La Rete Italiana Pace e Disarmo (RIPD) è nata il 21 settembre 2020 dalla confluenza di due organismi storici del movimento pacifista italiano: la Rete della Pace (fondata nel 2014) e la Rete Italiana per il Disarmo (fondata nel 2004). Al momento della nascita della nuova Rete le organizzazioni aderenti erano più di cinquanta estremamente variegate, provenienti certamente dal mondo della nonviolenza, del pacifismo e dell’antimilitarismo, ma anche dal sindacato, dall’ambientalismo, dal mondo religioso – del cattolicesimo soprattutto, ma non solo – e dalla tradizione solidaristica e del mutuo soccorso a testimonianza di un impegno attivo e di una visione ampia e fra le più capaci di tenere insieme la complessissima prospettiva di crisi della contemporaneità. L’11 e 12 marzo 2023 si è svolta a Bologna l’assemblea annuale della Rete, che ha permesso il confronto e l’approfondimento su tre linee di indirizzo legate ai temi dell’Europa (Cosa è questa Europa), dell’Agire per la Pace e delle relazioni fra Società, economia e ambiente. Dei tre corrispondenti documenti prodotti dall’Assemblea di Bologna, per la vicinanza e concordanza rispetto ai temi di “Altronovecento”, riprendiamo qui la bozza dedicata a “Società, economia, ambiente”.
Indice
Una premessa
Le nuove profonde connessioni internazionali sia politiche che economiche e militari nate nel dopoguerra, hanno indirizzato l’intero pianeta e l’intera umanità su un futuro irreversibilmente comune. Ormai la famiglia umana è legata a un’unica sorte, che può essere un comune sviluppo o una comune distruzione. In bene o in male, quello che avviene in qualunque luogo della terra si ripercuote sull’intera umanità. Di questa realtà oggettiva, l’umanità deve sempre prendere più coscienza. In realtà questa visione era stata alla base della nascita delle Nazioni Unite: pur mantenendo il principio inviolabile di sovranità dei singoli stati, e nascendo proprio come convenzione programmatica pattizia fra stati sovrani, sia nella carta del 1945 sia nella successiva dichiarazione universale dei diritti dell’uomo pone alla base del patto di pace il riconoscimento dei diritti dell’uomo, intendendo l’uomo come ogni essere umano o ogni membro della famiglia umana. Con ciò si riconobbe il fatto della crescente interdipendenza fra stati, e la necessità di organizzare tale interdipendenza a determinate finalità comuni. La convivenza deve ormai essere concepita come convivenza del genere umano, e il traguardo verso cui questa convivenza deve tendere è il bene comune del genere umano. La nuova polis che è nata tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, non doveva essere concepita come somma di stati, ma come famiglia umana, costituita tale da finalità comuni e da perseguirsi in comune.
Il modello di sviluppo non regge più
Concentrazione della ricchezza
I fatti degli ultimi tempi, lasciano presagire che le prospettive nate nel 1945 dopo la fine della II guerra mondiale, sono state disattese e l’ora della crisi più grande è arrivata. Oltre ai conflitti aperti e che si sono sempre susseguiti dopo il 1945, una riflessione va fatta su cosa ha prodotto il sistema economico-finanziario capitalistico, unico sistema rimasto in piedi. Secondo i calcoli di un gruppo di economisti[1] l’80% delle partecipazioni delle società quotate in borsa è controllato dal 2% degli azionisti. Questa enorme centralizzazione dei capitali determina anche un accentramento del potere politico in poche mani, trasformando le democrazie in oligarchie.
Super-potenze economiche e militari
Il controllo dei mercati, delle risorse energetiche, dello spazio, delle tecnologie da parte delle super-potenze, come gli Stati Uniti d’America, la Cina, la Russia (anche se in minor parte ma con grandi ambizioni) ed il primato dei profitti imposto dalle multinazionali sono all’origine dei conflitti armati. I tentativi delle economie emergenti di creare un sistema di multipolarismo economico e politico, trova nelle super-potenze il principale ostacolo e nemico pronto a ricorrere a misure protezionistiche o scatenare nuovi conflitti armati pur di mantenere le proprie sfere d’influenza geopolitiche ed economiche.
Diseguaglianze e povertà crescono
Sin dal famoso libro “I limiti dello sviluppo” del 1971, pubblicato in Italia l’anno successivo, era chiaro che il progressivo esaurimento di risorse fondamentali (petrolio, gas, carbone, ma anche metalli) per il modello di sviluppo dei paesi più ricchi, li avrebbe indotti ad attrezzarsi per reperire queste risorse con ogni mezzo, commerciale, finanziario e militare. E così è avvenuto.
Non è un caso che le guerre moderne, ormai dal dopoguerra ad oggi, sono combattute per garantirsi materie prime e fonti energetiche, spesso per interposta nazione.
La povertà e le disuguaglianze sono in crescita: nel biennio 2020-2021 l’1% più ricco del pianeta si è appropriato di quasi 2/3 della ricchezza prodotta nel medesimo periodo, mentre le 95 maggiori multinazionali nel campo dell’energia e dell’agro-business hanno più che raddoppiato i profitti rispetto al biennio precedente.
Il pianeta e l’umanità soffrono
L’aria, le falde acquifere e gli stessi oceani sono sempre più inquinati, i ghiacciai si sciolgono, i cambiamenti climatici procedono a velocità senza precedenti, le devastazioni ambientali e il processo di esaurimento di molte risorse, colpiscono in maggiore misura i popoli poveri, rendono sempre più difficile soddisfare i bisogni di una popolazione mondiale crescente, determinano contrasti profondi fra le diverse aree del globo.
Anche le condizioni dei lavoratori nel ricco Occidente, che erano migliorate nei primi decenni del secondo dopoguerra, stanno ristagnando se non peggiorando almeno dagli anni 80 del secolo scorso sia in termini di retribuzioni che di diritti e di prestazioni del welfare.
Dal campo al piatto: un percorso a ostacoli per il pianeta
Produrre abbastanza cibo per una popolazione mondiale che ha varcato la soglia degli 8 miliardi di umani è una sfida impegnativa, ma non quanto lo è quella di nutrire bene, nutrire tutti: a mancare non sono le materie prime alimentari, ma l’accesso generalizzato a una alimentazione sana e nutrizionalmente adeguata.
Il dato delle commodity agricole riflette infatti quello di una produzione globalmente eccedentaria, che sottopone a fortissima pressione gli equilibri che regolano la biosfera, generando una ipoteca sulle future generazioni che non deriva tanto dall’aumento previsto di popolazione, quanto dal grado di compromissione già subita, ad esempio dalla biodiversità terrestre e marina e dallo sconvolgimento dei cicli dei nutrienti minerali, oltre alle emissioni climalteranti che, per oltre un terzo, sono riconducibili alle filiere agroalimentari.
Il dato per cui nel mondo 830 milioni di persone non riescono ad assumere le calorie e i nutrienti indispensabili, mentre oltre 2 miliardi ne ingurgitano molto più del necessario, andando incontro a loro volta a patologie da malnutrizione che gravano sui costi del sistema sanitario più di qualsiasi altra causa di malattia, è la misura spietata di un sistema alimentare che continua a generare iniquità e sofferenza, e in cui i dati di mortalità indotti da eccesso alimentare sono perfino maggiori di quelli riconducibili a denutrizione. Se poi includiamo nel conto anche lo spreco alimentare, in virtù del quale un terzo del cibo prodotto a livello globale non viene consumato ma diventa rifiuto, comprendiamo quanto sia strumentale la moderna ‘battaglia del grano’, sostenuta dalle grancasse corporative dell’agroindustria ad ogni segnale di crisi degli approvvigionamenti, ed assecondata anche dalle agenzie internazionali, che chiama alla mobilitazione per aumentare gli input produttivi così da accrescere le rese dei terreni coltivati, affidandosi a latifondisti e grandi corporation, gli unici a disporre dei mezzi tecnici e finanziari necessari a conseguire gli agognati aumenti di produttività, e che tendono ad espandere il dominio delle monocolture attraverso operazioni, spesso spregiudicate, di land grabbing verso Paesi terzi.
Il sistema è in crisi
Il mondo oggi è lacerato da una concomitanza di crisi senza precedenti che ha provocato una battuta d’arresto nella lotta alla fame, tagli ai posti di lavoro e ai salari. Siccità, carestie, uragani, inondazioni, conseguenze del cambiamento climatico, costringono famiglie e comunità in tante regioni del mondo ad abbandonare le loro case. Milioni di persone stanno ancora subendo le pesanti ripercussioni della pandemia del COVID 19.
Secondo i calcoli di un gruppo di economisti[2] l’80% delle partecipazioni delle società quotate in borsa è controllato dal 2% degli azionisti. La centralizzazione dei capitali è un fenomeno che è tipico di ogni parte del mondo e in misura più accentuata negli Usa. Ciò determina anche un accentramento del potere politico in poche mani, trasformando le democrazie in oligarchie che a loro volta producono tensioni e conflitti fra le nazioni. Infatti maggiori saranno le divergenze fra i redditi e le posizioni debitorie/creditorie e più forti saranno le differenze fra gli attori anche a livello internazionale, in particolare fra paesi debitori e paesi creditori.
La guerra accelera la crisi del sistema
La crisi energetica è una parte della ragione di questa ennesima guerra. Un conflitto che trascina sia i produttori di fonti di energia fossile che i consumatori. Una crisi che coinvolge l’Europa e che determina non solo una difficoltà di approvvigionamento, una corsa al rincaro e politiche di sussidio inadeguate ma anche in modo più approfondito il conflitto per l’egemonia nei processi di sviluppo economico e produttivo che dipendono ancora una volta esclusivamente dall’energia fossile. Questa guerra ci condanna al passato e pregiudica il sostegno all’innovazione rappresentata dalle fonti energetiche rinnovabili.
Acqua, terra e, negli ultimi decenni, anche i combustibili fossili sono stati sempre più spesso causa, occasione o finalità di conflitti armati o di vere e proprie guerre. Ben 434 dispute e conflitti dal 2010 ad oggi sono state scatenati per l’acqua (in particolare in Medio Oriente, India, Pakistan, Corno d’Africa e Africa Centrale), molti altri recenti hanno invece avuto chiare connessioni, dirette o indirette, con i combustibili fossili (guerre in Iraq e Iran, guerra del Golfo). La stessa tragedia ucraina, non solo quella delle ultime settimane, mostra evidenti connessioni con la questione energetica oltre che con il controllo delle rotte del gas proveniente dalla Russia.
I dati sono allarmanti:
- Attualmente siamo circa 8 miliardi di persone nel mondo;
- Produciamo cibo utile per sfamare tutti gli abitanti della terra ma 830 milioni di persone non riescono ad assumere le calorie e i nutrienti indispensabili;
- Gli scarti e gli sprechi alimentari ammontano a circa 1/3 della produzione totale;
- Quasi più miliardo di persone soffrono di malnutrizione perché non hanno accesso a cibo nutriente e sano;
- Di questi circa 14 mila persone al giorno muoiono di fame, di cui 7.000 bambini;
- La ricchezza mondiale si concentra più nelle mani di un numero incredibilmente ristretto di persone;
- I ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri;
- L’1% più ricco del mondo si è accaparrato quasi il doppio dell’incremento della ricchezza netta globale rispetto alla quota andata al restante 99% della popolazione mondiale;
- L’1% più ricco detiene oggi il 46,6% della ricchezza globale, mentre la metà del mondo appena lo 0,75%;
- Per ogni 100 dollari di incremento della ricchezza netta negli ultimi 10 anni, 54,40 dollari sono andati all’1% più ricco e solo lo 0,70 dollari al 50% più povero.
Tutto ciò è assolutamente inaccettabile e immorale.
L’economia di guerra ed energivora non ci conviene
Il modello di sviluppo e di società dominante non è quindi sostenibile. Tanto meno è replicabile all’intera umanità. Può essere solamente mantenuto con una economia di guerra ed energivora.
L’economia di guerra si caratterizza per privilegiare la produzione e vendita di sistemi di arma, per la deterrenza dell’arma nucleare, per la costruzione dei muri e dei rimpatri di coloro che fuggono da fame, povertà, violenze, persecuzioni, desertificazione o disastri ambientali ed infine, per l’uso della guerra come possibile strumento di politica e di controllo delle risorse naturali, per la propria sicurezza a scapito di altre popolazioni e altri stati.
L’orribile tragedia dell’invasione russa dell’Ucraina avrà profonde conseguenze sul processo di costruzione della casa comune europea. Con cambiamenti epocali. A partire dalla sicurezza energetica dell’Europa. Questa guerra ha evidenziato il fallimento del modello energetico fondato sulla dipendenza dal gas russo come fonte energetica di transizione verso la neutralità carbonica. Per garantire la nostra sicurezza energetica dobbiamo liberarci velocemente dalla dipendenza dalle fossili, accelerando la transizione verso una Europa a zero emissioni ben prima del 2050. Solo così sarà possibile vincere la sfida della duplice crisi, energetica e climatica. Crisi che vanno affrontate insieme e in sinergia con politiche e investimenti che puntino su efficienza e rinnovabilità. È possibile e conviene sempre più economicamente visti gli altissimi prezzi dei combustibili fossili e la loro volatilità. Soprattutto per il settore elettrico, che secondo l’Agenzia Internazionale dell’energia (IEA), nelle economie avanzate come quella europea, deve essere a zero emissioni nette già nel 2035 per poter raggiungere la neutralità carbonica a livello globale entro il 2050. E poter così contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1.5°C.
Per questo attuare una transizione veloce verso le energie rinnovabili significa investire sulla pace. Le energie rinnovabili rappresentano un contributo sostanziale alla ricerca della pace e possiamo dire anche della democrazia, perché collegano la produzione ai territori e alle loro esigenze di utilizzo.
L’economia di pace invece mette in circolazione maggiore ricchezza, perché la interdipendenza e non la separatezza sono le condizioni vitali e gli scambi hanno bisogno di pace.
Economia di pace ed economia di guerra (con il suo strascico di cultura dell’odio) sono mutuamente escludenti, una produce diritti e libertà, l’altra distrugge e funziona solo con verticalizzazione e totalitarismo. Nell’economia di guerra non si redistribuisce la ricchezza ma si gettano le basi della propria riproduzione perchè le risorse si esauriscono, l’inquinamento minaccia le condizioni vitali e l’espansione antropica sottrae spazio alle specie selvatiche.
I poteri economici schiacciano la politica
Fino agli anni ‘70 le strutture economiche e della comunicazione sussistevano all’interno dei singoli stati ed erano regolate in qualche modo dai rispettivi pubblici poteri; i rapporti internazionali erano sempre, in sostanza, accordi fra stati sovrani anche se mediati o promossi dall’ONU. Gruppi di enorme potere finanziario esistevano e operavano fin dagli anni 30, tanto è vero che già Pio XI denunciava un imperialismo internazionale del denaro, ma sempre con il consenso e il controllo del potere politico, a sua volta da essi stesso controllato o almeno condizionato. Oggi possiamo tranquillamente affermare che il potere politico è totalmente sotto il controllo dal potere economico-finanziario.
All’interno dell’Occidente le misure antisociali, l’innalzamento dei livelli di sfruttamento e le contraddizioni emerse dal 2020 associate agli effetti boomerang delle sanzioni economiche chieste dalla Nato stanno facendo saltare il patto sociale, a partire dalla generazione ‘nativa precaria’.
I diversi movimenti sociali e ambientali stanno esprimendo una erosione della credibilità che si cerca di contenere con la propaganda, la menzogna, la sorveglianza e la repressione.
La ricomposizione di una coscienza collettiva contraria alla guerra va a rafforzare una domanda di giustizia sociale, economica e climatica che passa dalla ridefinizione dei componenti di uno sviluppo desiderabile.
Il falso mito dell’industria militare
Qualunque ipotesi di diversificazione e riconversione del settore industriale degli armamenti incontra, specie in una fase di riarmo e aumento esponenziale delle spese militari, notevoli ostacoli sia sul piano economico, sia sul piano politico-ideologico.
Persistono, tra l’altro, convinzioni sbagliate largamente diffuse (anche all’interno dei sindacati dei lavoratori) relative alle ricadute occupazionali assicurate dagli investimenti e dalla crescita dei fatturati in questo settore e dal ruolo svolto dall’innovazione tecnologica in campo militare in termini di ricadute e sviluppo nei settori civili (un’idea questa vera solo in parte fino agli anni ‘80 del secolo scorso).
A queste convinzioni ideologiche dobbiamo contrapporre il nostro realismo, basato sullo studio e l’osservazione empirica dell’industria militare, il cui mito come settore essenziale del sistema economico e occupazionale, caratterizzato da tecnologie avanzatissime e ‘portanti’ nei confronti del resto dell’industria, trova solo riscontro nella ‘propaganda di guerra’ e in nessun trattato scientifico.
Ciò è tanto più vero nel nostro paese dove il grado di subordinazione dell’industria aerospaziale e della difesa italiana (tranne poche eccezioni di prodotti e sistemi) a quella USA è molto elevato. Con notevoli vincoli sia sul piano tecnologico e della ricerca, sia sul piano politico (mercati, export e catene di fornitura).
Crescono i profitti e cala l’occupazione
Il primo compito è, quindi, confutare ‘il senso comune’ e ciò che viene dato per scontato, rispetto al ruolo fondamentale dell’industria militare nella creazione di lavoro e di nuova occupazione.
Analizzando, ad esempio, l’andamento dei fatturati e dell’occupazione nell’industria aerospaziale a livello europeo, in uno spazio temporale 40 anni, utilizzando i dati del rapporto annuale dell’ASD (AeroSpace and Defence Industries Association of Europe), questo settore è passato da 579 mila nel 1980 a 565 mila occupati nel 2019 (meno 2,4 per cento), dopo essere sceso nel 1995 sotto i 400 mila addetti. Nello stesso periodo il fatturato complessivo del settore, a valori costanti, è più che triplicato (più 345 per cento).
Il rapporto tra andamento del fatturato e dell’occupazione è impressionante. Ma il risultato più sorprendente è disaggregare i dati del settore tra militare e civile. Mentre lavoratori del settore impiegati in campo militare sono passati tra il 1980 e il 2019 da 382 mila a 190 mila (il 50 per cento in meno), l’occupazione in campo civile è, invece, cresciuta da 197 mila a 277 mila (il 40 per cento in più). È un dato che può sorprendere, ma per chi conosce il settore sa che dietro ai numeri c’è il successo del più importante programma industriale e tecnologico sviluppato a livello europeo, nel quale il nostro paese ha fatto la colpevole scelta di non partecipare, condannandosi in campo aeronautico a un ruolo di semplice sub-fornitore dell’industria aeronautica americana.
Non aver partecipato come partner paritario dei francesi, spagnoli e tedeschi alla realizzazione di Airbus è costata la marginalità dell’industria italiana nella ideazione, sviluppo e produzione di aerei civili. Ma è costata molto anche in termini di mancata creazione di posti di lavoro. Infatti, mentre in Francia, Germania e Spagna, il calo degli occupati nel militare (meno 50 per cento) è stato parzialmente compensato da una crescita nel civile (più 40%), in Italia si è perso il 50% di posti di lavoro nel settore aeronautico militare, senza aver registrato alcuna crescita nel campo dell’aeronautica civile (tranne che un 10% circa nel comparto elicotteristico).
Ricordate la fake dei dieci mila occupati in più nel settore aerospaziale se l’Italia avesse partecipato al programma degli F35? A sostenerla autorevoli voci del MISE e dello Stato Maggiore dell’Aeronautica per convincere politici, parlamentari, sindacalisti e l’opinione pubblica delle ricadute in termini di lavoro che avrebbe giustificato oltre 15 miliardi di euro di spesa pubblica per i nuovi caccia-bombardieri della Lockheed Martin. A distanza di anni possiamo tirare le somme e verificare chi ha barato.
Un’ulteriore conferma di queste tendenze emerge da un’analisi delle tendenze dei primi dieci gruppi multinazionali per fatturato militare al mondo, dal 2002 al 2016. Mentre, nel periodo considerato, il fatturato totale dei dieci gruppi è cresciuto del 60% (e quello militare del 74%), i loro profitti sono aumentati del 773% e il numero di occupati si è ridotto del 16%.
Tra questi 10 gruppi multinazionali al mondo l’unico che, nel periodo considerato, aumenta l’occupazione è il Gruppo franco-spagnolo-tedesco Airbus (ex-EADS) che passa da 104 mila a 134 mila lavoratori, diversificando ulteriormente le proprie attività nel civile. Al contrario i Gruppi multinazionali che registrano il maggior calo di occupazione, nonostante il loro aumento del volume d’affari e dei profitti, sono quelli tra questi dieci, che meno sono diversificati nel civile e più dipendono dalle produzioni militari:
- il Gruppo nord-americano Raytheon, 95% di fatturato militare, meno 13 mila occupati;
- il Gruppo britannico BAE Systems, 95% di fatturato militare, meno 14 mila occupati;
- il Gruppo nord-americano Northrop Grumman, 87% di fatturato militare, meno 53 mila occupati;
- il Gruppo nord-americano Lockheed Martin, 86% di fatturato militare, meno 28 mila occupati. meno 53mila occupati
Difficile di fronte a questi dati (inconfutabili) giustificare le politiche di riarmo e l’aumento delle spese militari per ragioni economico-sociali … tanto più da parte di chi sostiene di rappresentare il lavoro.
Conseguenze delle scelte politiche
Quindi il nocciolo della questione su economia, guerra e ambiente passa da una politica industriale che chiede un forte e deciso impegno del sindacato per un’economia disarmata assieme alla società. Un obiettivo che può raggiungersi mettendo in discussione le linee strategiche seguite finora dalle grandi società controllate dallo stato, a cominciare da Leonardo. Altrimenti non ci resterà altro che la riduzione del danno. Come diceva Giorgio La Pira, «senza le leve economiche non ci resta altro che la magra potestà delle prediche».
A tal riguardo è importante notare che in un altro periodo storico di forte transizione il salvataggio della fabbrica Pignone a Firenze da parte dell’Eni avvenne in base a progetti di riconversione proposti dagli stessi lavoratori che la proprietà privata voleva licenziare.
Un esempio delle priorità effettive di Leonardo (già Finmeccanica) lo dimostra il caso della crisi di Industria Italiana Autobus (con più del 60% del capitale in mano a Leonardo e a Invitalia e un terzo alla turca Karsan) che avrebbe tutte le caratteristiche per crescere nella fornitura di mezzi ecologici al trasporto pubblico[3].
È un esempio attuale in tal senso la vertenza della ex GKN di Scandicci che vede una proposta attiva di riconversione industriale da parte degli operai sostenuti dalle competenze dei ricercatori del Sant’Anna di Pisa.
È quello che mancò negli anni ‘80 al centro di ricerca della Cattolica di Milano voluto inizialmente dal rettore Lazzati per sostenere le proposte di riconversione industriale del settore bellico avanzate dalle lavoratrici e lavoratori obiettori alla produzione bellica che sono tra gli artefici della legge 185/90. Un centro di ricerche fatto fallire per esaurimento delle risorse e che si sostenne per un periodo con i soli soldi degli stessi lavoratori.
D’altra parte anche progetti evoluti di riconversione industriale elaborati in altri settori come quello elaborato negli anni ‘90 dai ricercatori Enea per trasformare l’area ex Alfa di Arese nel polo della mobilità sostenibile fu violentemente stroncato dall’intervento della proprietà del sito e dalla mancanza di volontà politica.
Il Sulcis Iglesiente
Per dare un segnale in controtendenza oggi bisogna partire da un caso che ha una valenza universale come è quello del Sulcis Iglesiente. Qui un tenace comitato riconversione non solo ha contestato la produzione di bombe della RWM destinate in Arabia Saudita, riuscendo, grazie ad alleanze in Italia e all’estero, a far revocare la licenza all’esportazione di ordigni destinati ad alimentare la guerra in Yemen, ma ha promosso un serio confronto sulla riconversione dell’intero territorio che rientra tra quelli destinatari del Just transition fund europeo. Il comitato ha anche fondato una rete di imprese war free, libera dalla filiera della guerra, come esempio di generazione di economia di pace.
Questa vertenza diventa decisiva perché la multinazionale tedesca Rheinmetall Defence che controlla la RWM è al centro del piano di riarmo della Germania e coltiva nuove sinergie con Leonardo, oltre ad offrire l’esclusivo prodotto dei droni kamikaze sperimentati con successo dall’esercito azero, sostenuto dalla Turchia, contro le truppe armene nel conflitto del 2020 in Nagorno Karabakh.
Si tratta di concentrare le migliori risorse a partire dai centri di ricerca universitari per sostenere un piano di riconversione economica che liberi la popolazione dal ricatto occupazionale. La Sardegna tra l’altro ha le caratteristiche per raggiungere l’indipendenza energetica come fattore competitivo di un’economia che rischia invece di restare frenata dai progetti di metanizzazione legati anche alle declinazioni dell’Italia come hub energetico del cosiddetto piano Mattei.
Un caso serio, insomma, dove è possibile giocarsi la partita a partire dalla destinazione dei fondi del Just transition fund.
Torino: dall’auto a…
Altro caso molto più complesso ma decisivo è quello di Torino che permette di mettere in discussione il modello di economia e impresa imposto dalla Fiat ora in dismissione progressiva dall’Italia, mentre si cerca di far passare il mega progetto di Leonardo, che nella sua configurazione attuale, condurrà inevitabilmente la città, orfana delle promesse della mega fabbrica della Intel, ad essere un centro per la produzione bellica, mentre le stesse risorse potrebbe essere impiegate per vincere la battaglia della transizione ecologica. Fondamentale in tal senso ripartire dal lavoro compiuto finora dal Centro Studi Sereno Regis.
Il commercio di sistemi di arma
La discussione aperta sul modello di organizzazione delle forze armate dei Paesi Ue dovrebbe condurre ad una razionalizzazione del settore degli armamenti nel senso della riduzione dei doppioni e del superamento nella competizione delle varie imprese nazionali sui mercati internazionali con l’adozione di regole che militano la vendita di armi ai Paesi in guerra e/o violano i diritti umani. Di fatto invece si firmano trattati bilaterali di amicizia tra Paesi come Italia e Francia che si contendono le commesse di armi come avvenuto nel recente World Defence Show che si è tenuto nel marzo 2022 in Arabia Saudita.
Alla stessa maniera Fincantieri ha dirottato verso l’Egitto le fregate Fremm destinate alla Marina militare italiana nel tentativo di accreditarsi per ulteriori grandi commesse al posto delle aziende francesi. Fincantieri, controllata al 71,3% da Cassa depositi e prestiti, ha venduto le stesse navi da guerra all’Arabia saudita tramite la sua controllata statunitense.
Il caso dell’industria aerospaziale
Le realtà analizzate nel caso dell’industria aerospaziale e della difesa dimostrano che, nonostante si sia verificato nell’ultimo quarto di secolo una crescita imponente delle spese militari nel mondo, il numero degli occupati nell’industria aerospaziale e della difesa non è aumentato, anzi ha subito un’accentuata contrazione (ed è destinato a contrarsi ulteriormente).
Ciò dipende da tre diversi fattori.
- Il primo è un fattore comune ad altri settori dell’industria manifatturiera: dalla siderurgia all’elettronica. È la crescita costante del fatturato per addetto (competitiveness) che, ad esempio, nell’industria aeronautica è aumentato dal 1980 al 2019 del 250 per cento passando da 90 mila a 315 mila euro per occupato).
- Il secondo fattore, anche questo comune al resto dell’industria, è la riduzione del numero di occupati per effetto dei processi di fusione, ristrutturazione e innovazione tecnologica su scala europea e mondiale, spinti sia dai processi d’integrazione regionale, sia dalla globalizzazione delle catene di fornitura.
- Il terzo, invece, è un fattore specifico riguardante solo l’industria militare, definito tecnicamente “disarmo strutturale”. È un fattore indotto si dall’innovazione tecnologica incorporata nei nuovi sistemi d’arma (dai nuovi materiali alla microelettronica) e nei processi di produzione (automazione integrata e flessibile), ma soprattutto dal consistente aumento dei costi di ricerca, sviluppo e fabbricazione. L’aumento dei costi unitari per ciascun nuovo sistema d’arma[4], significa una diminuzione, a parità di spesa militare, della quantità di pezzi che può essere acquistata dalle Forze Armate. Questa tendenza spinge in una sola direzione: contrazione dei volumi (non del valore) di mercato e ulteriore sovra capacità produttiva dell’industria militare europea.
Tendenze e strategie industriali
Anche alla luce dell’ulteriore espansione delle spese militari nel mondo e, in particolare dei paesi NATO, per effetto della guerra in Ucraina, è facile prevedere per le imprese leader di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Svezia ecc. un’accelerazione dei processi di concentrazione su scala europea e inter-atlantica (esempio, Rheinmetall e Leonardo nel comparto degli armamenti terrestri, Lockheed Martin e Rheinmetall in campo aeronautico).
Le nuove acquisizioni, fusioni e alleanze internazionali nell’industria militare comporteranno razionalizzazioni sia impiantistico-produttive, sia di prodotto-mercato. E, sotto la spinta di sempre più ingenti risorse destinate all’acquisizione di armi, munizionamenti e sistemi d’arma, i principali paesi importatori svilupperanno una propria industria che produrrà su licenza.
Pertanto, in questa nuova fase di forte espansione dei fatturati del settore, ma anche di ristrutturazione industriale, solo le imprese che guideranno i processi su scala europea (e quelle italiane, tranne eccezioni, hanno un ruolo comprimario) o le aziende e/o i distretti industriali che hanno accresciuto (o accresceranno) la loro diversificazione nei mercati civili, riducendo la loro dipendenza complessiva dal settore militare, saranno meno vulnerabili sul lato occupazionale.
L’alternativa c’è
Il ruolo dello Stato
Oltre ai pur necessari comportamenti virtuosi dei singoli, specie se associati, e soprattutto delle comunità locali, è indispensabile un ruolo dello Stato che orienti il sistema produttivo e gli stili di vita in maniera rispettosa del Pianeta e dei diritti sociali. Ciò perché l’impresa privata, per sua natura, non può che mettere al centro della sua azione il profitto, anche se ciò configge con altri obiettivi di interesse generale. Ne sono un esempio le diseconomie esterne e i costi sociali, quali l’inquinamento e il depauperamento delle risorse, che vengono regolarmente ignorati se non fatte pagare attraverso la fiscalità.
I promotori del neoliberismo sostengono che sia una dottrina economica che in nome della libertà si applica per ridurre l’influenza dello Stato sull’economia. In realtà essa punta a piegare lo Stato al servizio degli interessi delle corporations internazionali finanziarizzate.
Dunque la struttura legislativa ha legittimato i rapporti di forza dettati dal possesso del capitale e con essi un processo di privatizzazione e di distruzione del welfare cancellando ogni possibilità di produzione pubblica e di contrattazione sulla distribuzione della ricchezza.
Diventa quindi preferibile l’intervento diretto e ciò rende indispensabile la riappropriazione di alcuni strumenti di politica economica svenduti nel tempo, quale la nazionalizzazione di comparti strategici e di monopoli naturali, nonché il ritorno della Banca Centrale a un ruolo di regolatrice del comparto finanziario sulla base di indirizzi politici.
La nostra stessa Costituzione prevede agli articoli 41, 42 e 43 che laddove il privato non assicuri le finalità socialmente rilevanti la Repubblica debba a lui sostituirsi. Per esempio la riconversione dell’industria bellica o l’ambientalizzazione di imprese inquinanti potrebbero meglio e più rapidamente essere realizzate di quanto sta avvenendo fra tira e molla con i gruppi monopolistici che si trascinano da anni (si veda per esempio il caso dello stabilimento siderurgico di Taranto).
Riconversione e transizione ecologica
L’effettiva transizione ecologica in Italia, posta come obiettivo condiviso a livello di Ue, non potrà mai realizzarsi senza dirottare le risorse dai settori delle armi a quelli delle tecnologie verdi e delle fonti rinnovabili.
Se oggi vogliamo ridurre i conflitti determinati dalle risorse dobbiamo puntare ad una minore impronta ecologica sul pianeta, favorendo una più equa distribuzione delle risorse, e su un maggiore ricorso a energie e risorse rinnovabili.
Potremmo dire che uno dei maggiori contributi alla pace oggi proviene dalla capacità di un paese di essere il più possibile autosufficiente dal punto di vista energetico, alimentare e di materie prime.
In un prezioso libretto del 1984, pubblicato in Italia nel 1985 dal Centro Studi e Documentazione Domenico Sereno Regis e intitolato “I blu e i rossi, i verdi e i bruni”, Johan Galtung (sociologo e matematico norvegese, fondatore nel 1959 dell’International Peace Research Institute e della rete Transcend per la risoluzione dei conflitti, il massimo esperto mondiale di ricerca per la pace e soluzione nonviolenta dei conflitti) prefigurava quattro diversi tipi di società a seconda di come queste si organizzavano sulla democrazia, sul sistema produttivo e il lavoro, sul sistema di difesa e sull’energia.
Su queste basi la società che vogliamo costruire è una società che utilizza solamente energie rinnovabili e quindi decentrate e alla portata di tutti, che riduce al minimo il prelievo di materie prime non rinnovabili, che si difende con la Difesa civile popolare e nonviolenta, che valorizza il decentramento amministrativo in una logica di non lasciare nessuno indietro, che garantisce a tutti i popoli e a tutte le generazioni future una vita dignitosa che soddisfa i bisogni fondamentali degli esseri viventi.
La scelta dunque di un’economia disarmata e di una riconversione ecologica integrale passa necessariamente dalla capacità di esercitare una reale democrazia economica con l’impegno dei lavoratori di queste grandi imprese, assieme alla pressione della società civile, ad incidere nelle decisioni che contano e cioè cosa, per chi e come si produce.
Il filone di critica sindacale e ambientalista di quegli anni rispetto al ‘cosa e come produrre’, sta oggi finalmente portando il capitale a mettere mano ai processi e ai prodotti mosso da una domanda ambientalista ma soprattutto dalla ricerca di un uso efficiente delle risorse e dell’energia: anche se marginalmente, sono comparsi i termini ‘re-manufacturing – de-manufacturing’, riparazione, sostituzione, smontaggio dei componenti. A un ritmo insoddisfacente procede anche la ricerca di materiali ‘sostenibili’ e di sganciamento progressivo dalle energie fossili e dalle terre rare. Mitigazione e adattamento.
I settori trainanti della transizione ecologica sono diversi da quello delle armi, l’unico sul quale sembra che esista una politica industriale diretta dalla mano pubblica, come mette bene in evidenza il lavoro di ricerca esposto da Andrea Roventini della scuola superiore sant’Anna di Pisa[5] a partite dalla tabella di marcia evidenziata dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) per arrivare alle emissioni zero entro il 2050. Un traguardo indispensabile per salvare il pianeta.
Per poterlo realizzare «lo Stato deve avere un ruolo attivo nella creazione e sviluppo di tecnologie, mercati e industrie. Con le politiche industriali e le tecnologie indicate da IPCC e IEA: non sfruttare nuovi giacimenti di gas, petrolio e carbone, elettrificare massicciamente l’economia, vietare la vendita di caldaie a gas dal 2025 e di auto a benzina e diesel dal 2035, investire in rinnovabili per coprire il 90% del fabbisogno energetico nel 2050» (Roventini).
Rilanciare l’Economia di pace
È, quindi, necessario conservare e socializzare una memoria critica sull’evoluzione storica delle esperienze produttive e di ricerca-sviluppo delle varie aziende in campo. Come abbiamo visto, la concentrazione totale o molto elevata della produzione in campo militare è rischiosa per un’equilibrata e duratura sostenibilità occupazionale. Per questo, dobbiamo continuare a porre l’accento sulle esigenze di diversificazione nel civile, accompagnando le pressioni e le azioni in favore della riconversione ecologica dell’economia in una prospettiva di disarmo[6]. Lo dobbiamo fare, oltre che per ragioni di natura etica, anche per motivi di politica industriale e di lavoro, al fine di tutelare l’occupazione delle persone coinvolte e di rispondere alle loro attese professionali.
L’Economia di Pace è forse la dimensione che per implicazioni di geo-politica e di «sicurezza nazionale», dalla fine del secolo scorso, è diventato un tema riservato alle analisi di geo-politica e non più oggetto di riflessioni, confronti e proposte, nell’ambito dell’economia e nel dibattito sindacale.
Basterebbe aprire i nostri archivi e rileggere quanto è stato scritto e oggetto di studi, dibattiti e di mobilitazioni negli anni 70, 80 e 90 del secolo scorso, sul tema della riconversione dell’industria militare che portarono, tra l’altro, all’approvazione della Legge 185/90 sul commercio delle armi e del programma KONVER (Iniziativa comunitaria relativa alla conversione della difesa, 1994-1999).
Pensiamo alle lotte e azioni contrattuali portate avanti dalla FLM con i Consigli di Fabbrica di alcune aziende del settore Difesa; alla lotta e riconversione della fabbrica di mine in Valsella; allo sviluppo della rete degli osservatori sull’industria a produzione militare con l’apporto diretto di Archivio Disarmo (Lazio), Ires-CGIL (Toscana), Gruppo Armi e Disarmo Università Cattolica di Milano (Lombardia), Centro Ligure Documentazione per la Pace e Fim-CISL (Liguria), Fim-CISL (Emilia Romagna); ai numerosi studi, analisi e ricerche prodotti; alla creazione dell’Agenzia per la riconversione dell’industria bellica in Lombardia nel 1994, su iniziativa del comitato Cassaintegrati Aermacchi per la pace ed il diritto al lavoro e di Fim-CISL, Fiom-CGIL e Uilm-UIL regionali; alle esperienze di riconversione produttiva nel distretto di La Spezia, in quello di Firenze e di altre città; ai contatti e le esperienze in ambito europeo e americano. Ciò è stato possibile grazie a un impegno e un’attenzione che ha coinvolto l’insieme della nostra società e che ha visto una partecipazione ed un forte attivismo, progressivamente assorbiti da altre attenzioni e da altre priorità.
Di fatto, oggi, non esiste alcun programma europeo di riconversione nel civile (KONVER non è stato più rifinanziato dopo il 1999 e i fondi si sono esauriti nel 2001), mentre la spesa militare e per la difesa è in continua crescita. Sul versante legislativo ci resta, invece, l’importantissima Legge n° 185 del 1990 che regolamenta e limita l’esportazione e il transito di armi dal nostro paese. Una legge che è stata possibile a seguito di una campagna negli anni 80 di impegno civile, di mobilitazione e di un ampio schieramento parlamentare a favore, oggi non più presente.
La 185/ ha inoltre un paio di passaggi che rinviano alla questione della riconversione:
- nelle Disposizioni Generali, all’Art.1. Comma 3: “Il Governo predispone misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione ai fini civili delle industrie nel settore della difesa”.
- nel comma 2, dell’articolo 8, relativo all’istituzione di un Ufficio di coordinamento della produzione di materiali di armamento, che attribuisce le seguenti funzioni: “L’Ufficio contribuisce anche allo studio ed alla individuazione di ipotesi di conversione delle imprese, in particolare identifica le possibilità di utilizzare per usi non militari di materiali derivati da quelli di cui all’articolo 2, ai fini di tutela dell’ambiente, protezione civile, sanità, agricoltura, scientifici e di ricerca, energetici, nonché di altre applicazioni nel campo civile”.
Purtroppo, non essendo stato neppure istituito, non risultano essere stati realizzati studi o altre attività orientate alla riconversione da parte di detto Ufficio. Esistono, viceversa, diversi studi coordinati centralmente – negli anni 2000 e 2001 – dall’allora Ministero dell’Industria nell’ambito del programma KONVER. Invece, in Italia, non è mai esistita un’Agenzia Nazionale per la riconversione.
Un vuoto che è stato affrontato da una proposta di legge, depositata alla Camera dei deputati nel 2006, su iniziativa di una ventina di parlamentari, che per l’appunto, prevedeva la costituzione di un’agenzia nazionale per la riconversione dell’industria bellica, il finanziamento dei progetti in parte a carico delle stesse imprese (1% del fatturato), in parte con il contributo volontario dei cittadini attraverso l’8/1000, in parte a carico dello stato con la minor spesa per la difesa. La proposta è rimasta nei cassetti del parlamento, come quella del 1986, promossa dal partito radicale.
È, quindi, necessario conservare e socializzare una memoria critica sull’evoluzione storica delle esperienze produttive e di ricerca-sviluppo delle varie aziende in campo.
Come abbiamo visto, la concentrazione totale o molto elevata della produzione in campo militare è rischiosa per un’equilibrata e duratura sostenibilità occupazionale. Per questo, dobbiamo continuare a porre l’accento sulle esigenze di diversificazione nel civile, accompagnando le pressioni e le azioni in favore della riconversione ecologica dell’economia in una prospettiva di disarmo[5]. Lo dobbiamo fare, oltre che per ragioni di natura etica, anche per motivi di politica industriale e di lavoro, al fine di tutelare l’occupazione delle persone coinvolte e di rispondere alle loro attese professionali.
Per assicurare quanto sopra pensiamo sia necessario riproporre un’iniziativa europea come KONVER e/o creare, a livello nazionale, un Fondo speciale per la riconversione nel civile. Si può prendere spunto dal piano presentato negli Stati Uniti, mezzo secolo fa, dall’allora presidente del sindacato americano UAW, Walter Reuther. Il piano, denominato “Spade trasformate in Aratri”, prevedeva di finanziare il Fondo con una tassa del 25% sui profitti delle imprese a produzione militare. Il Fondo, previsto dal “Defence Economic Adjustment Act” del 1979, era finanziato dall’1,5% dei fatturati delle industrie militari. In entrambi i casi il Fondo era finalizzato a sostenere economicamente: la ricerca e sviluppo verso produzioni alternative civili; le iniziative di riconversione in ambito aziendale e/o territoriale; l’integrazione del reddito dei lavoratori coinvolti e le spese di riqualificazione professionale e mobilità.
Il coordinamento del Fondo era affidato a una commissione nazionale, composta in parti uguali da rappresentanti dei lavoratori, delle aziende, delle comunità locali. Mentre la gestione si articolava, nei territori ad alta concentrazione dell’industria militare, in ‘comitati locali’ per gli usi alternativi di prodotti, impianti, attrezzature, tecnologie e competenze professionali esistenti, composti da ricercatori, ingegneri, direttori, operai, sindacalisti, e rappresentanti della comunità. Per una vera prospettiva di riconversione ecologica dell’economia, oltre agli aspetti tecnici, è necessario anche trasferimento di potere, in modo che i lavoratori e le comunità locali partecipino alle decisioni su cosa e per chi produrre. Sarebbe un passo avanti verso la democrazia economica. Le aree nelle quali attuare questa proposta potrebbero essere il Sulcis – Iglesiente, Torino e La Spezia.
A livello delle politiche industriali nazionali ed europee nel settore aerospaziale e della difesa dobbiamo, quantomeno, arrestare il processo di ridimensionamento e marginalizzazione delle attività civili in Leonardo, a partire dalla valorizzazione e sviluppo di quelle tuttora presenti nel Gruppo (in campo aeronautico, elettronico e automazione). E non interrompere lo sviluppo del Gruppo Fincantieri in campo civile (cruise, traghetti veloci, sistemi innovativi di propulsione, off-shore per eolico, ingegneria impiantistica).
Una informazione consapevole e responsabile
Bisogna ammettere che i grandi mezzi di comunicazione sociale, non hanno aiutato molto a prendere coscienza delle conseguenze delle nostre scelte di base. La valanga informativa che quotidianamente ci investe è completamente muta, ad esempio sulla storia dei prodotti che quotidianamente usiamo: questo caffè che sto bevendo da chi è prodotto? Come viene pagato? E l’intermediario, quanto ci guadagna? Ecc. Questi sono misteri che soltanto in occasione di eventi traumatici (rivolte, stragi ecc.) sono fugacemente illuminati (o travisati) dai mass-media; eppure il caffè lo bevo tutti i giorni, avrei diritto di sapere!
Certo è un circolo vizioso, anche l’informazione è una merce; il produttore fa e dà ciò che la gente chiede. Ma questa è l’unica merce che ha anche un potere educativo (o distributivo) sul consumatore: può aiutarlo a cambiare gusti, così come, mediante la pubblicità, ha già fatto abbondantemente, creando mode, costumi e bisogni sempre nuovi. Se questo tremendo potere dei mass-media fosse usato in modo più positivo, molte cose potrebbero cambiare.
Un lavoro più umano e responsabile
Nel lavoro, il fine non può continuare ad essere soltanto il profitto (o peggio, la massimizzazione del profitto), e nemmeno il solo stipendio, perché è un grande impoverimento, ed un condannarsi alla insoddisfazione e al non senso, oltre che allo squilibrio distruttivo dell’economia sul piano mondiale.
In passato, l’artigiano onesto, come ricompensa del suo lavoro, non aveva soltanto il prezzo che gli veniva pagato per ciò che aveva fatto (le scarpe, la sedia ecc.), ma anche la gratitudine, la stima di chi aveva comprato quei prodotti ed era rimasto contento del suo lavoro. E forse gli dava più felicità la gratitudine, che i soldi del compratore. Era la felicità del far felici, cioè del bene comune; una felicità di ordine spirituale più solida di quella proveniente dal puro profitto.
Con il lavoro industriale, specializzato, frazionato, internazionalizzato, tutto questo è andato perduto, ed è rimasto soltanto lo stipendio, il profitto. Il lavoratore, infatti, non sa se quel transistor che (per fare un esempio) sta costruendo servirà per sanare un uomo in ospedale, o per ucciderlo in una guerra. E il datore di lavoro, nemmeno lui lo sa, o finge di non saperlo.
È necessario perciò incominciare a riappropriarsi della finalità del proprio lavoro, per collaborare coscientemente al bene comune e gustarne ancora la gioia; gioia che fa parte della ricompensa del lavoro. Non è possibile vendere, per uno stipendio, insieme con la nostra attività produttrice anche la mente (il sapere) e la nostra coscienza (il volere e il godere del servizio reso).
Lavoro allora fatto bene, con diritti, con coscienza ed obiezione di coscienza là dove sappiamo che il, nostro lavoro non fa il bene comune, ma la distruzione dell’umanità o di una parte di essa. Il sindacato dovrà ben affrontare queste tematiche, altrimenti che futuro può avere? Intanto si fa quel che si può: si lavora magari in una produzione che non ha senso, ma nel tempo libero, attraverso azioni sindacali, politiche e culturali, si cerca di cambiare le cose.
Con un lavoro così, ricoperto, valorizzato e finalizzato, potremo lavorare anche meno, perché non avremo più bisogno di tanti soldi per comprare (grande illusione) ciò che dovrebbe dar senso e gusto alla vita, cioè le tante cose in cui poniamo illusoriamente il nostro prestigio e la nostra gioia. Già il lavoro ci ha dato una parte di questa gioia, non c’è più bisogno di cercarla illusoriamente nelle cose. Avremo invece più tempo per il rapporto con le persone, con noi stessi e con Tutto, rapporto che veramente ci fa crescere.
Un mercato più equo e solidale
Introdurre anche nelle scelte di mercato la preoccupazione etica, vuol dire comprare non solo in base a costi e qualità (ciò che costa meno e serve meglio), ma in base a ciò che è più utile per l’umanità. Se, a parità di costo e servizio, un prodotto inquina meno, proviene da un lavoro ben pagato, onesto, trasparente, responsabilizzato, e non invece da sfruttamento, speculazione, alienazione, ecc., è razionale preferire questo prodotto ad altri. Razionale anche per chi pensa soltanto al proprio bene privato. Questo prodotto infatti non avrà soltanto un valore d’uso, ma anche un valore di segno; sarà il segno di una attività umana armonica, equa e solidale, di una umanità, quindi, più fraterna, pacifica che può durare a lungo; e di questo ha bisogno il nostro spirito, la nostra coscienza, perché è ciò che dà senso e gusto alla vita; che lo voglia o non lo voglia, sia che lo creda o non lo creda.
Riscoprire la storia passata e futura delle cose, per scegliere quella della storia pulita, armonica e rifiutare quelle della storia iniqua, significa dunque gustare l’anima buona delle cose, il loro valore di segno di comunione, che muove alla gratitudine, al ringraziamento, e in concerto, muove all’impegno solidale nel proprio lavoro, come sopra si diceva parlando del lavoro.
È questa la grande rivoluzione di base da introdurre nel mercato e nel lavoro. Attività ridotte, ormai, ad un soffocante materialismo.
Il risparmio: investimenti responsabili
Se il lavoro da più di quanto (per vivere) si spende sul mercato, c’è un risparmio. Quando il risparmio è enorme, sorge un problema di coscienza. È giusto che il mio lavoro valga così tanto nel confronto di quello altrui? E se veramente Madre Natura (o Dio) ha dato a me molte più qualità che agli altri, è giusto che le usi per accumulare ricchezza e potere soltanto per me, o c’è un dovere di condivisione? Sono problemi di coscienza, morali, da risolvere.
Quando il risparmio è ragionevole, modesto, è naturale e giusto che si cerchi di conservarlo per eventuali necessità future; sorge allora il problema di come investirlo, dove metterlo, in che banca, ecc.
Di solito, il criterio è sempre quello dell’interesse privato, o più precisamente in questo caso, della massimizzazione dell’interesse. Si cerca cioè l’investimento più sicuro che dia l’interesse più alto. E non ci si chiede come questo alto interesse sia ottenuto dalla banca o impresa economica a cui abbiamo affidato i nostri risparmi. L’alto interesse, infatti, può essere frutto di una gestione oculata ed intelligente dei capitali, ma più facilmente, può essere frutto di un giro illecito di denaro, di un finanziamento cioè di mercati d’armi, di droga o lavoro umano mal pagato, sfruttato; o più semplicemente può essere ottenuto trasferendo enormi masse di capitali da un investimento all’altro, per prestiti da usurai, o per far crescere o calare una borsa, una moneta, ed avere così guadagni speculativi; guadagni, cioè, ottenuti non perché si è contribuito ad un aumento di ricchezza (produzione), in qualche parte del mondo, ma semplicemente perché si è speculato sui più deboli ed inesperti, cioè si è rubato loro elegantemente e legalmente capitali in deposito.
Anche negli investimenti, allora, bisogna introdurre la domanda di trasparenza, per sapere come sono usati i nostri risparmi e poter fare una scelta etica, di bene comune, di bene globale e non finanziare, invece, con essi ciò che distrugge o degrada l’umanità.
In pratica, bisogna incominciare a preferire quegli investimenti che ci garantiscono un determinato uso del capitale versato. Anche qui ci sono già delle possibilità concrete, già ampiamente sperimentate, ad esempio le MAG (Mutua Auto-Gestione) e soprattutto Banca Etica.
È un inizio, è una goccia nel mare, me se le scelte in questa direzione si moltiplicano, diventa un cammino di rinnovamento etico degli investimenti, che potrebbe anche contagiare altri istituti di credito o operatori finanziari che operano in modo tradizionale.
Una parte dei miei risparmi, potrebbe andare anche allo Stato. O per dovere, e sono le tasse, le imposte, che non posso in coscienza negare a chi deve provvedere al bene comune (strade, sicurezza, istruzione, ecc.), o per scelta, e sono investimenti che posso fare in titoli di Stato.
Ebbene anche qui mi devo chiedere che uso ne fa lo stato dei soldi che io ho versato. Se mi accorgo che c’è un uso immorale (clientelare, di sfruttamento, di invio di armi in paesi in conflitto, o per sostenere strutture inique), devo intervenire: come?
Anzitutto con il voto, cambiando cioè l’indirizzo del prossimo governo. Ma poi, ritirando anche i miei risparmi, se non ci fosse cambiamento alcuno. E se, in coscienza, l’immoralità mi sembra molto grave e pericolosa per l’umanità, anche l’obiezione fiscale ad una parte del bilancio. Azione questa che ha un costo notevole per chi la fa, ma proprio per questo rappresenta un forte dissenso. È il caso dei nuovi modelli di difesa; difesa dei nostri privilegi in casa dei paesi poveri; difesa che, tra l’altro, appare come anticostituzionale; c’è chi, in coscienza, si sente obbligato ad obiettare a questo capitolo di spesa dello stato (un capitolo fortemente condizionato dalla politica internazionale degli alleati).
Sono tutte azioni in vista di una moralizzazione dello stato, azioni che vanno valutate in coscienza, alla luce del bene comune e non d’altro.
Le comunità energetiche
Le fonti energetiche rinnovabili permettono di modificare radicalmente le modalità di produzione e utilizzo coinvolgendo direttamente le comunità locali. Il vettore elettrico rappresenta di fatto il vero cambiamento nella distribuzione ed utilizzo dell’energia.
Questa modalità innovativa e partecipata si evidenzia nello sviluppo delle Comunità energetiche che rappresentano un cambiamento significativo del rapporto che le persone hanno con le fonti energetiche.
Oggi poco conosciamo dell’energia che consumiamo e siamo abituati a pensare giustamente che venga da lontano e sia gestita in modo centralizzato. Questa modalità di erogazione è stata imposta dalle peculiari caratteristiche delle fonti fossili. Il problema più rilevante di questo rapporto con l’energia è che non immaginiamo quale sia l’impatto ambientale per produrla, come è governata e distribuita e soprattutto in che modo viene stabilito il suo prezzo. In definitiva le fonti fossili sono nelle mani di pochi e sono governate in modo lineare e gerarchico: non generano democrazia neppure nei paesi dove vengono estratte. La dipendenza dalle fonti fossili non permette nessuna innovazione dei sistemi produttivi generando di fatto la crisi climatica che pregiudica la qualità di vita delle specie viventi del pianeta.
Una comunità energetica è un’associazione composta da enti pubblici locali, aziende, attività commerciali o cittadini privati, i quali scelgono di dotarsi di infrastrutture per la produzione di energia da fonti rinnovabili e l’autoconsumo attraverso un modello basato sulla condivisione. Si tratta dunque di una forma energetica collaborativa, incentrata su un sistema di scambio locale per favorire la gestione congiunta e lo sviluppo sostenibile e per ridurre la dipendenza energetica dal sistema elettrico nazionale.
Le comunità energetiche vanno oltre la soddisfazione del fabbisogno energetico: infatti, incentivano la nascita di nuovi modelli socioeconomici caratterizzati dalla circolarità. In una comunità energetica i soggetti sono impegnati nelle diverse fasi di produzione, consumo e scambio dell’energia, secondo i principi di responsabilità ambientale, sociale ed economica e di partecipazione attiva in tutti i processi energetici.
Il funzionamento di una comunità energetica prevede il coinvolgimento di una serie di soggetti privati e/o pubblici, i quali costituiscono un ente legale per produrre energia elettrica attraverso fonti rinnovabili come gli impianti fotovoltaici. Quest’ultimi possono essere condivisi, come nel caso di una centrale fotovoltaica o eolica a disposizione della collettività, oppure individuali, come per esempio un sistema fotovoltaico installato sul tetto di una casa, di un’azienda, di una sede di un’amministrazione pubblica o di un condominio.
In questo modo i consumatori passivi (consumer) si trasformano in consumatori attivi e produttori (prosumer), in quanto sono dotati di un proprio impianto per la generazione di energia elettrica per l’autoconsumo, cedendo la parte di energia in eccesso agli altri soggetti collegati alla smart grid. Quest’ultima è un’infrastruttura intelligente che collega tutti i soggetti della comunità energetica, la quale potrebbe comprendere anche sistemi evoluti di storage per l’accumulo dell’energia elettrica non immediatamente utilizzata.
Il cambiamento quindi della produzione di energia con il passaggio alle rinnovabili permette di contrastare in modo decisivo la crisi climatica e di rispondere in modo partecipativo e condiviso alla sfida della pace e delle autonomie e auto-produzioni di energia.
Nutrire la Pace
Nel mondo opulento è in atto una crescente concentrazione di terre e risorse in poche mani, gran parte della produzione mondiale di cibo resta ancorata all’attività di oltre 500 milioni di piccole aziende agricole di taglia familiare, che presidiano il territorio, assicurando sussistenza e nutrimento a una parte rilevante della popolazione globale, generalmente con impatti più accettabili sulle risorse e sugli ambienti naturali: insieme alla fertilità della terra, l’agricoltura contadina costituisce la più grande risorsa di resilienza del sistema alimentare globale. Una risorsa che però è destinata a soccombere rispetto alle dinamiche socioeconomiche che animano il comparto dell’agricoltura, ed anche rispetto alle politiche pubbliche dei Paesi che attuano misure di sostegno al reddito.
L’Italia, da questo punto di vista, non fa certo parte del novero dei virtuosi. Al contrario, il recepimento della PAC nel nostro Paese è avvenuto con modalità fortemente conservative delle rendite che, fino alla riforma europea avvenuta a cavallo del nuovo secolo, erano state posizionate per assecondare un’agricoltura continentale grande produttrice di eccedenze. L’Italia, diversamente da altri Paesi, non ha voluto cogliere la portata di quelle riforme e ha continuato a dosare la distribuzione delle risorse europee per favorire i grandi produttori e la concentrazione delle terre migliori, perdendo il presidio colturale e produttivo nelle aree interne, in un sistema in cui l’80% degli aiuti al reddito è intercettato dal 20% delle aziende agricole maggiori per superfici o numero di capi allevati. A livello politico, attraverso la rappresentanza nelle istituzioni europee, l’Italia si distingue nel contrasto alle strategie del Green Deal che investono un sistema agricolo riconosciuto come eccessivamente dipendente da input agroindustriali. Siamo in prima linea nello sforzo teso a vanificare gli sforzi europei per una transizione agro-ecologica atta a modificare in senso di maggiore sostenibilità (ambientale e socio-sanitaria) il food system europeo.
La transizione agroecologica è necessaria per affrontare le sfide di un pianeta in cui si toccano con mano i limiti naturali delle risorse naturali accessibili, divenute ormai terreno aperto di contesa, accaparramento e conflitto, la missione dell’Europa è quella di costruire un ponte per affrontare questa transizione, sfidando i flutti della geopolitica del cibo e le bordate delle lobby agroindustriali.
Gruppo di lavoro: Sergio Bassoli – CGIL; Piergiulio Biatta – Opal; Antonella Visintin – Glam; Fausto Costero – Usacli; Valentina Orazzini – FIOM; Carlo Cefaloni – Movimento Focolari – Città Nuova; Marzio Marzorati – Legambiente; Gianni Alioti -Weapon Watch; Luciano Benini – Mir; Ermete Ferraro – Mir; Enzo Ferrara – Centro Studi Sereno Regis; Ascanio Bernardeschi – Gruppo Pace e Disarmo di Volterra.
[1] Diretti dal Prof. Emiliano Brancaccio.
[2] Diretti dal Prof. Emiliano Brancaccio.
[3] Tale società è nata acquisendo i siti di Irisbus, dismessi dall’Iveco-Fiat ai tempi di Marchionne, e della Breda Menarini, sempre di Finmeccanica.
[4] È il caso, ad esempio, dei costi unitari dello Joint Strike Fighter F35. Rispetto a quelli del precedente caccia multi-ruolo F16 (costo unitario di 14,6 milioni di dollari) un caccia multi-ruolo F35, al 12° lotto di produzione, costa mediamente oltre cento milioni di dollari (7 volte tanto). Stesso discorso per la produzione di carri armati. Mentre un tank M60 costava negli anni ‘70 intorno a 700 mila dollari, il tank Abrams che lo ha sostituito costa mediamente 8,9 milioni di dollari (12 volte tanto).
[5] Nella relazione offerta nel seminario promosso recentemente presso il CNEL dal Forum Diseguaglianze.
[6] Esiste un’ampia letteratura, sostenuta da studi specifici, in cui si dimostra che con gli stessi soldi con i quali si crea un posto di lavoro nell’industria militare, se ne creano 10-20 nella green economy o nei settori della micro-elettronica, dell’automazione industriale, dei mezzi di trasporto…