Un anno dopo il workshop italo-tedesco tenutosi a Villa Vigoni , gli organizzatori Gabriella Corona (Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Studi Mediterranei) e Christof Mauch (Centro Rachel Carson) si sono incontrati per discutere delle tradizioni nazionali, delle questioni attuali e delle sfide future nella storia ambientale in Germania e in Italia. Quella che segue è una nostra e quasi integrale traduzione del dialogo che chiude il numero monografico 2/2020 della rivista “Rachel Carson Center Perspecitves” dedicato all’incontro e curato da Claudio de Majo e Roberta Biasillo col titolo Storytelling and Environmental History: Experiences from Germany and Italy . L’edizione italiana è invece uscita, sempre a cura di Roberta Biasillo e Claudio de Majo, col titolo Le storie della Storia Ambientale. Esperienze da Germania e Italia .
Gabriella Corona . C’è in questo momento nella storia ambientale tedesca un argomento o un dibattito chiave?
Christof Mauch . Siamo nel bel mezzo di una pandemia. Se al momento c’è un dibattito riguarda ciò che sta accadendo nel mondo: la crisi del Covid-19 e il razzismo negli Stati Uniti, in Germania e altrove. Entrambi questi argomenti sono strettamente collegati alle questioni ambientali. Essi portano alla luce questioni chiave dell’ingiustizia ambientale e sociale. Al Rachel Carson Center (RCC), questi due argomenti vengono dibattuti quotidianamente. Quando lo scorso anno eravamo sul Lago di Como, il mondo sembrava così tranquillo, il paesaggio così piacevole. Oggi le cose sembrano diverse, molto diverse. La situazione attuale ci ha reso consapevoli di vulnerabilità e disuguaglianze dei nostri sistemi che prima non erano così visibili e di questo, in un certo senso, dovremmo essere grati. La crisi ha politicizzato e messo in movimento la nostra comunità accademica. Al RCC sono previsti diversi progetti sulle minacce pandemiche. Gregg Mitman e un team di giovani studiosi stanno utilizzando l’esempio dell’Africa occidentale per esaminare l’intersezione tra sfruttamento coloniale delle risorse naturali, razzismo ed emergere di nuovi tipi di malattie infettive. Il suo gruppo di ricerca del RCC finanziato dall’Unione Europea studierà anche il modo in cui i cambiamenti ambientali hanno generato la crescita di nuovi agenti patogeni. Un altro progetto, un progetto empirico di antropologia medica, studierà come la vulnerabilità al Covid-19 sia distribuita in modo non uniforme tra i diversi gruppi sociali a Monaco. Questi sono gli argomenti che ci stanno a cuore oggi e sono strettamente collegati ai dibattiti politici in corso nel nostro paese e altrove. So che gli storici ambientali in Italia hanno studiato l’impatto dell’attuale pandemia nelle aree agricole e che hanno scoperto che le aree di agricoltura ad alta intensità mostrano fino a cinque volte più infezioni rispetto alle aree rurali a basso consumo energetico.
Gabriella Corona . Si, ci sono stati alcuni interessanti studi condotti in particolare all’Università di Firenze ma credo che le loro ipotesi vadano attentamente valutate, così come l’intera idea di un rapporto diretto tra Covid-19 e inquinamento. Occorre infatti capire fino a che punto il rapporto tra popolazioni fortemente colpite dalla pandemia nelle aree ad agricoltura intensiva sia correlato ad altre variabili. Queste aree sono infatti situate in territori pianeggianti e per lo più densamente popolati. Forse è questo a spiegare i tassi più elevati di infezione? La relazione tra inquinamento e Covid-19 necessita ancora di ulteriori indagini. Un aspetto che gli storici ambientali potrebbero trovare interessante per la ricerca è il rapporto tra sconvolgimenti ambientali e nuove pandemie: quanto sono intrecciati? E come si può spiegare la relazione tra loro? I cambiamenti climatici, il disboscamento delle foreste, la creazione di gigantesche megalopoli, l’industrializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento e la riduzione della biodiversità sembrano aver alterato il rapporto tra uomo e animale, favorendo salti patogeni come l’HIV, l’Ebola e la Sars e il Mers
Christof Mauch . Oltre alla ricerca sulle pandemie, e molto prima dell’attuale crisi, gli storici ambientali in Italia si sono concentrati sulle catastrofi: inondazioni e smottamenti, terremoti ed eventi tossici.
Gabriella Corona . Sì, è così. Dalla fine del secolo scorso il tema delle catastrofi, naturali e non, è stato un tema centrale nella storiografia italiana e mi sembra che grazie a ciò i dibattiti e le riflessioni sul rapporto tra natura e società si siano intensificati. Tutto questo viene di solito analizzato attraverso la categoria della resilienza, cioè il modo attraverso cui ci relazioniamo ad eventi catastrofici e distruttivi. Si pensi alla letteratura su terremoti, dissesti idrogeologici, smottamenti e alluvioni: gli studi di Emanuela Guidoboni all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia di Bologna, il lavoro di Walter Palmieri su frane e alluvioni, la ricerca di Giacomo Parrinello sui terremoti, e il lavoro di Gabriella Gribaudi e il suo gruppo di ricerca dell’Università degli Studi di Napoli Federico II sul terremoto del 1980 che ha colpito alcune regioni del Mezzogiorno. Queste ricerche hanno origine dalle caratteristiche ambientali e storiche dell’Italia, un Paese geologicamente fragile e altamente sismico dove il 77 per cento del territorio è costituito da zone montuose e collinari. A partire dagli anni Cinquanta, la Grande accelerazione ha costretto la popolazione a spostarsi dalle zone montuose collinari alle zone vicine alla costa, che costituiscono appena il 23 per cento della superficie terrestre del Paese. Questo spostamento ha portato allo spopolamento delle aree interne dell’Italia, accompagnato da gigantesche pressioni e sconvolgimenti socio-ambientali, con conseguenze ambientali e sociali disastrose. La questione dell’entroterra è oggi uno dei temi più rilevanti nel dibattito pubblico italiano. Per quanto riguarda gli storici ambientali sono nate molte associazioni per affrontare questi temi, analizzandoli attraverso il contesto storico, creando una sorta di esercizio della memoria con le comunità locali con l’obiettivo di supportare gli abitanti vulnerabili. La storia ambientale che si converte in public history è un fenomeno molto comune in Italia. Questa conversione è avvenuta ad esempio tra le comunità colpite dal terremoto del 2016 e del 2017. Augusto Ciuffetti e Rossano Pazzagli sono tra i principali protagonisti di questa storiografia militante volta a supportare le comunità nei processi di ricostruzione partecipativa e dal basso dopo eventi catastrofici al fine di riscoprire il valore dei luoghi. Questi studi si concentrano sulla storia delle montagne sia nella loro dimensione ambientale che sociale, intrecciano la storia di alberi e suoli con quella delle comunità e del governo di questi territori. Attraverso un approccio di lunga durata partono dal Medioevo per arrivare ai giorni nostri. Esistono anche percorsi di ricerca che approcciano la storia delle Alpi in una prospettiva di lungo periodo: qui lo studio della montagna si intreccia con quello dei beni comuni. Questi studi stanno portando risultati interessanti e la ricerca di Giacomo Bonan sui boschi cadorini ne è un buon esempio.
Christof Mauch . Ma la resilienza è una categoria interpretativa che in Italia viene utilizzata anche in altri contesti, anche al di là della “natura”: non è vero? La storia ambientale italiana si è focalizzata anche molto sui fattori sociali, sul lavoro, sulla salute e il benessere delle classi lavoratrici, sull’industria …
Gabriella Corona . Sì, la categoria di resilienza è stata applicata anche allo studio delle catastrofi industriali e oltre che il rapporto tra lavoro e natura essa mette in discussione anche il rapporto tra salute e ambiente. Questa è una tendenza nuova e interessante che si sta sviluppando grazie alle ricerche di studiosi come Stefania Barca, Bruno Ziglioli, Elena Davigo e Salvatore Romeo. Questo tema prende in considerazione la rivoluzione postindustriale come un aspetto rilevante della Grande accelerazione. Su questi argomenti abbiamo di recente pubblicato un numero della rivista di scienze sociali “Meridiana”. Qui le problematiche legate alla decontaminazione delle sostanze tossiche si intrecciano con quelle legate alla povertà e alla disperazione sociale, alle malattie e alla crisi del sistema del lavoro. Il neoliberismo è anche legato all’immensa devastazione causata dalla modernizzazione. La bonifica ambientale di queste aree è fortemente legata alla questione della conoscenza scientifica delle sostanze tossiche, alla definizione di soglie ecologiche e alla storia delle burocrazie impegnate nei recuperi e nella percezione del rischio. Questa è la storia di un gran numero di aree situate nell’hinterland intorno a Milano e Napoli, così come di molti altri territori del nord Italia e di territori lungo le coste e le isole. Ma anche la Germania ha una notevole ricerca sulle catastrofi da inquinamento industriale e sull’intreccio tra storia economica e storia ambientale, vero?
Christof Mauch . Si, certo. Un paio di eccellenti studiosi, Roman Köster e Heike Weber, hanno lavorato all’incrocio tra storia economica e storia ambientale conducendo ricerche innovative sulla storia dei rifiuti in Germania e in Europa occidentale. Le catastrofi tossiche hanno anche svolto un ruolo importante anche nella ricerca recente, incluso il progetto di Simone Müller sui “viaggi pericolosi” che esamina l’economia globale dei rifiuti e in particolare il commercio internazionale di materiali tossici dal 1970 circa. Uno dei ricercatori del team di Simone, Jonas Stuck, lavora sui milioni di tonnellate di rifiuti tossici che la Germania occidentale ha esportato nel suo vicino della Germania orientale, la RDT, durante la Guerra Fredda. I viaggi di rifiuti tossici illuminano disuguaglianze e ingiustizie in tutto il mondo. L’interesse per la tossicità è relativamente recente nella storia ambientale tedesca – l’Italia è molto più avanti – ma l’inquinamento urbano è stato a lungo uno degli interessi chiave degli storici ambientali tedeschi.
Gabriella Corona . Diresti anche tu – questa è infatti la mia impressione – che la storia ambientale urbana sia stata piuttosto importante in Germania? Più ancora che altre aree di studio e di ricerca? E se è così, perché?
Christof Mauch . Beh, la storia ambientale urbana è stata piuttosto forte, specialmente alla Technische Universität di Darmstadt con Dieter Schott e i suoi colleghi e a quella di Berlino con Dorothee Brantz, che gestisce il Centro di storia metropolitana. Il volume Greening the City: Urban Landscapes in the Twentieth Century, che Dorothee ha scritto insieme a Sonja Dümpelmann, è ancora una specie di bibbia sull’argomento. In confronto agli Stati Uniti, dove la storia ambientale proviene da un dibattito politico e da un discorso accademico probabilmente più focalizzato sulla natura selvaggia, la storia ambientale tedesca affonda le sue radici nella storia sociale ed economica. Alcuni storici socio-economici, e in particolare Franz-Josef Brüggemeier, hanno precocemente integrato le questioni ambientali nei loro studi. Brüggemeier ha scritto della Ruhr, la più grande area urbana della Germania dopo Berlino. Egli è stato ispirato, credo, dal cancelliere Willy Brandt che ha operato secondo il motto “che il cielo sopra la Ruhr diventi di nuovo blu”. L’inquinamento industriale era già entrato in dibattiti politici ad alto livello negli anni ’60 e Brüggemeier e in seguito altri come Frank Uekötter hanno sviluppato un interesse, se così si può dire, per le ciminiere che sin dagli anni ’50 sono state un simbolo sia del Wirtschaftswunder (il miracolo economico) che dei grandi inquinamenti ambientali. La Germania del resto è molto urbanizzata, più dell’Italia, ed è solo meno di un quarto dei tedeschi a vivere in piccole città con meno di 5000 abitanti. Magari può essere troppo semplice presumere che l’alto grado di urbanizzazione spieghi l’interesse degli studiosi per la storia ambientale urbana, ma potrebbe essere un fattore. Detto questo va aggiunto che per ogni articolo o libro di storia ambientale che i tedeschi hanno scritto sulle città ne troverai uno sulle foreste. Gli storici ambientali tedeschi hanno scritto molto sulla silvicoltura e sulla conservazione della natura. Penso a studiosi di generazioni diverse: Martin Bemmann e Bernd Grewe, Richard Hölzl e Joachim Radkau, Sigrid Schwenk e Johannes Zechner. Der deutsche Wald (la foresta tedesca) è sempre popolare; la ricerca sulle foreste tedesche è un “evergreen”. Ma permettetimi di tornare all’argomento della resilienza che trovo particolarmente stimolante. Trovo molto illuminante la tua analisi della resilienza come concetto chiave negli studi ambientali. Ora, un’area che non hai menzionato è il clima. La resilienza climatica è un concetto chiave negli studi ambientali e, in una certa misura, anche nella storia ambientale. In Germania, gli storici dell’ambiente – Uwe Lübken e Franz Mauelshagen, per esempio – si sono interessati ad argomenti come [105] la migrazione climatica. Gli storici ambientali tedeschi, svizzeri, cechi, britannici e francesi hanno mostrato grande interesse per la storia del clima e la climatologia storica. E in Italia?
Gabriella Corona . Utilizzando il concetto di resilienza la ricerca contemporanea sul modo in cui l’Italia ha storicamente affrontato crisi e catastrofi non ha ancora affrontato i rischi posti dal cambiamento climatico. La mia speranza è che questa linea di ricerca venga affrontata presto, poiché abbiamo una grande quantità di dati disponibili che dettagliano i rischi posti dal cambiamento climatico, soprattutto per quanto riguarda gli ultimi venticinque anni. A questo proposito, una caratteristica peculiare della storiografia ambientale italiana è che non dialoga molto con le cosiddette scienze dure. Essa ha avuto piuttosto la tendenza a impegnarsi con le scienze sociali e in particolare con la sociologia, l’economia, la demografia, l’urbanistica, la geografia e le scienze politiche. Un’eccezione è costituita dalle collaborazioni con geologi, ingegneri sismici e idraulici e agronomi, che hanno rappresentato importanti partner per gli storici ambientali mentre c’è stato poco dialogo con biologi, climatologi, epidemiologi, botanici, chimici e fisici. I tedeschi sarebbero quindi più interessati ai cambiamenti climatici e gli italiani più alle catastrofi naturali?
Christof Mauch . Beh, è un suggerimento interessante! A prima vista può sembrare paradossale perché l’Italia e la regione mediterranea nel suo insieme hanno maggiori probabilità di soffrire di condizioni meteorologiche estreme causate dal riscaldamento globale rispetto al centro o al nord Europa. Se questo è vero, perché gli italiani non sono interessati alle questioni climatiche? Per quanto riguarda la ricerca sulle catastrofi naturali, i tedeschi sembrano essere ossessionati dalle inondazioni più che da qualsiasi altro tipo di catastrofe e questo potrebbe essere dovuto al fatto che non abbiamo molti terremoti, valanghe o smottamenti. Ma potrebbe anche essere dovuto al fatto che la Germania ha una serie di grandi fiumi: il Reno, il Danubio, l’Oder e l’Elba, nonché circa 200 fiumi più piccoli che scorrono per più di 50 chilometri, una lunghezza considerevole. L’onnipresenza di fiumi e ruscelli in tutta la Germania potrebbe quindi spiegare il forte interesse per la storia ambientale delle inondazioni. Studiosi come Dieter Schott, Guido Poliwoda, Felix Mauch e Christoph Bernhard hanno studiato i fiumi Elba e Reno; altri, come Elenora Rohland e Uwe Lübken, si sono concentrati sulle inondazioni e sulle catastrofi al di fuori della Germania. Gli storici tedeschi si sono anche – ipotizzo più degli storici italiani – interessati agli incendi, alle catastrofi della prima età moderna, alle mareggiate e alle questioni assicurative. Penso a studiosi come Manfred Jakubowski-Tiessen, Cornel Zwierlein, Elenora Rohland e Franz Mauelshagen. Gli storici ambientali della Prima età moderna, in particolare, provengono da una tradizione di storia intellettuale. E ci sono anche alcuni grandi studiosi che si sono concentrati sulle catastrofi nucleari: la più importante tra loro è Melanie Arndt.
Gabriella Corona . All’inizio della nostra conversazione quando ti ho chiesto delle discussioni di storia ambientale in corso in Germania hai parlato della pandemia ed è stato tutto molto interessante. Ma permettimi di riproporti il senso principale della mia domanda: ci sono controversie di ricerca tra gli storici ambientali tedeschi riguardo al passato della Germania?
Christof Mauch . Questa è una domanda che fa riflettere. Vere polemiche e dibattiti accesi non credo che esistano più e la tua domanda mi interroga sull’attuale cultura del dibattito storico. Una delle grandi storie ambientali della Germania, ad esempio, cioè Schranken der Natur (Porte della natura) di Franz-Josef Brüggemeier, “sdrammatizza” la storia ambientale tedesca, come ha scritto un recensore: non è né una storia catastrofista sulla distruzione della natura né mette in primo piano argomenti politici attuali come il cambiamento climatico. Un tempo invece gli storici tedeschi erano ansiosi di discutere e i media tedeschi erano generalmente felici di offrire loro una piattaforma. Uno dei dibattiti storici più famosi, l’Historikerstreit (litigio degli storici) degli anni ’80, riguardava i crimini della Germania nazista, compresa la loro comparabilità con i crimini dell’Unione Sovietica. Per quanto riguarda l’ambiente, abbiamo assistito anche ad alcuni accesi dibattiti tra gli storici tedeschi un paio di decenni fa su Holznot, la carenza di legno nel XVIII secolo. Alcuni storici hanno preso i documenti alla lettera, mentre altri hanno affermato che l’Holznot fu una costruzione politica e che che l’argomento della scarsità di legno servisse alle élite e fosse usato per privare i contadini dell’accesso alle foreste. Un altro dibattito più recente ha riguardato la conservazione della natura nella Germania nazista. Alcuni storici hanno sostenuto che i nazisti hanno lavorato mano nella mano con gli ambientalisti, mentre altri hanno sottolineato le loro differenze ideologiche. Ai lati opposti di questo dibattito si sono situati Joachim Wolsche-Buhlmann e Frank Uekötter. Attualmente sono coinvolto in un progetto sul primo parco nazionale della Germania che festeggia il suo 50 ° anniversario nel 2020 …
Gabriella Corona . Un evento piuttosto tardivo, no? Negli Stati Uniti, i parchi nazionali sono stati istituiti nel diciannovesimo secolo mentre in Italia il Parco Nazionale del Gran Paradiso risale al 1922 e altri parchi furono istituiti negli anni ’20 e ’30.
Christof Mauch . Sì, la Germania è arrivata in ritardo. La mia idea è che le due guerre mondiali abbiano fatto della Germania un paese ritardatario ma è ovvio anche che l’Italia ha avuto una storia simile e due guerre mondiali. Forse una delle differenze tra i nostri due paesi è che l’Italia aveva spazi più incontaminati e remoti di cui non importava a nessuno.
Gabriella Corona . Tu speravi di fare un punto sul primo parco nazionale della Germania, il Nationalpark Bayerischer Wald …
Christof Mauch . Sì. Uno dei nostri ricercatori ha scoperto che la maggior parte delle idee e dei progetti che i nazisti si rivendevano come radicalmente nuovi possono essere fatti risalire al periodo di Weimar. Cinque dei loro sei progetti di parco nazionale – nessuno dei quali fu mai realizzato sotto Hitler – furono in realtà proposti già durante gli anni ’20. In realtà i nazisti, progettando un parco transnazionale con la Cecoslovacchia, utilizzarono il pretesto della conservazione della natura per nascondere i loro piani di l’espansione del Reich a est. Questa osservazione mi porta a un altro punto, e cioè che gli storici ambientali tedeschi non sono molto “nazionali”. La maggior parte di noi non lavora infatti sulla Germania vera e propria: io lavoro principalmente negli Stati Uniti ma lo stesso vale per Elena Rohland, Dorothee Brantz e Uwe Lübken. Molti dei dottorandi che hanno terminato i loro studi a Monaco hanno lavorato negli Stati Uniti, Canada, Brasile, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Scandinavia, eccetera. Melanie Arndt, che detiene una cattedra di Storia sociale, economica e ambientale della Germania, è un’orientalista e lo stesso vale per Julia Herzberg. Molti di noi lavorano sulla storia ambientale internazionale, cioè su questioni globali, comparative e transatlantiche: è il caso di Jan-Henrik Meyer, Iris Borowy Frank Uekötter, Joachim Radkau e Sonia Dümpelmann. Libri come The Age of Ecology e Nature and Power di Radkau sono veramente di natura globale e hanno probabilmente più lettori all’estero che in Germania. Gli studiosi tedeschi hanno prodotto ricerche non tanto tedesche quanto regionali – penso a studiosi come Martin Knoll e studiosi che hanno lavorato nella Germania orientale come Astrid Kirchhof, Sebastian Strube e Tobias Huff – e transnazionali. Al Rachel Carson Center abbiamo appena avviato un progetto con partner britannici che guarda alla protezione della natura attraverso una prospettiva transnazionale. Uno dei singoli progetti di ricerca – quello di Pavla Šimková – si occupa dell’intreccio della storia della Selva Boema nella Repubblica Ceca e della Foresta Bavarese. Un altro, seguito da Katie Ritson, guarda il mare di Wadden tedesco-olandese. Alcuni studiosi hanno anche svolto un lavoro comparativo: Birgit Urmson ha lavorato sull’ambiente dei cimiteri di guerra in Italia e Germania; Talitta Reitz sta confrontando le politiche di Monaco e Portland riguardo all’uso della bicicletta, mentre Dorothee Brantz ha confrontato i macelli di Berlino, Chicago e Parigi. Mi sembra quasi che i tedeschi si stiano allontanando da argomenti specificamente nazionali. Ma permettetemi di tornare in Italia e alla “questione delle origini”, cioè alla domanda sulle radici della storia ambientale in Italia. Quando penso alla storia ambientale italiana, mi sembra, Gabriella, che la ricerca nel tuo paese nasca spesso dalla storia sociale. Sembra essere il caso della Scuola di storia ambientale di Napoli da cui provenite tu, Stefania Barca e Marco Armiero. Gli storici ambientali italiani sembrano essere veramente impegnati e piuttosto politici. C’è una forte attenzione ai movimenti ambientali e ai conflitti ambientali e diversi studiosi si ispirano all’ecologia politica. Condivideresti questa impressione?
Gabriella Corona . Marco Armiero e Stefania Barca stanno sviluppando una linea di ricerca che nasce dall’ecologia politica intrecciata con la pratica dei movimenti di protesta e dell’ambientalismo. È un contributo molto importante. Inoltre, è stato grazie al loro impegno che si a Stoccolma si è formato un gruppo di giovani ricercatori italiani – tra cui Roberta Biasillo, Wilko Graf von Hardenberg, Gilberto Mazzoli e Daniele Valisena – che ha il merito di aver sprovincializzato la storiografia italiana dandogli un carattere internazionale. Ma ci sono anche altri gruppi in Italia il cui lavoro storiografico è caratterizzato da un forte impegno politico e civile. È il caso ad esempio di quello associato alla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia che è stato messo in piedi e animato principalmente da Giorgio Nebbia, Pier Paolo Poggio e Marino Ruzzenenti, che svolge ricerche sui conflitti legati all’inquinamento e sulla storia dell’ambientalismo e che pubblica la rivista digitale “altronovecento”. È il caso di ricercatori come Luigi Piccioni ma anche Piero Bevilacqua nelle sue ricerche più recenti ha scritto libri – come ad esempio La terra è finita e Miseria dello sviluppo – che hanno una forte impronta di ecologia politica. Ma questa è solo una parte della storiografia italiana. La storia ambientale italiana è in realtà un campo molto ricco e complesso che però non riceve di solito riconoscimenti dal mondo accademico. Da ciò conseguen che anche studi con un’identità meno “militante” sono ispirati da una profonda esigenza di impegno civile e da un forte legame con il dibattito pubblico. Noi, ad esempio, abbiamo sempre “parlato” con studenti, docenti, funzionari pubblici e politici e siamo stati presenti sui media e sui social network e in questo senso abbiamo sempre avuto un’agenda riformista legata ai partiti di sinistra e alle associazioni ambientaliste. Per quanto riguarda le origini, la storia ambientale italiana viene comunemente fatta risalire alla fine degli anni Ottanta quando Alberto Caracciolo organizzò a Roma una grande mostra dal titolo L’ambiente nella storia d’Italia.
Christof Mauch . Ma le radici della storia ambientale italiana vanno più indietro nel tempo …
Gabriella Corona . Sì: col senno di poi appare chiaro che la storia ambientale segue una traiettoria tracciata molti anni prima negli anni Sessanta dagli studi storici sul paesaggio agrario e prende spunto da questa disciplina. È una storiografia che emerge dal marxismo influenzato dal pensiero di Antonio Gramsci. Questi studi hanno analizzato il contributo delle classi lavoratrici, sia in termini di manodopera che di valore aggiunto, alla creazione di un’ampia e diversificata gamma di paesaggi agricoli come le risaie del nord Italia, i pregiati campi agricoli del nord della Toscana, i gelseti della Calabria, gli uliveti della Puglia, gli orti della Campania, i mandorleti e gli agrumeti della Sicilia. Il libro più emblematico sulla storia del paesaggio è senz’altro la Storia del paesaggio agricolo italiano di Emilio Sereni. Una storiografia sociale molto attenta al territorio emerse negli anni Ottanta a partire da questa cultura fortemente influenzata dalla scuola delle “Annales” e in particolare da Marc Bloch (Les caractères originaux de l’histoire rural française e Apologie pour l’histoire) e dal geografo Vidal de la Blache. Gran parte di questa ricerca (Piero Bevilacqua, Giuseppe Barone, Augusto Placanica, e altri) ha contribuito ai volumi collettivi editi da Einaudi dal titolo Le regioni nella storia d’Italia. Altri filoni che hanno contribuito alla nascita di una ricerca più attenta al rapporto tra natura e società sono derivati ??dalla storia dell’economia e dell’energia (Alberto Caracciolo, Paolo Malanima, Ercole Sori) o dall’ecologia storica di Diego Moreno, un esponente di una corrente storiografica di grande prestigio in Italia chiamata “micro-storia”. Influenti sono state anche la ricerca di Catia Papa sui movimenti ambientalisti e quella di Elisabetta Bini sul nucleare. Una tendenza più esplicita nelle ricerche di storia ambientale è emersa però solo nel corso degli anni Novanta. Un contributo decisivo è stato dato da Piero Bevilacqua e dal gruppo raccolto attorno alla rivista “I frutti di Demetra”, un movimento mosso dalla consapevolezza che le categorie che erano state utilizzato fino a quel momento per analizzare il rapporto tra natura e società erano obsolete e inadeguate per rispondere a nuove domande derivanti da questioni ambientali e climatiche internazionali. Era quindi necessario trovare nuove fonti e nuove categorie interpretative. Il libro di Piero Bevilacqua Tra natura e storia, ad esempio, per me è stato illuminante in quanto rappresentava un punto di svolta nel considerare la natura come soggetto storico e come partner cooperante nella produzione di ricchezza. Oggi la natura è presa in considerazione come una risorsa, come qualcosa di perennemente vivo, che si riproduce costantemente, con i propri tempi e le proprie leggi non più una materia storiografica inerte. In quegli anni abbiamo insomma iniziato a capire che dovevamo criticare molte delle categorie intellettuali su cui avevamo ragionato fino ad allora, e soprattutto quella dello sviluppo, che stava perdendo il suo significato universalmente positivo. A partire da quel periodo la ricerca sui boschi italiani è stata condotta da Marco Armiero, Mauro Agnoletti, Walter Palmieri, Renato Sansa e Pietro Tino mentre altrettanto importanti sono state le ricerche di Luigi Piccioni sulla storia della tutela ambientale, gli studi sull’acqua di Stefania Barca e quelli di Federico Paolini sulla storia dei trasporti. Per quanto mi riguarda, è stato grazie a un viaggio negli Stati Uniti che ho iniziato a scoprire con entusiasmo quanto la questione dei commons potesse aiutarci a comprendere e interpretare meglio le disastrose implicazioni sociali e ambientali legate alla costruzione dei mercati capitalisti, e quanto questa potesse essere una chiave interpretativa globale per la storia ambientale.
Christof Mauch . In quegli anni, in cui la storia ambientale italiana si internazionalizzava, tu sei andata negli Stati Uniti e ti sei impegnata insieme ad altri italiani in un gruppo internazionale di storici dell’ambiente urbano.
Gabriella Corona . Si, è così. Simone Neri Serneri ed io ci siamo impegnati in un gruppo internazionale di storici dell’ambiente urbano, il che ci ha permesso di sviluppare nuove categorie interpretative per lo studio delle realtà urbane da un punto di vista ambientale, come la città come ecosistema e il concetto di metabolismo urbano. Non c’è dubbio che la nostra storia ambientale urbana è stata fortemente influenzata dalla storiografia tedesca e dai testi classici di Peter Sieferle e Joachim Radkau, così come dagli studi sull’inquinamento di Franz Josef Brüggemeier e dall’approccio tecnologico di Dieter Schott. Particolarmente memorabile per me è stata una conferenza tenuta a Clermont-Ferrand, i cui atti sono stati pubblicati in un libro intitolato The Modern Demon. Mentre continuavo a occuparmi di città, sviluppando il tema dell’urbanistica come aspetto rilevante della storia dell’ambientalismo in Italia con la pubblicazione del volumeI ragazzi del piano, Simone Neri Serneri pubblicava Incorporare la natura. Insieme, abbiamo costituito un gruppo di ricerca con Salvatore Adorno che studia il rapporto tra industrializzazione e ambiente.
Christof Mauch . Devo dire che sono impressionato dall’ampiezza degli argomenti che gli storici ambientali italiani hanno affrontato negli ultimi decenni. È anche interessante vedere come è possibile tracciare delle linee di pensiero continue dalle prime ricerche ad oggi: noi non abbiamo le stesse tradizioni in Germania. Lo studio dell’ambiente in Germania non ha una casa comune; in realtà non ne ha mai avuta; non abbiamo tradizioni o scuole di vecchia data. Per circa un decennio, l’Università di Gottinga è stata l’epicentro della storia ambientale in Germania. Qui due professori ordinari, il modernista Manfred Jakubowski-Thiessen e il biologo Bernd Herrmann, hanno creato e diretto una scuola di storia ambientale interdisciplinare. L’approccio di Herrmann era unico, ispirato contemporaneamente dalla zoologia e dall’antropologia. Alcuni dei suoi studenti, tra cui Jana Sprenger e Patrick Masius, hanno condotto ricerche all’avanguardia sui bruchi nella storia ambientale, sulla vipera comune e sui lupi. Ma a Gottinga non c’è più storia ambientale, e la scuola ha chiuso per sempre. Inoltre, pochissime delle ricerche condotte a Gottinga sono state pubblicate nelle riviste internazionali ed è un peccato che gran parte di queste ricerche abbiano avuto uno sbocco in lingua inglese. Questo è vero per la storia ambientale tedesca, e ancora di più per la storia ambientale italiana. Per me e per molti dei miei colleghi è stato emozionante e illuminante vedere una traduzione in inglese della vostra Breve storia dell’ambiente in Italia pubblicata dalla White Horse Press con il titolo A Short Environmental History of Italy: Variety and Vulnerability. E devo dire che l’incontro di Villa Vigoni di studiosi italiani e tedeschi lo scorso anno è stato un vero evento. Siamo stati in grado di discutere la nostra ricerca in inglese e abbiamo scoperto un grande potenziale per lo scambio e la collaborazione futuri.
Gabriella Corona . L’incontro di Villa Vigoni è stato fantastico e soprattutto un’esperienza originale. L’Italia e la Germania sono da tempo legate nel campo della storia ambientale. Se non altro per il fatto che noi – tu, Mauro Agnoletti ed io – pubblichiamo insieme una delle maggiori riviste di storia ambientale, “Global Environment: A Journal of Transdisciplinary History”. La nostra attenzione editoriale, particolarmente aperta ai giovani ricercatori del Sud del mondo, ci ha spinto a pubblicare storiografie meno conosciute, garantendo ai contributori l’opportunità di farsi conoscere a livello internazionale.