenziale. Come vedremo, l’universalità va intesa come un processo che, attraverso la contraddizione e il conflitto, espande progressivamente il proprio ambito di validità: universale non è ciò che è dato una volta per tutte in una forma statica e trascendente la dimensione empirica, bensì ciò che diviene, l’universalizzazione è sempre un processo che anima e dinamizza l’empirico dall’interno. Questo è tanto più importante in quanto l’astrazione di cui dovremo parlare a proposito del lavoro intellettuale non è semplicemente una funzione del pensiero ma è costitutivamente innervata alla sfera materiale dei rapporti produttivi.
Il lavoro astratto è dunque il lavoro sociale ridotto a tempo di lavoro socialmente necessario, acquistato preventivamente dal capitale per poter fornire il valore aggiunto alle merci in vista del profitto. Il valore che viene infatti sintetizzato nel processo di produzione delle merci non è il valore d’uso del lavoro bensì il suo valore di scambio. Il valore d’uso del lavoro, ciò che lo rende utile e consumabile da parte del capitale, è semplicemente il processo di lavoro concreto che nel consumo di materiali e degli strumenti di lavoro permette la sintesi della merce e aggiunge quindi il valore di scambio dei materiali, degli strumenti e del lavoro stesso alla merce prodotta.
A ciò bisogna aggiungere che ogni lavoro ha sempre un aspetto materiale e intellettuale, ovvero il lavoro sociale si dispone in un continuum i cui punti estremi ideali sono rappresentati dalla pura materialità senza intelletto e dalla pura intellettualità senza materia: ma il lavoro reale si trova sempre in una qualche forma intermedia[17]. In prima approssimazione possiamo dire che “lavoro intellettuale” è quello in cui l’aspetto teorico ha la preminenza rispetto all’attività fisica che pur sempre ad esso si accompagna.
Al tempo stesso, stante tutto ciò che abbiamo detto finora, appare chiaro che il lavoro intellettuale è sempre una forma di lavoro concreto:esso possiede delle caratteristiche specifiche, delle qualità che ineriscono alla sua capacità di produrre valori d’uso, che lo rendono un esempio di quella generale attività misurata dal tempo di lavoro e produttrice di valore di scambio che è il lavoro astratto. In questo senso, il fatto che il lavoro intellettuale, tanto più quanto più è intellettuale, abbia a che fare con l’astrazione non deve trarre in inganno.
Per evitare confusione, queste due diverse nozioni di astrazione vanno anzitutto distinte per poi essere unificate. Perché “astrazione” indica la considerazione di oggetti dal punto di vista universale, cioè sganciata dal loro essere particolare, dunque alla luce di leggi e principi che spieghino le cause o la struttura di quegli stessi oggetti. Ma va anche notato che questa nozione epistemologica di astrazione non è senza riferimento a quanto siamo venuti dicendo finora. Quando l’oggetto di questa considerazione intellettuale è la produzione non degli oggetti naturali bensì di quelli sociali, ad es., abbiamo a che fare con un lavoro intellettuale concreto che riflette sul lavoro astratto (la critica dell’economia politica). Quando invece la riflessione avviene sul lavoro concreto abbiamo a che fare con la teorizzazione e il perfezionamento tecnico-ingegneristico della specifica attività lavorativa che diventa oggetto di tale riflessione. Torneremo più tardi su questo aspetto per definire il problema dell’autonomia del lavoro intellettuale.
La questione decisiva per ora è che anche il lavoro intellettuale, in quanto lavoro concreto che entra nel processo di produzione capitalistico, è astratto nel senso che si è visto: separato da condizioni di lavoro che lo rendono dipendente e utile al capitale nella sua forma più fluida, adattabile alle esigenze produttive. Il lavoro intellettuale può essere cioè consumato dal capitale solo oggettivandosi nelle due forme previste da quello: come sintesi che finisce nella produzione di una determinata merce culturale e come processo di pensiero che si meccanizza e autonomizza dal pensiero in quella specifica merce che è lo strumento tecnologico.
Nel primo caso il suo valore d’uso coincide, come abbiamo già detto, con l’attività che sintetizza nella produzione il valore di scambio della materia e dello strumento aggiungendovi il proprio. Nel secondo caso, il capitale, oltre all’interesse diretto della produzione di una merce che incamera plusvalore ha anche un interesse indiretto nella creazione di una merce – lo strumento tecnologico – che gli permetterà di ridurre l’investimento di capitale variabile, cioè la manodopera e/o i salari.
Ciò che accade in questo ultimo caso è che il lavoro intellettuale lavora alla progressiva esautorazione del lavoro intellettuale vivo dal processo di produzione delle merci: e questa esautorazione del pensiero dal processo di lavoro non vale solo per la meccanizzazione del lavoro materiale ma anche per quella dello stesso lavoro intellettuale. Se, come dice Lukács, il capitalismo tende a porre il lavoratore in una condizione sempre più “contemplativa”[18] nei confronti della macchina in cui si oggettivano processi lavorativi che prima richiedevano il suo sforzo fisico e cognitivo, questo significa che il lavoro intellettuale che lavora all’automazione del lavoro intellettuale stesso si estranea da sé e finisce per contemplare dall’esterno la macchina che pensa al posto suo. Ciò che accade in un certo senso da sempre – prima ancora che nelle macchine calcolatrici già nell’abaco – ma che sta raggiungendo livelli di raffinatezza e pervasività senza precedenti. C’è da chiedersi se ciò che accade oggi nell’AI da questo punto di vista rappresenti effettivamente un salto qualitativo e quali conseguenze politiche esso possa avere.
Il consumo della merce intellettuale
L’aspetto “ideale” o “immateriale” del lavoro intellettuale ha a che fare con la peculiare configurazione dei rapporti tra lavoro, materia e strumento di lavoro. Da un certo punto di vista si potrebbe osservare come la materia su cui interviene il lavoro intellettuale è a sua volta il prodotto di lavoro intellettuale precedente, ovvero l’insieme di rappresentazioni sulla società e la natura che costituisce la cultura nel suo complesso e nei suoi diversi ambiti di esperienza e linguaggio. Intervenendo su questo materiale il lavoro intellettuale produce valori d’uso per il consumo intellettuale, ovvero nuove teorie, modelli, metodi e oggetti culturali di vario tipo.
Questi prodotti sono fruibili però solo in quanto oggettivati in merci culturali. Chiaramente queste merci vengono prodotte per il loro valore di scambio, il capitale è totalmente indifferente al loro contenuto: può tranquillamente produrre testi rivoluzionari e anticapitalisti. Ma c’è un tipo di merce intellettuale che invece interessa al capitale non solo per il suo valore di scambio ma anche per il suo valore d’uso: si tratta di tutte le teorizzazioni tecniche, ingegneristiche, volte all’efficientizzazione del processo di lavoro. In questo caso il valore d’uso del lavoro intellettuale è diretto al consumo del lavoro da parte del capitale.
Qui la materia del lavoro intellettuale diventa il mezzo, lo strumento di lavoro stesso, sia nella sua componente materiale (la macchina) che in quella ideale (il metodo, l’algoritmo). È importante sottolineare infatti due cose. Da un lato, che non è possibile separare nettamente questi due aspetti dello strumento di lavoro intellettuale, perché, in un certo senso, il metodo è una macchina astratta, così come la macchina un metodo materializzato. E già qui si prefigura come l’algoritmo, in quanto serie di atti determinati da una regola, costituisca una sorta di “catena di montaggio del pensiero”[19]. Dall’altro, che il mezzo del lavoro intellettuale non è completamente sganciabile dall’apparato produttivo, cioè dal livello delle forze industriali raggiunto in un determinato momento storico.
Il valore d’uso della merce forza-lavoro intellettuale impiegata nei processi di automazione è volta alla produzione di processi tecnologici – tra cui l’elaborazione di algoritmi – vendibili a loro volta come merci il cui valore d’uso è la riduzione della forza-lavoro e l’intensificazione delle sue potenzialità produttive. Si tratta di un investimento che trasforma il bisogno di capitale variabile in capitale costante. L’automazione dei processi cognitivi riduce cioè la necessità di forza-lavoro intellettuale viva a favore della sua morta oggettivazione: da questo momento è il tempo di lavoro incamerato nell’algoritmo che entra a determinare il valore delle merci culturali costruite per suo tramite non più come forza-lavoro intellettuale (capitale variabile) ma come strumento/materia del processo produttivo (capitale costante).
Ciò mostra come l’aspetto immateriale del processo sia in realtà solo apparente: si tratta a tutti gli effetti di un meccanismo (dipendente da un sostrato industriale materiale) che incamera processi cognitivi tradotti in sequenze di segnali input-output capaci di riprodurre/codificare in senso fisico un sistema di regole astratte. Lavorando su materie e strumenti sempre più digitali, il lavoro intellettuale non diventa più immateriale, anzi, tanto più si oggettiva nell’apparato tanto più si materializza. La digitalizzazione aumenta anziché diminuire la dipendenza del lavoro intellettuale dall’apparato produttivo che costituisce la base materiale del mondo digitale. L’automazione dei processi cognitivi è inseparabile da questo loro innestarsi sulla base materiale dei rapporti produttivi che ne garantisce al tempo stesso il potenziamento e la dipendenza.
L’apparato produttivo inerisce perciò all’attività intellettuale determinandone le possibilità, l’orizzonte di movimento e di successo. Mano a mano che il dominio del capitale avanza nella società, spezzando le resistenze del fronte del lavoro, egemonizzando il discorso pubblico con la retorica vecchio stile dell’efficienza liberista e introducendo innovazioni high-tech a ritmo vertiginoso, l’esercizio del lavoro intellettuale si trova totalmente in balia del meccanismo modellante del capitale. Esso trova sempre più difficoltà a svolgersi in forma autonoma, totalmente sganciato da tale meccanismo (ammesso che prima potesse farlo[20]).
Per comprendere questo aspetto occorre articolare le diversi componenti della produzione intellettuale nel suo complesso. Essa necessita infatti da un lato della massa della(a) merce culturale e dall’altra di quella della (b) merce-lavoro (intellettuale). La prima è suddivisa a sua volta in ciò che potremmo chiamare (a1) la materia del lavoro intellettuale e (a2) negli strumenti/metodi di lavoro. Si tratta in entrambi i casi di lavoro intellettuale morto, congelato in testi, opere, manufatti prodotti per rispondere a bisogni di tipo intellettuale, culturale, simbolico ecc., cioè come valori d’uso, e diffusi grazie alla loro trasformazione in valori di scambio nel processo produttivo e di circolazione del capitale. La massa della merce lavoro è a sua volta divisa (b1) nel lavoro materiale vivo e (b2) nel lavoro intellettuale vivo. Se ci concentriamo sul contributo che quest’ultimo offre alla sintesi delle merci culturali osserviamo che esso interviene sul lavoro intellettuale morto per “ravvivarlo” (criticarlo, interpretarlo, aggiornarlo, modificarlo, riscriverlo ecc.). In questo consiste la sua produzione di valori d’uso. Non ha senso per noi pagare lavoro intellettuale che si limiti a ripetere il già noto o che produca uno sterile esercizio meccanico che, appunto, non necessita di sforzo intellettuale per essere prodotto. Ma è solo per questo che anche per il capitale fare a meno del lavoro intellettuale non avrebbe senso: mentre per la sua finalità intrinseca sarebbe l’ideale poter ottenere gli stessi risultati senza utilizzo di forza-lavoro intellettuale.
L’investimento di capitale fisso garantisce infatti da sempre la riduzione relativa del lavoro intellettuale vivo. Nel senso di esautorare sempre più il lavoratore materiale dal dover intervenire in modo cosciente nel processo produttivo, automatizzandone il più possibile l’attività psico-fisica[21]. Con l’intelligenza artificiale si arriva alla riduzione assoluta del lavoro intellettuale, nel senso di una riduzione consistente della sua incidenza sul lavoro sociale complessivo e una conseguente disoccupazione intellettuale di massa[22].
Autonomia, socializzazione, conflitto
La riduzione delle prestazioni intellettuali nel processo lavorativo è una costante dello sviluppo capitalistico. L’aspetto più appariscente e superficiale di tale riduzione, così come viene definita dal pensiero reazionario e dalla sinistra “luddista”, è la denuncia della meccanizzazione intesa come trionfo del disumano sull’umano, del quantitativo sul qualitativo, di ciò che è ripetitivo e prevedibile su ciò che sarebbe creativo e imprevedibile ecc. Si tratta di una lettura non adeguata ai processi in atto: il problema della “degradazione del lavoro”[23] va infatti intesa in termini di una perdita di autonomia da parte della classe lavoratrice nei confronti della produzione, così come la “qualità” del lavoro non risulta semplicemente perduta ma alienata[24], sottoposta al dominio della classe imprenditoriale.
È chiaro che nella meccanizzazione dei processi industriali ciò che il lavoratore perde è anzitutto il controllo sulla propria attività lavorativa, sugli scopi, i tempi e i modi della propria prestazione. È proprio l’aspetto intellettuale del suo lavoro che viene sempre più appropriato, attraverso la macchina, dal management. Il sapere è alienato nella macchina: ciò significa che le conoscenze (le skill intellettuali) richieste per comprendere il meccanismo produttivo sono estranee al lavoratore, sia perché diminuisce la porzione di sapere a lui accessibile per illuminarne il funzionamento sia, soprattutto, perché egli non può guidarlo verso scopi autonomamente posti ma solo accompagnarlo là dove il management ha prestabilito esso debba andare[25]. A maggior ragione ciò appare una forma di oppressione laddove si tratta di lavoro intellettuale in senso stretto: perché tale processo mira a eliminare le caratteristiche intellettuali del lavoro intellettuale e renderlo, dunque, quanto più possibile simile al lavoro materiale.
Per definire in modo rigoroso questa dinamica è necessario però demitizzare l’attività intellettuale nella sua presunta autonomia rispetto al lavoro sociale complessivo. In particolar modo la figura dell’intellettuale che, per antonomasia, pretende incarnare un’attività che sembra svolgersi in un altrove rispetto ai processi materiali della quotidianità capitalistica. Tuttavia, con l’imporsi della stagione neoliberista, il crollo dell’iniziativa pubblica, la finanziarizzazione dell’economia, la stessa differenza tra industria culturale e ricerca accademica tende ad assottigliarsi fino all’irrilevanza[26]. Il mercato delle idee – ovvero il mercato delle merci culturali che veicolano idee – diventa sempre più il luogo in cui si decide della rilevanza sociale dei prodotti del lavoro intellettuale.
Ciò non è senza ragione. Perché l’apparato produttivo e il mercato come sfera di mediazione dei bisogni costituiscono anche delle forme oggettive di socializzazione. Non importa quanto possiamo considerare imperfetto e contraddittorio questo processo di socializzazione che il capitalismo produce intrinsecamente, esso rappresenta un aspetto ineludibile di qualsiasi ipotesi di trasformazione razionale delle relazioni industriali e dei rapporti tra le classi. Il lavoro intellettuale che si arresta al di qua del livello raggiunto dall’apparato produttivo rappresenta una sopravvivenza della dimensione individuale, artigianale e premoderna al livello di esercizio del pensiero.
Il lavoro intellettuale va compreso rispetto a questa sua posizione nei confronti dell’apparato produttivo, sia nei singoli rami che nel suo complesso. Sembra che una certa dose di auto-riflessività sia caratteristica del lavoro intellettuale, sia di quello operativo che di quello più speculativo. Da questo punto di vista, anche il lavoro intellettuale di tipo operativo volto al perfezionamento dell’automazione è un tipo di pensiero autoriflessivo, per quanto, come abbiamo già detto, esso si limiti a riflettere sul lavoro concreto. Appartiene invece ai compiti del lavoro intellettuale speculativo riflettere sul lavoro astratto, cioè sulle caratteristiche del lavoro generale e sulle relazioni sociali che ne definiscono la possibilità e la pensabilità oggi.
Nel caso del pensiero speculativo accade così che la distinzione rigida tra materia e strumento del pensiero diventi problematica[27]. Ma ciò determina anche la fallacia ideologica di questo pensiero che, come osserva Althusser, è dovuta ad una rappresentazione distorta del proprio rapporto con la base materiale[28]. In altri termini, quanto più il pensiero si ritiene autonomo da quella base materiale, quanto più ritiene di potersi/doversi pensare come alternativo all’apparato produttivo, tanto più si condanna all’irrilevanza e alla celebrazione della propria vuota negatività, della propria astratta libertà. Viceversa, è solo dove il pensiero giunge a scoprire la radice della propria dipendenza reale dall’apparato produttivo che intravede un contenuto positivo alla libertà in quanto autonomia reale non da ma di quell’apparato dal dominio del capitale.
Questa particolare dialettica dell’autonomia si ripercuote nella struttura più intima del lavoro intellettuale. Come il lavoro-vivo materiale è attaccato ad un corpo i cui bisogni/relazioni, la cui vita, non è direttamente coinvolta nel processo produttivo, cioè è di per sé improduttiva, ma che il capitale cerca di ridurre al minimo in termini di tempo e attività “libere” (sussumendo entrambi nelle sfere della produzione e del consumo), così l’attività del pensiero che si accompagna all’erogazione di lavoro intellettuale si divide in una parte produttiva ed una improduttiva, cioè il libero movimento non finalizzato a scopi estrinseci, potremmo dire la vita della mente. Anche in questo caso, il capitalismo esprime la necessità di sussumere quanto più possibile questo tempo e questa attività nella sfera produttiva e in quella del consumo. Il capitale ha bisogno di questo residuo che non si lascia assimilare completamente e che pure è necessario per l’estrazione di lavoro: esso non esiste senza quel corpo e quella mente che esistono invece per sé stessi.
C’è da dire però che ove ciò non accade, ove il pensiero aspiri a muoversi in una zona “altra” rispetto a queste sfere esso è solo astrattamente libero: si tratta in effetti di una libertà negativa, non socializzata e quindi di fatto non conflittuale. La libertà del pensiero, così come quella del tempo, diventa reale solo se opera negativamente dall’interno della sussunzione capitalistica, opponendovisi e ponendo la necessità del controllo della sfera della produzione[29]. La subordinazione del lavoro intellettuale si radica così in quella del lavoro materiale. L’autonomia è cioè un processo scisso perché la stessa chiarezza della visione intellettuale che la pensa è condizionata dalla forza che materialmente si oppone alla subordinazione nella sfera produttiva. Sono due parti di un intero che non combaciano perfettamente. La possibilità stessa del pensabile, l’ordine del razionalmente possibile, è condizionata dalla libertà d’azione che il lavoro materiale realizza politicamente ed economicamente nella propria sfera.
I compiti politici del lavoro intellettuale
Il “controllo sul lavoro” da parte della macchina è un’astrazione che cela la sua natura di classe: come il progresso tecnologico non avviene per il bene dell’umanità, così esso non può avere una volontà malvagia. Anche l’idea che le macchine stiano “soggiogando” gli esseri umani è così un effetto del feticismo del capitale[30]. Dire che l’AI “vive” con noi, “pensa”, entra “in relazione” è un modo per nascondere le relazioni sociali di cui la macchina è effetto[31]. Il “potere alieno” non è quello della macchina sul lavoratore ma quello della proprietà della macchina sul lavoratore[32]. La fase inaugurata dal capitalismo digitale sembra in questo modo retroagire sulla nozione stessa di razionalità. Come osserva Braverman, le macchine dotate di sensori che si adattano ad un’informazione che viene dall’esterno rovesciano la specializzazione tipica della prima fase dell’industrializzazione e, emancipandosi da un uso particolare,ristabiliscono “l’universalità della macchina”[33]. L’AI incarna in un certo senso la forma definitiva di macchina universale il cui automatismo è inversamente proporzionale all’autonomia del lavoro intellettuale, la sua universalità è però sempre e soltanto quella dei fini particolari posti dalla classe padronale. Non esiste alcun soggetto, né processo di pensiero neutrale, astrattamente universale. Da ciò deriva che quanto più viene sottratta al lavoro intellettuale la propria autonomia e capacità di autodeterminarsi tanto più esso è costretto a trovare nel chiarimento del proprio condizionamento generale la forma reale e universale dell’autonomia in quanto autodeterminazione dell’umanità al di là del modo di produzione capitalistico. Il pensiero che si vuole libero è spinto dal proprio stesso condizionamento materiale alla lotta di classe nella sfera della teoria.
Il capitale appare come imago diabolica della libertà, l’autonomia di un soggetto assoluto che pone sé stesso, che pone i propri presupposti. Ma assume anche la forma del “feticcio automatico”[34], della realtà invertita in cui le cose agiscono per forza propria e costringono gli esseri umani a seguirne il movimento. Questi rappresentano i due momenti di cui sono costituite la libertà e la ragione umane: la capacità di autodeterminarsi, dunque anzitutto la capacità negativa di togliere i condizionamenti all’agire, ma anche quella positiva di oggettivarsi, di darsi una forma condivisa che si muova in direzione dell’universale[35]. Il capitale che sussume la vita sotto il suo controllo ne irretisce le possibilità di sviluppo e di autodeterminazione: l’autòs di questo processo, il centro attorno a cui tutto ruota, non è la nostra umanità in divenire ma il capitale stesso. Il capitalismo è il processo in cui l’estraneazione dell’umano dalla natura assume la forma dell’estraneazione dell’umanità da sé stessa. Ma in entrambi i casi l’estraneazione non indica una perdita di un’unità perduta quanto piuttosto un’articolazione al posto della confusione, una negazione determinata che sola rende possibile una sintesi nuova, più ampia e universale, più razionale e concreta[36].
Lo stesso capitale come soggetto assoluto realizza una libertà negativa, una continua liberazione dai propri condizionamenti; il capitale come feticcio automatico una razionalità positiva, volta al costante perfezionamento di sé stessa. Ma in entrambi i casi il fine che esso realizza non è umano. Esso anzi riduce la libertà e la razionalità che si esprimono nel lavoro umano: quest’ultimo è costretto a seguire un movimento che non è suo, un automatismo che non è suo perché essi non obbediscono ai fini posti dai produttori associati nel proprio rapporto con la natura e tra di loro. In tal modo il capitale sussume il lavoro sotto il proprio fine, ordinandolo e modellandolo a proprio vantaggio. Nel fare questo lo socializza nella forma dell’irrazionale, cioè di una generalità/universalità distorte dal proprio interesse privato, particolare.
L’adattabilità del lavoro alla macchina non facilita solo l’accelerazione del ciclo del capitale ma implica anche la subordinazione del lavoro vivo alla finalità estrinseca dell’automatismo incarnato dal capitale. Ogni altro tipo di finalità, anche laddove è immaginabile diventa irrealistica, utopica di fronte allo strapotere dell’apparato produttivo. Il senso di impotenza intellettuale degli individui e delle classi è inversamente proporzionale alla crescita della potenza di tale apparato produttivo. Ma un senso razionale ed una libera finalità potrebbero darsi solo presupponendo un cambiamento dei rapporti di produzione.
All’alba della rivoluzione cibernetica Wiener scrisse: “la prima rivoluzione industriale […] rappresentò la svalutazione delle braccia umane di fronte alla concorrenza della macchina. Non c’è paga, con la quale un manovale americano possa vivere, tanto bassa da competere con il costo del lavoro di una scavatrice. La rivoluzione industriale moderna è analogamente legata alla svalutazione del cervello umano” [37]. Analogamente, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale non ha come fine l’automazione integrale (che comporterebbe una perdita progressiva dal punto di vista del saggio di profitto) ma la limitazione delle possibilità di movimento e di autodeterminazione del pensiero. L’aumento dell’automazione restringe il campo di possibilità del pensabile perché aumenta la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione.
Per questo l’intelligenza artificiale non rappresenta un problema tecnologico ma politico. La celebrazione acritica dell’intelligenza artificiale è una legittimazione del furto sistematico della capacità creativa e organizzativa delle classi subalterne in nome di quella razionalità folle del capitale che, spacciandosi per progresso “umano”, depreda ciecamente la natura. Ma questa stessa consapevolezza rende debole e di retroguardia anche la difesa della proprietà intellettuale contro l’aggressione perpetrata dal capitale digitalizzato: l’artista che di fronte al capitale accampa in modo miope il proprio diritto alla proprietà invece di contestare questo stesso diritto, lavora inconsciamente alla distruzione della propria stessa umanità.
[1] Ringrazio l’amico Michele Dal Lago per aver attirato la mia attenzione su questo punto e per i molti suggerimenti datomi nella stesura di questo articolo.
[2] Lorenzo Ceccotti intervistato da Luca Tremolada, in Chi salverà la creatività (e i creativi) dai Big dell’intelligenza artificiale?, su Info Data, 10 marzo 2023.
[3] C. Gershenson, Intelligence as Information Processing: Brains, Swarms, and Computers, in “Frontiers in Ecology and Evolution”, 18 ottobre 2021.
[4] G. W. F. Hegel, Scienza della Logica, Laterza, Roma-Bari 1988, vol. I, p. 70.
[5] Un approccio atomistico e riduzionistico classicamente rappresentato in M. Minsky, Why Peolpe Think Computers Can’t, in “AI Magazine”, vol. 3, n. 4, Autunno 1982.
[6] Cfr. C. Wolfe, Animal Rites American Culture, the Discourse of Species, and Posthumanist Theory, University of Chicago Press 2003; Z. Weisberg, “The Broken Promises of Monsters: Haraway, Animals and the Humanist Legacy”, in Journal for Critical Animal Studies, Volume VII, Issue II, 2009; C. Wolfe, What Is Posthumanism?, University of Minnesota Press 2013; J. Donovan, Animal Ethics, the New Materialism, and the Question of Subjectivity, in A. Matsuoka – J. Sorenson (a cura di), Critical Animal Studies. Toward Trans-Species Social Justice, Rowman & Littlefield, Lanham 2018, pp. 257-274.
[7] Cfr. il classico D. R. Griffin, L’animale consapevole, Bollati Boringhieri, Torino 2017. Per una ricognizione aggiornata sull’etologia contemporanea cfr. R. Marchesini, Intelligenze plurime. Manuale di scienze cognitive animali, Peridsa, Bologna 2008 e Id., Etologia cognitiva. Alla ricerca della mente animale, Apeiron, Bologna 2018.
[8] La sottile intesa tra destra e sinistra in questa svalutazione e riduzione della natura necessiterebbe di una ricostruzione che tenesse in considerazione la storia del dopoguerra: una visione deterministica che corrispondeva tanto alla tendenza liberista – che celebra, sì, la libertà individuale ma riconosce la società come esisto di meccanismi “naturali”, ciechi e ingovernabili – quanto a quella stalinista che privilegia i processi burocratici a scapito della agency della classe lavoratrice. Non a caso, la cultura liberale e reazionaria accusava i sovietici di “robotizzare” l’umano riducendolo a macchina senz’anima (Invasion Of The Body Snatchers, Rocky IV), quella stalinista accusava la cultura borghese di “animalizzare” l’uomo riducendolo a coacervo di istinti irrazionali. Cfr. M. Maurizi, For the Critique of Political Anthropocentrism: Italian Marxism and the Animal Question, in F. Cimatti – C. Salzani (a cura di), Animality in Contemporary Italian Philosophy, Palmgrave Macmillan, 2020, pp. 159-184.
[9] E. K. Larson, The Myth of Artificial Intelligence. Why Why Computers Can’t Think the Way We Do, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-Londra 2021.
[10] R. Negarestani, Intelligence and Spirit, Urbanomic Media-Sequence Press, Falmouth/New York, 2018, p. 24.
[11] Per un primo orientamento sul tema cfr. E. Alpaydin, Machine Learning: The New AI, The MIT Press Essential Knowledge Series, 2016; P. Benanti, Le Macchine sapienti – Intelligenze artificiali e decisioni umane, Marietti 2018; S. Shalev-Shwartz – S. Ben-David, Understanding Machine Learning – From Theory to Algorithms, Oxford University Press, 2014; T. J. Sejnowski, The Deep Learning Revolution, The MIT Press, Londra 2018.
[12] E. K. Larson, The Myth of Artificial Intelligence, cit., pp. 48 e sgg.
[13] H. Braverman, Labor and Monopoly Capital. The Degradation of Work in the Twentieth Century, Monthly Review Press, New York 1974, n. ed. 1998, p. 124.
[14] L’idea sotto proposta che la razionalità sia una forma di vita determinata da strutture materiali di tipo sociale andrebbe confrontata con analoghe intuizioni di R. Negarestani nel suo Intelligence and Spirit, cit.
[15] Il concetto di “universale” viene nel presente testo in parte a sovrapporsi con quello di “planetarietà” di Bratton. Cfr. H. Bratton, The Terraforming, 2019.
[16] Una posizione recentemente ribadita da V. Pallara, L’algoritmo nelle trame del lavoro immateriale, in “Lo Sguardo. Rivista di filosofia”, N. 34, 2022 (I) – Algoritmo, pp. 273 e sgg.
[17] Un lavoro privo di qualsiasi skill non esiste: l’aspetto intellettuale è sempre presente e ogni lavoro richiede un minimo di conoscenze e di addestramento. H. Braverman, Labor and Monopoly Capital, cit., p. 300.
[18] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1991, p. 116.
[19] M. Maurizi, L’artista nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in “Policlic” n. 21, marzo 2023.
[20] H. Braverman, Labor and Monopoly Capital, cit., p. 114.
[21] Ibid.
[22] Le previsioni del Parlamento Europeo sugli effetti prodotti dall’AI sul mercato del lavoro sono ambigue ma cautamente ottimistiche: Artificial Intelligence: threats and opportunities, rapporto del Parlamento Europeo, su europarl.europa.eu, aggiornato al 4/5/2022 ore 16.15. Ovviamente, non si fa menzione di quanto un eventuale aumento finale dei tassi di occupazione sarebbe compensato, negativamente, da un arretramento delle possibilità di autodeterminazione della classe lavoratrice rispetto ai processi produttivi.
[23] H. Braverman, Labor and Monopoly Capital, cit., pp. 313 e sgg.
[24] V. Rieser, La qualità alienata, in “La rivista del Manifesto”, 50, pp. 5-15.
[25] H. Braverman, Labor and Monopoly Capital, cit., p. 295
[26] Segnali diversi ma convergenti di tale tendenza sono le riforme universitarie, le dinamiche publish or perish, la commercializzazione della ricercae i fenomeni di mediatizzazione del sapere (Academic influencer, “pop philsophy” ecc.). Cfr. R. Bellofiore – G. Vertova (a cura di), Ai confini della docenza. Per la critica dell’università, Accademia University Press, Torino 2018; H. Radder (a cura di), The Commodification of Academic Research: Science and Modern University, University of Pittsburgh Press 2010.
[27] Ciò avviene anche perché lungi dal riflettere sui fini particolari l’attività intellettuale che riflette sul proprio ruolo all’interno della compagine sociale riflette sul fine di quest’ultima e non può trovarlo razionalmente che in sé stessa, ovvero nell’autodeterminazione dell’umanità come soggetto libero. Cfr. R. Negarestani, Intelligence and Spirit, cit.
[28] L. Althusser, Ideologia e apparati ideologici di Stato, in Id., Freud e Lacan, Editori riuniti, Roma 1981, p. 99 e p. 101.
[29] La meccanizzazione integrale del lavoro, l’“idea teorica” alla base del management – in cui non tanto e solo il singolo essere umano ma soprattutto la loro interazione è descrivibile in termini meccanici – assume per principio che l’operaio sia docile e non si ribelli alla propria condizione lavorativa. H. Braverman, Labor and Monopoly Capital, cit., p. 124.
[30] Ibid., p. 133.
[31] “La macchina, il mero prodotto del lavoro e dell’ingegno umani, ideata e costruita dagli umani e modificabile da questi a proprio piacimento, viene vista come un attore indipendente, partecipe delle attività sociali umani. Le viene conferita vita, entra in “relazioni” con i lavoratori, relazioni fissate dalla sua stessa natura, è dotata del potere di dare forma alla vita dell’umanità e, talvolta, le vengono perfino attribuite intenzioni nei confronti della specie umana”. Ibid., p. 158.
[32] Ibid., p. 134.
[33] Ibid., p. 132.
[34] R. Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica, Rosenberg & Seiller, Torino 2020, p. 141
[35] R. Negarestani, Intelligence and Spirit, cit., p. 6.
[36] In questo senso, come osserva Negarestani, “viviamo nella preistoria dell’intelligenza”. Ibid., p. 492.
[37] N. Wiener, La cibernetica, cit., p. 53.