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Dossier “1970” — L’uomo fra due nature

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Relazione presentata al Convegno internazionale, L’uomo e la natura, Milano 22 aprile 1970 e pubblicata in L’uomo e l’ambiente. Una inchiesta internazionale , a cura di Giorgio Nebbia, Tamburini, Milano 1971, pp. 55-60.

In occasione di questo convegno internazionale che la FAST ha voluto dedicare all’Anno Europeo della Conservazione della Natura, è forse opportuno fare una sintesi di problemi, ponendoci di fronte alla più vasta prospettiva dei rapporti che intercorrono fra l’uomo e la natura.

Vorrei collegarmi a un episodio originale e significativo che ha preceduto il convegno: alla conferenza stampa che si è tenuta sorvolando questa città e altre città e territori della Lombardia. Non voleva essere una qualsiasi trovata pubblicitaria, ma un primo modo attualissimo di ambientare e inquadrare i problemi. La possibilità di vedere il mondo dall’alto non è soltanto una nuova straordinaria esperienza umana, ma una nuova forma di conoscenza del mondo, una Weltanschauung più globale e unitaria, un’ampiezza dilatata di orizzonti, che permette di dominare i dettagli e l’insieme, il particolare e l’universale, il più piccolo spazio ambientale e il più vasto mondo che intorno si espande con continuità ininterrotta. Gutkind considerava questa possibilità di scoprire il mondo dall’alto, di interpretare il mondo dall’alto, una svolta decisiva della storia dell’umanità, quasi una rivoluzione copernicana. Ebbene, noi ci siamo riuniti non per attuare un qualsiasi convegno scientifico o culturale – uno dei tantissimi che si moltiplicano oggi ovunque in tutti i paesi del mondo – ma per affermare e portare avanti proprio questa autentica rivoluzione copernicana, che corrisponde a una rinnovata coscienza della realtà del mondo, ad una nuova coscienza della posizione dell’uomo nel mondo. Mi vado sempre più convincendo che la più importante scoperta fica dei nostri tempi non appartiene a una particolare scienza fisica e biologica, ma è in quella sintesi di sapere fisico e biologico che ha dato origine a una disciplina oggi più umanamente necessaria e più rispondente ad istanze della vita universale: la disciplina che studia i rapporti fra vita ed ambiente, l’ecologia.

L’ecologia non è nata per opera di un solo studioso, è maturata lentamente dai tempi di Humboldt ad oggi, imponendosi gradualmente per la sua forza innovatrice, fino a diventare in questi ultimi anni un orientamento generale del pensiero scientifico e quindi una nuova forza della stessa cultura. Oggi nessuna disciplina può sottrarsi all’influsso di una visione ecologica: anche le tradizionali discipline “umane“, anche e soprattutto le scienze che si occupano dell’uomo o degli interessi umani, La stessa medicina intesa nel senso più largo fisico e psichico, deve tener conto dei fattori ambientali; le stesse scienze delle costruzioni se devono edificare abitazioni adatte alla vita dell’uomole stesse discipline educative perché è ormai inconcepibile rinunciare a riferimenti ed esperienze ambientali.

Il principale, contributo recato dall’ecologia ad una attuale visione scientifica del mondo consiste proprio in una nuova interpretazione della natura e quindi dei rapporti fra uomo e natura. Quante cose si sono scritte su questi argomenti sin da tempi lontani: meditazioni filosofiche, contemplazioni poetiche, ispirazioni religiose, disquisizioni scientifiche. La mente umana è stimolata da un dilemma: sta dinnanzi all’uomo una natura selvatica, originaria, che contrasta così nettamente con la natura che egli stesso va costruendo giorno per giorno, intorno alla sua casa e che gli appare come una manifestazione della propria forza e capacità inventiva. Una prima e una seconda natura. Troviamo una vivida espressione e coscienza di questa idea in una frase delle Tusculanae disputationes di Cicerone “… siamo assoluti padroni di ciò che produce la terra. Godiamo delle montagne e delle pianure. Sono nostri i fiumi. Gettiamo i semi e piantiamo gli alberi. Noi fertilizziamo la terra … Sappiamo arrestare, dirigere e deviare i corso dei fiumi: … noi facciamo un’altra natura”.

Era questa anche la concezione dei Greci: la natura è fatta di cose la cui essenza è eminentemente teleologica; in tutte le cose e nella totalità della natura si attua un disegno implicito. L’uomo si pone in posizione centrale, dominante, perché tutto è stato creato soltanto per lui. Deludeva tuttavia la fatica aspra e mal ripagata che si doveva spendere per rendere fruttifero il suolo dei campi. Si idealizzava allora la “prima natura” nelle mitiche ed oscure reminiscenze di una remotissima età dell’oro, quando l’uomo viveva in piena armonia ed amicizia con la natura. Veniva delineandosi quindi una diversità di atteggiamenti dell’uomo verso l’una e l’altra natura e una separazione, direi quasi una lacerazione del mondo, fra una natura legittima, semplice, originaria e una natura sovrapposta, artificiale, quasi un’anti-natura. Contrapposizione che perdura nelle coscienze fino ai nostri giorni perché – come scrive Ortega y Gasset – “l’uomo è fatto di una sostanza così strana, che è in parte apparentata alla natura e in parte no, ad un tempo naturale e fuori della natura, in qualche modo centauro ontologico di cui una metà è immersa nella natura e l’altra metà la trascende”.

Proprio da questa contrapposizione scaturisce una molteplicità di comportamenti dell’uomo nei confronti della natura, comportamenti che si succedono e si alternano nella storia umana, ma che continuano anche a coesistere generando insanabili discordanze delle opinioni e delle opere. Col progredire della tecnica, coll’accrescersi della disponibilità di strumenti e di energie, la trasformazione della natura sta diventando sempre più vasta e profonda. Se già era sensibile in paesi di antica civiltà molti secoli prima di Cristo – come testimoniano Platone ed Eratostene per la Grecia, il filosofo Mencio per la Cina – oggi è diventata così travolgente che in molti territori va cancellandosi anche il ricordo di aspetti di una prima natura originaria. Perfino le foreste equatoriali, dove pur sopravvivono nuclei di popolazioni umane ancora integrati negli ecosistemi originari, vanno perdendo gradualmente le loro strutture col subentrare di una utilizzazione commerciale selettiva delle specie arboree più pregiate. Si trasforma la natura, si modificano le idee dell’uomo sulla natura, mutano gli stessi modi di vita dell’uomo; la seconda natura creata dall’uomo agisce a sua volta sull’uomo e sulle società umane. “Dipendiamo dalle creature che noi facciamo” scriveva Goethe. Si direbbe che vanamente l’uomo si pone al di sopra e al di fuori della natura par dominarla e assoggettarla; i suoi rapporti e legami con la natura restano intimi, così necessari che egli stesso finisce per dover riconoscere una sua dipendenza e un condizionamento indissolubile. Tutto il progresso scientifico più recente dimostra che la natura ci coinvolge in una sua severissima legalità, che non possiamo violare senza recar danni gravissimi alla nostra stessa esistenza. L’ecologia in particolar modo, come scienza della vita nell’ambiente, sta rivendicando la necessità di collegare tutti i fenomeni biologici, quindi la vita stessa dell’uomo, ad una totalità di fattori ambientali. Si viene affermando una solidarietà intima e necessaria che supera perfino le realtà fisiche; viene condizionata la stessa conoscenza che l’uomo ha di se stesso. Modi di coesistere con la natura, e modi di interpretare la nostra presenza nella natura diventano allora termini inseparabili di un unico discorso scientifico e umano, di un discorso di solidarietà organica universale. Questi modi sono diversi oggi come nel passato, ma sconfinano ormai dal dominio della speculazione filosofica e della tradizione letteraria, per costituire oggetto di vitale attualità, argomento di appassionato interesse per tutte le popolazioni della Terra.

Si manifesta ovunque una crescente apprensione per un mondo che scompare e per un mondo del tutto diverso che si viene sostituendo. Già nel 1600 un poeta inglese, John Donne, autore di una “Anatomia del mondo”, ha il presentimento della scomparsa di un ordine organico, armonico, ritenuto così essenziale per la pienezza dell’essere; è un’angosciosa visione che assurge a dimensioni cosmiche premonitrici e quasi profetiche. Sembra al poeta che l’elemento stesso del fuoco si sia spento, che l’uomo abbia perduto il sole e la terra, che questo mondo sia passato e altro non resti che andare alla ricerca di nuovi mondi fra i pianeti e nel firmamento. È uno stato d’animo che oggi si manifesta acutamente come una paura – la cosiddetta piccola paura del secolo XX – di fronte alle nuove forze gigantesche che l’uomo moderno sta scatenando nel mondo. E si pone il grave interrogativo se veramente l’uomo sia oggi altrettanto maturo e responsabile quanto è progredito scientificamente e tecnicamente.

Se ci guardiamo intorno, se guardiamo dall’alto la tormentata e offesa superficie di questo nostro territorio, non abbiamo di che rallegrarci: prevalgono troppo disastrosamente le immagini del deterioramento e della mortificazione. Valori essenziali che un tempo parevano irrilevanti, perché posti così abbondantemente a disposizione di tutti – l’aria, il suolo, le acque, la vita selvatica, il verde – sono gravemente minacciati e proprio perché cominciano a scarseggiare o a mancarci si rivelano in tutta la loro enorme, reale importanza. E tuttavia persiste l’altro modo di esistenza e di interpretazione, anzi prevale praticamente su ogni altro e domina, solo debolmente contrastato, tutte le attività umane. È un modo orgoglioso, ottimista di valutare le nuove strutture imposte dall’uomo alla natura. Lo esprimeva il poeta delle “Odi barbare” contemplando da “fuori alla Certosa di Bologna” un tratto di questa nostra pianura padana così fervida e così addensata di opere umane: “Il piano somiglia un mare superbo di fremiti e d’onde: – ville, città, castelli emergono come isole. Slanciatisi lunghe tra ‘1 verde polveroso e i pioppi le strade: varcano i ponti con le fughe d’archi il fiume”. È la fiducia incrollabile nelle “magnifiche sorti e progressive”, nella nostra predestinazione ad un dominio assoluto del mondo. Non è questo soltanto un atteggiamento pragmatistico, un trionfo della volontà e dell’azione; questo modo di guardare la natura e di trattare con la natura ha i suoi fondamenti razionali che traggono origine dalle concezioni meccanicistiche che si son venute affermando dopo le grandi opere di Galileo e di Newton e che oggi evolvono in una visione cibernetica della natura. Respinta ogni gerarchia, ogni organicità e finalità prestabilite, veniva imponendosi una “nuova natura” intesa come un sistema di forze in movimento, comandate da relazioni quantitative che obbediscono a principi i cui effetti sono prevedibili. Ne scaturiva la fiducia in un progressismo naturale, che rinuncia alle realtà profonde, che si contenta delle cause prossime e si affida ad un gioco di meccanismi e di forze, che sono della stessa natura degli artifici costruiti dall’uomo. È molto significativa una perentoria affermazione di Cartesio – che anticipa del resto anche una singolare intuizione scientifica – “è fuor di dubbio che quando le rondini ritornano a primavera, agiscono in questo come gli orologi”. La “seconda natura”, la cosiddetta antinatura, che coincide con i risultati delle opere umane, conosce i suoi primi trionfi e si avvia a diventare il campo di predominanti interessi speculativi e operativi dell’uomo.

Potremmo allora domandarci come si pone oggi nella più concreta attualità il problema vitale dei nostri rapporti con una natura che continuiamo a trasformare in modo sempre più radicale, sapendo assai bene che i nostri destini restano incatenati strettamente ad ogni suo processo di trasformazione. Vi è chi afferma oggi che le autentiche aggressioni umane – direi quasi l’aggressività umana – contro la natura si sono scatenate e continuano a scatenarsi in una posizione di superiorità e di dominio; mentre proprio la coscienza di una appartenenza intima dell’uomo alla natura, di una omogeneità delle opere umane e dei processi della natura conferisce all’uomo la funzionalità di un fattore interno e regolatore della realtà naturale. E poiché questa posizione l’uomo la terrebbe sin dal suo primo apparire nel mondo, tutta la storia della natura diverrebbe da allora una storia umana della natura; trasformando la natura l’uomo attuerebbe semplicemente un prolungamento dell’evoluzione naturale. Molti uomini di scienza e di pensiero seguono oggi idee come queste e tendono ad intentificare l’intervento umano sulla natura con l’attività perennemente creatrice della natura stessa. Oppenheimer ritiene che proprio questo sia il senso della civiltà scientifica e tecnica dell’occidente. Questa suggestiva visione unitaria, che renderebbe falso il problema del confronto fra le due nature – essendo la seconda natura null’altro che una continuazione ininterrotta della prima natura – costituisce il fondamento da alcuni ritenuto più ovvio ad una visione materialista del mondo, di un mondo al quale noi uomini – afferma Engels – apparteniamo interamente, come carne, come sangue, come cervello. Ed è assai comprensibile che specialmente i fisici prediligano questa concezione.

Sarei tentato di esprimere qualche diffidenza su troppo affrettate sintesi cosmiche fondate su una assoluta prevalenza della realtà fisica dell’uomo e del mondo; ma non credo che ci interessi entrare in questo ordine di considerazioni. Ci interessa assai di più il problema pratico di concretare sulla base delle attuali conoscenze scientifiche un nostro valido atteggiamento nei confronti del mondo naturale. Accettata la nostra appartenenza alla natura, la nostra solidarietà inscindibile con tutti i fenomeni fisici e biologici, dobbiamo pure ammettere che la nostra realtà umana si impone all’attenzione non in una parziale interpretazione fisica, ma in una totalità di aspetti. Ecco allora emergere la necessità di una integrazione biologica che si operi non soltanto al livello dei fenomeni elementari comuni a tutti i viventi, ma anche ad un livello di concreti interessi umani, ad una dimensione più immediatamente umana. Questa prima integrazione è offerta oggi, come già si è detto, dall’ecologia. Ma l’ecologia proprio per la sua attitudine ad occuparsi di queste dimensioni umane, offre la più vasta apertura verso tutte le altre integrazioni che in qualche modo interessano l’uomo.

Assai più concretamente utile allora di una coscienza cosmica di carattere meccanicistico è oggi una coscienza ecologica, cioè una sensibilità ai problemi della totalità della vita nella totalità dell’ambiente, problemi che convergono e culminano verso il più grave e assillante dei problemi umani: l’abitabilità del mondo. Si parla molto oggi di ecologia, dell’esigenza dell’ecologia; se ne parla in sede giornalistica e nelle trasmissioni radiofoniche e televisive. Assai meno se ne parla là dove più sarebbe necessario, cioè nella scuola, perché mancano insegnamenti ed insegnanti di questa importante disciplina. Non basta diffondere una generica sensibilità ecologica che dia l’illusione o la presunzione di un inesistente o inconsistente aggiornamento culturale; si incoraggerebbero tendenze al dilettantismo e perfino l’improvvisazione di specialisti sedicenti ecologi che in realtà non possiedono alcun fondamento attendibile. L’ecologia è una scienza sperimentale e quantitativa, che richiede solida preparazione naturalistica. Purtroppo un paese come il nostro dalle deboli tradizioni didattiche naturalistiche offre un terreno poco favorevole ad un rapido fiorire di autentiche vocazioni e preparazioni ecologiche, che possa assicurare una disponibilità di esperti ecologi adeguata alle crescenti esigenze delle pianificazioni.

La conferenza di apertura dell’Anno Europeo della Conservazione della Natura tenutasi recentemente a Strasburgo si è conclusa con un documento che pone l’accento soprattutto sull’esigenza di programmare la conservazione dei beni naturali di ciascun paese nel quadro delle più vaste e complete programmazioni territoriali. Nessuna attività di difesa della natura deve prescindere da una integrazione in pianificazioni modernamente concepite, e nessuna pianificazione può escludere sollecitazioni conservazionali. Ben conoscendo tuttavia la scarsa disponibilità di esperti, si è proposto in quella sede di studiare le possibilità di istituire un diploma europeo di professionista ecologo. È inutile illudersi: nessuna seria attività conservazionale si potrà attuare nel nostro paese o in altri paesi prescindendo da una fondamentale organizzazione scientifica ecologica. Non è più concepibile che problemi di altissima importanza e complessità, come la purezza delle acque e dell’aria, l’efficienza del suolo, l’equilibrio biologico dei più svariati ambienti, vengano affidati alla generosa, impetuosa, ma spesso disordinata e settoriale iniziativa di questo o quel gruppo di protezionisti, a questa o quella società di naturalisti e naturofili generici, a questa o a quella categoria di tecnici o professionisti destituiti di fondamentale preparazione ecologica. Se questa nostra riunione servisse anche soltanto allo scopo di rivendicare la necessità d’una più seria e approfondita informazione ecologica, l’urgenza di un insegnamento ecologico non soltanto per la preparazione naturalistica, ma per la preparazione di esperti e di tecnici, avremmo già raggiunto uno scopo di grande importanza per tutti.

Vorrei concludere con una amplificata visione del mondo abitabile vista ancora dall’alto, non più però limitata a una minuscola regione terrestre, ma così come può essere abbracciata dagli spazi extraterrestri. Mentre preparai queste pagine seguivo con la stessa vostra trepidazione il drammatico viaggio di ritorno degli uomini dell’Apollo 13. E mi chiedevo quale tumulto di emozioni, di ansiose speranze suscitava in loro quel velocissimo e pur così lento ritorno, quell’ingrandirsi dinnanzi ai loro occhi dell’immagine della Terra, della cara immagine della Terra.

Forse nessuna esperienza umana ha mai reso così vivida, così trasfigurata la certezza che questa Terra, questo atomo nel cosmo, è la casa comune alla quale siamo vincolati con una necessità e solidarietà che supera tutti gli umani egoismi, tutte le umane rivalità. Forse è necessario sentirsi sperduti nella gelida oscurità del cosmo, o sulle aride abbacinanti arene lunari, per sentire il pieno valore umano dell’abitabilità del mondo, il pieno significato di questo provvidenziale “oikos” nel quale da tempi immemorabili si ripetono e si avvicendano i cicli delle esistenze umane. Allora può prorompere forse con forza incontenibile più che un sentimento, un impeto di amore: un amore per la nostra casa che superi l’avido attaccamento a un piccolo nostro interesse localizzato, ad un minuscolo lembo di suolo che appartiene a ciascuno di noi, per abbracciare generosamente una realtà totale e indivisibile del mondo. Abbiamo bisogno di una più generosa visione del mondo, non utopistica e irreale, ma ancorata su una solida concezione scientifica e umana dei rapporti intimi, necessari fra l’uomo e la natura.

Proprio da una riunione internazionale come questa mi sembra possa levarsi più significativo un appello di solidarietà e un richiamo a gravi responsabilità di ciascuno e di tutti. Ecco come può accadere che il discorso ecologico diventi anche il discorso più sollecito verso urgenti necessità umane e fondamento razionale dei nuovi doveri che si impongono a un’unica grande comunità umana, che finalmente si riconosca e si ritrovi nello splendore rinnovato del mondo, in opere di pace per costruire e conservare la casa comune.

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