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L’era dello sviluppo: un necrologio

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Articolo apparso originariamente in “New Internationalist”, n. 523, gennaio-febbraio 2020, quindi in “Gli asini” il 23 settembre 2020 con traduzione di Giacomo Borella e Daniella Engel.

[presentazione dal sito della rivista “Gli asini”] Quella che pubblichiamo è una versione estesa della nuova prefazione scritta da Wolfgang Sachs in occasione della terza riedizione dello storico volume collettaneo The Development Dictionary , uscita l’anno scorso per i tipi dell’inglese Zed Books. Il libro, originariamente pubblicato nel 1992 (la traduzione italiana – Dizionario dello sviluppo , Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1998 – è da molto tempo fuori catalogo), era curato dallo stesso Sachs e scaturiva dal lavoro di messa in discussione di alcuni decisivi assiomi dell’età moderna svolto in quegli anni nella cerchia di Ivan Illich, che si ritrovava periodicamente presso la Pennsylvania State University, dove diversi suoi membri insegnavano. Sachs aveva raccolto i contributi di coloro che avevano partecipato a quelle discussioni, ognuno incentrato su una parola chiave (bisogni, povertà, risorse, tecnologia, ecc.), a comporre un lessico dello sviluppo e dei suoi effetti sull’ambiente, sulle culture locali, sugli stili di vita. Oltre a quelli degli stessi Sachs e Illich, comprendeva saggi di diversi interlocutori abituali di quest’ultimo, tra cui Barbara Duden, Jean Robert, Gustavo Esteva, Majid Rahnema, e altri firmati da figure a lui meno vicine, come Vandana Shiva e Serge Latouche, divenute in seguito molto note. Il testo che segue è una versione rielaborata e arricchita della nuova prefazione al Dizionario , pubblicata sul numero 523 nel gennaio di quest’anno della rivista inglese “New Internationalist”. Il rigore e l’intelligenza con cui Sachs ha ribettuto sugli intrecci tra ecologia, consumi, giustizia globale, geopolitica e modi di vivere ne hanno fatto da molto tempo un punto di riferimento fondamentale per chi si interroga sul presente e sul futuro del mondo. Per tutto ciò, e per averci voluto concedere di pubblicare questo testo, lo ringraziamo con grande affetto e riconoscenza.

Sviluppo è una di quelle categorie-zombie che, anche se da molto tempo in decomposizione, continuano a circolare, come una consunta utopia. Seppellito apparentemente molto tempo fa, il fantasma di questo concetto si aggira ancora per la politica mondiale. Malgrado i grandi sconvolgimenti avvenuti di recente nella situazione globale, tutto a un tratto lo sviluppo sembra essere tornato sulla scena.

Per esempio, oggi la nuova leva di leader autoritari è entusiasta dello sviluppo. Eppure, con l’ascesa dei populismi nazionali, l’idea di sviluppo non gioca più un ruolo di ispirazione e di apertura al futuro, come durante il periodo della decolonizzazione degli stati nazione o al tempo della deregulation dei mercati globali. I Trump e i Bolsonaro, gli Erdogan e i Modi di questo mondo credono ancora nello sviluppo solo nella misura in cui ciò significa grandi progetti, potere d’acquisto per le masse e assoluta libertà di movimento per le corporation. Ma, oltre a essere autoritari e xenofobi, sono nemici dichiarati dell’ambiente. Promettono ai loro seguaci una marcia indietro nelle politiche ambientali; sono infatti grandi sostenitori della brown economy, e si oppongono a una alternativa verde. La loro immagine dello sviluppo è modellata sull’energia fossile e, più in generale, sull’estrazione delle risorse naturali. I populisti nazionali sono nostalgici dell’era industriale: non sono orientati verso il futuro ma, piuttosto, verso il passato.

C’è tuttavia una discontinuità cruciale nei programmi di sviluppo dei populisti nazionali: essi sono etnocentrici ed egoisti. Dalla seconda guerra mondiale fino a tempi molto recenti, lo sviluppo era bene o male sempre concepito all’interno di una cornice multilaterale. Ma, con l’inaugurazione della presidenza Trump negli Stati Uniti, il vento è cambiato: “America First” è il grido di battaglia dell’unilateralismo. Gli interessi di una nazione sono di primaria importanza, mentre quelli delle altre sono trascurabili. L’eco di Trump risuona, per esempio, in Matteo Salvini, l’uomo forte dell’Italia degli ultimi anni: “Prima gli italiani” era la giustificazione del suo rifiuto a lasciar attraccare i rifugiati che soffrivano in mare.

In altre parole, siccome l’era dello sviluppo non è affatto giunta da tempo a una fine ingloriosa, come una volta pronostica il nostro gruppo, la parola-zombie sviluppo continua a produrre ogni tipo di danni. Allo stesso tempo, però, è vero che in tutto il mondo sono stati fatti molti sforzi nella direzione di una tecnologia maggiormente basata sulla natura, di un’economia più fondata sul bene comune e di una cultura incentrata sulla varietà delle civiltà: tutti obiettivi che possono essere intesi in termini di post-sviluppo.

Un’affermazione eccessiva

Eravamo ingenui e un po’ pomposi quando abbiamo proclamato la “fine dell’era dello sviluppo”. Durante l’autunno del 1988, alla Pennsylvania State University, nella casa di Barbara Duden, il nostro gruppo di amici aveva iniziato a delineare i contorni di quello che sarebbe diventato ilDizionario dello sviluppo 1Wolfgang Sachs (a cura di), The Development Dictionary: A Guide to Knowledge as Power, London, Zed Books, 1992 (nuova edizione 2019), traduzione italiana Dizionario dello sviluppo, Torino, Ega, 2004.. Sulle orme di Ivan Illich, che un tempo intendeva scrivere un'”archeologia delle certezze moderne”, volevamo esplorare i concetti chiave dello sviluppo, che noi vedevamo come le rovine di un paesaggio intellettuale.

Dobbiamo ricordare che nella seconda metà del ventesimo secolo la nozione di sviluppo incombeva come un potente monarca sulle nazioni dell’emisfero meridionale: era il grido di battaglia dell’era post-coloniale. Il concetto sembrava essere innocente, ma a lungo termine si rivelò dannoso. Come una sorta di infrastruttura mentale, preparava la strada al potere imperiale dell’Occidente sul mondo intero. Come erano le cose in Occidente, così dovevano essere anche sulla Terra: questo era, in sostanza, il messaggio dello sviluppo 2Tra gli altri autori che negli anni Novanta hanno esplorato questa idea vi sono Arturo Escobar, Encountering Development: The Making and Unmaking of the Third World , Princeton, Princeton University Press, 1995, e Gilbert Rist, The History of Development, Zed Books, 1997, traduzione italiana Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1997..

Quando era iniziata l’era dello sviluppo? Nel nostro Dizionario, ci concentravamo sul discorso inaugurale del presidente Harry S. Truman al congresso degli Stati Uniti, il 20 gennaio 1949, nel quale definiva i paesi dove viveva più di metà della popolazione mondiale come “aree sottosviluppate”. L’era dello sviluppo si aprì con questo discorso, e fu il periodo della storia mondiale che seguì la fase coloniale delle potenze europee. Essa è durata circa quaranta anni, ed è stata rimpiazzata dall’era della globalizzazione. Ora assistiamo a un’altra svolta: l’ascesa dei populismi nazionali.

Cosa costituisce l’idea di sviluppo? Dobbiamo considerare quattro aspetti. Sul piano crono-politico, tutte le nazioni sembrano avanzare nella stessa direzione. Immaginate che il tempo sia lineare, che si muova solo in avanti o indietro, ma lo scopo del progresso tecnico ed economico sia costantemente sfuggente.

Sul versante geo-politico, coloro che fungono da guide su questo cammino, le nazioni sviluppate, mostrano ai paesi ritardatari la strada da intraprendere. La sbalorditiva varietà dei popoli del mondo è ora classificata semplicisticamente in nazioni ricche e nazioni povere. Sul piano socio-politico, lo sviluppo di una nazione è misurato attraverso la sua prestazione economica, in termini di Prodotto Interno Lordo (Pil). Alle società che sono appena emerse dal dominio coloniale è richiesto di farsi prendere in custodia dall'”economia”. E infine, gli attori che spingono per lo sviluppo sono soprattutto esperti dei governi, delle banche transnazionali, delle corporation. In precedenza, ai tempi di Marx o di Schumpeter, sviluppare era usato come verbo intransitivo, come il fiore che cerca la maturazione. Ora il termine viene usato in modo transitivo, come il riordino attivo di una società che deve essere completato entro pochi decenni, se non entro pochi anni.

Cosa ne è stato di questa idea? Per farla breve, la nozione ha preso una direzione non insolita nella storia delle idee: ciò che un tempo era un’innovazione storica è divenuta gradualmente una convenzione, di quelle che finiscono nella frustrazione generale. Ciò nonostante, trent’anni fa era prematuro proclamare la fine dell’era sviluppista, perché il disincanto verso l’idea di sviluppo è avvenuto nel giro di alcuni decenni, e ancor oggi non si è completato.

Le idee che nella storia diventano forti non scompaiono in un istante, ma piuttosto svaniscono gradualmente mentre diventano sempre più irrilevanti per la nostra comprensione dei tempi. Eppure, la marea è cambiata: perfino gli esperti dello sviluppo, per quanto concerne il futuro sono immersi nella nebbia, preoccupati principalmente di limitare le catastrofi sociali ed ecologiche causate dal modello di sviluppo dominante. Mettere in dubbio l’idea di sviluppo è diventato accettabile. Ma cerchiamo di non correre troppo.

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, il discorso sullo sviluppo era formulato nella cornice degli stati-nazione. Praticamente ogni giovane nazione vedeva come sua ragion d’essere quella di svilupparsi. Ma nel novembre 1989 cadde il muro di Berlino, la guerra fredda giunse al termine e iniziò l’era della globalizzazione.

Negli anni successivi l’idea di sviluppo ricevette un’ulteriore spinta: la mentalità dello sviluppo si diffuse in ogni angolo del mondo, coinvolgendo attori completamente nuovi. Gli stati-nazione erano tuttavia divenuti porosi, come container crivellati di fori di proiettili esplosi da forze esterne, e dovevano sottoporsi ai poteri globali, sia economici che culturali. Merci, denaro, informazioni, immagini e persone si riversarono attraverso i confini, creando uno spazio sociale transnazionale nel quale avevano luogo interazioni a grande distanza, a volte addirittura in tempo reale.

In questo processo, altri attori, come le corporation e i media transnazionali, giocavano un ruolo sempre più importante nello sviluppo, mentre gli stati-nazione rimanevano in posizione sempre più arretrata. Per esempio, gli investimenti privati stranieri superarono l’assistenza allo sviluppo sociale, i programmi televisivi resero in tutto il mondo marginali le narrative autoctone, e il consumo globale soppiantò l’artigianato locale. Lo sviluppo, fino ad allora compito dello stato, era ora deterritorializzato.

Oltretutto, apparvero sulla scena le filiere transnazionali. Con la fine della guerra fredda e il processo di deregulation in pieno svolgimento, la strada era spianata per lo spiegamento di reti di produzione capaci di attraversare il mondo intero.

In generale, anche nei più remoti angoli del mondo l’economia capitalista delle merci e dei servizi aveva rimpiazzato un’infinità di economie di sussistenza e i loro mercati tradizionali. E il capitalismo era cambiato, come già John Kenneth Galbraith aveva osservato negli anni Cinquanta: si era passati da un’economia dedicata a soddisfare bisogni a una impegnata a inculcare esigenze.

In un’economia siffatta, ciò che conta è sempre di più il potere simbolico delle merci e dei servizi. Ciò che importa è quello che le merci dicono, piuttosto che quello che fanno: sono mezzi di comunicazione. Le merci sono simultaneamente rituali e religione. Le corporationproliferano, e in ogni continente gli stili di vita si allineano: i Suv hanno sostituito i risciò, i telefoni cellulari hanno preso il posto delle riunioni di comunità, l’aria condizionata ha soppiantato la siesta. La globalizzazione dei mercati può essere intesa come uno sviluppo senza stati-nazione.

Chi ha beneficiato di più di questo processo è la classe media globale, in Europa, Nord America e Asia, come in Sud America e Africa, sebbene in queste ultime meno numerosa. Coloro che vi appartengono fanno la spesa in centri commerciali simili, acquistano un’identica elettronica high-tech, guardano gli stessi film e le stesse serie tv. Come turisti, dispongono del decisivo medium di allineamento: il denaro. La classe media – ora circa tre miliardi di persone con un reddito superiore ai 10 dollari al giorno – si espande più rapidamente in Cina, India e altri paesi asiatici, grazie alla rapida crescita economica.@

Questa è in sé un’impresa storica: ci sono voluti probabilmente centocinquanta anni, dall’inizio della rivoluzione industriale a circa il 1985, per creare il primo miliardo di consumatori della classe media; per superare la soglia del secondo miliardo ci sono voluti ventun anni; e solo nove anni per il terzo miliardo. Se le proiezioni sono corrette, altri due miliardi di individui andranno ad aggiungersi alla classe media entro il 2028, raggiungendo un totale di cinque miliardi di persone 3Homi Kheras, The Unprecedented Expansion of the Global Middle Class: An Update , Washington, Brooking Institution, febbraio 2017, p. 11.. Chi sta sui gradini più bassi della scala può permettersi un motorino o una lavatrice, mentre chi sta sui gradini più alti può investire in viaggi a lunga distanza o in proprietà immobiliari.

Già nel 2010 all’incirca la metà della classe media globale viveva nel Nord Globale, e l’altra metà viveva nel Sud Globale. Lo stile di vita occidentale si è realmente diffuso negli altri continenti, abbracciando l’intero globo. Ma quello che senza dubbio è stato il formidabile successo dello sviluppo, non è che un fallimento che sta per avvenire.

Sopravvivenza, non progresso

Sviluppo è una parola plastica, un termine vuoto privo di significati positivi. Ciò nonostante ha mantenuto il suo status di prospettiva globale, perché è stato inscritto in un networkinternazionale di istituzioni che va dall’Onu alle ong.

Dopotutto, miliardi di persone hanno fatto uso del “diritto allo sviluppo”, così come è stato affermato in una risoluzione dell’assemblea generale Onu nel 1986.

Possiamo tuttavia notare le notevoli trasformazioni che questa idea ha subito di recente. Nel 2015, per esempio, si è potuto osservare un intensificarsi del discorso sullo sviluppo: l’enciclica papale Laudato si’ in giugno, i Sustainable Development Goals (Obiettivi di sviluppo sostenibile) dell’Onu in settembre, e gli accordi di Parigi sul cambiamento climatico in dicembre. Ma queste dichiarazioni internazionali sono ancora improntate allo sviluppo? Oppure si potrebbe, al contrario, considerarle prove di un pensiero del post-sviluppo?

L’erosione dell’idea di sviluppo è ora evidente nei Sustainable Development Goals (Sdg) dell’Onu. I tempi in cui lo sviluppo rappresentava una “promessa” sono ampiamente finiti: a quell’epoca, era un discorso che riguardava nazioni giovani e ambiziose che procedevano su un cammino di progresso. La parola d’ordine dello sviluppo conteneva davvero una monumentale promessa storica: che infine tutte le società avrebbero colmato il divario con quelle più ricche, arrivando a condividere i frutti della civiltà industriale.

Quell’era è finita: più frequentemente, lo sviluppo oggi riguarda la sopravvivenza, non il progresso. Gli Sdg sono progettati per garantire il livello minimo dei diritti umani e delle condizioni ambientali. Niente di più e niente di meno, ma l’eroica fede nel progresso ha ceduto il passo al bisogno di sopravvivenza. La lettera papale Laudato si’ trascura le parole chiave di “sviluppo” e “progresso”, mentre l’accordo di Parigi sul clima è teso a evitare catastrofi e guerre.

La politica della lotta alla povertà ha inoltre ottenuto successi in alcuni casi, ma al costo di produrre diseguaglianze ancora maggiori altrove e al prezzo di danni ambientali irreparabili. IlWorld Inequality Report del 2018 ha confermato che, a partire dal 1980, la quota di reddito nazionale che è andata all’uno per cento dei più ricchi è aumentata rapidamente in Nord America, Cina, India e Russia, e più moderatamente in Europa: quarant’anni di corsa all’oro!

Per di più, lo sfruttamento della Terra è drasticamente aumentato: secondo i calcoli del Global Footprint Network, l’umanità consuma la biosfera 1,7 volte ogni anno. L’inquinamento da materiali plastici degli oceani, l’estinzione di massa degli insetti e lo scioglimento dello scudo di ghiaccio dell’Artico ne sono esempi emblematici.

Il caos climatico e il lento declino della vita vegetale e animale hanno messo in dubbio la fede nel fatto che le nazioni sviluppate rappresentino il culmine dell’evoluzione sociale. Al contrario, il progresso si è rivelato essere un regresso, così come la logica capitalista del Nord Globale ha dimostrato di non poter far altro che sfruttare la natura. DaiLimits to the Growth del 1972, fino ai Planetary Boundaries del 2009, l’analisi è chiara: lo sviluppo-come-crescita rende il Pianeta Terra inospitale per gli umani. Gli Sdg – che recano il termine sviluppo nel loro stesso titolo – sono un inganno semantico. I Sustainable Development Goals dovrebbero in realtà chiamarsi Ssg: Sustainable Survival Goals (Obiettivi di sopravvivenza sostenibile).

Seppellire il mito della rimonta

Anche la geopolitica dello sviluppo è implosa. Al Millennium Summit di New York, nel 2000, erano stati riprodotti gli schemi dei cinquant’anni precedenti: il mondo nettamente diviso tra Nord e Sud, in cui i benefattori elargiscono capitali, crescita e politiche sociali ai paesi beneficiari per ricondizionarli, in funzione della corsa globale. Questo schema è un familiare sedimento della storia coloniale, ed era – proprio come l’imperativo della rimonta – onnipresente negli anni del dopoguerra.

Ma ora che siamo arrivati agli Sdg, che fine ha fatto l’idea delle nazioni in via di sviluppo che rimontano sulle nazioni ricche, questa nozione che un tempo era così fondamentale per l’idea di sviluppo?

Vale la pena di citare un passaggio del documento che ha proclamato gli Sdg: “La portata e il significato di questo programma sono senza precedenti. Questi sono obiettivi universali, obiettivi che coinvolgono il mondo intero, le nazioni sviluppate e quelle in via di sviluppo, allo stesso modo” 4United Nations, Transforming our World: The 2030 Agenda for Sustainable Development , New York, United. Nations, 2015.. Gli Sdg affermano di essere globali e universali, e gli accordi di Parigi fanno lo stesso.

Il cambio di mentalità non potrebbe essere espresso più chiaramente: la geopolitica dello sviluppo, secondo la quale le nazioni industrializzate erano lo scintillante esempio per i paesi più poveri, è stata archiviata. Quante strategie, passioni e risorse, consumate per realizzare il sogno della rimonta! Ora è tutto finito.

Così come l’era della guerra fredda è finita nel 1989, il mito della rimonta è evaporato nel 2015. Molto raramente un mito è stato seppellito così tranquillamente. Che cosa significa sviluppo, se non esiste nessun paese che possa definirsi “sviluppato in modo sostenibile”? Dobbiamo anche aggiungere che la geografia economica del mondo è cambiata. In termini geopolitici, la rapida ascesa della Cina alla posizione di maggiore potenza economica della terra è stata spettacolare. I sette più importanti paesi di recente industrializzazione sono ora economicamente più forti degli stati industriali tradizionali, sebbene i G7 pretendano di essere ancora egemoni. La globalizzazione ha quasi dissolto il consolidato schema Nord-Sud.

Internet ci fornisce un esempio. Nel 2016 3,4 miliardi di persone, la metà della popolazione mondiale, ha utilizzato internet. Singoli individui navigano sul web con computer, tablet o smartphone, le grandi imprese sono dotate di enormi dipartimenti di tecnologie informatiche, e miliardi di persone sono ogni giorno online sui social network. Internet è divenuto il “sistema nervoso centrale” della società mondiale. Per inciso, l’infrastruttura digitale, con i suoi centri di elaborazione dati, necessita di un’enorme quantità di energia, impiegando circa il 7 per cento di quella consumata globalmente 5Greenpeace Usa, Clicking Clean, Washington, Greenpeace Usa, 2017.: quanto corrisponde al consumo annuo di elettricità della Gran Bretagna.

Qual è la distribuzione geografica degli utenti di internet? La maggior parte vive in Asia orientale (867 milioni) e in Asia meridionale (480 milioni); Europa occidentale (345 milioni) e America del nord (341 milioni) sono a metà classifica 6Simon Kemp, Digital in 2016, London, We Are Social, 2016.. Dal momento che l’elettricità proviene soprattutto da centrali a carbone, a gas e a petrolio, l’impronta ecologica di tutte queste attività su internet è immensa.

In sostanza, in termini di consumo di risorse le classi alte di Cina, India, Malesia e Arabia Saudita hanno già rimontato le classi medie statunitensi ed europee.

Tra l’altro, dai negoziati internazionali sul clima le classi alte dei paesi di recente industrializzazione escono relativamente indenni, perché possono nascondersi dietro ai poveri delle loro nazioni.

Lo sviluppo come operazione statistica

Inoltre, lo sviluppo è sempre stato un costrutto statistico: senza il numero magico, ovvero il Pil, sarebbe stato impossibile proporre una classifica delle nazioni mondiali. La comparazione dei redditi era il fulcro del pensiero dello sviluppo: solo in questo modo si poteva determinare la relativa povertà o ricchezza di un paese. Tuttavia, a partire degli anni Settanta, nel discorso sullo sviluppo è emersa una dicotomia: la giustapposizione dell’idea di sviluppo-come-crescita con quella di sviluppo-come-politica-sociale. Istituzioni come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e il Wto sono rimaste fedeli alla prima, mentre il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp), quello per l’Ambiente (Unep) e la maggior parte delle ong sono passati a enfatizzare la seconda. Così il termine “sviluppo” è divenuto una sorta di collante multiuso, che può riferirsi alla costruzione di aeroporti tanto quanto all’escavazione di pozzi. IMillennium Development Goals (Obiettivi di sviluppo del Millennio), così come gli Sdg che li hanno seguiti, erano radicati in questa eredità.

Le relazioni tra indicatori sociali e crescita economica si sono ripetutamente rivelate una questione spinosa. Da un lato, l’ Agenda 2030 (la dichiarazione di governo degli Sdg) riconosce il declino degli ecosistemi marino e terrestre e l’aumento delle diseguaglianze sociali, ma dall’altro lato richiede ai paesi più poveri una crescita economica di almeno il 7 per cento all’anno. Si sostiene che la contraddizione tra crescita e sostenibilità sia sorpassata dai nuovi concetti di “crescita inclusiva” e “crescita verde”. Ma è ormai risaputo che la crescita inclusiva, guidata dai mercati finanziari, è impossibile, in quanto riproduce costantemente meccanismi di disuguaglianza. Il declino della povertà va tipicamente a braccetto con l’aumento delle disuguaglianze. A partire dal 1990, le economie emergenti di Russia, Cina, India e Sudafrica hanno sperimentato un brusco aumento delle disuguaglianze, mentre in Brasile sono leggermente diminuite, sebbene a partire da un livello molto alto.

Lo stesso vale per lo slogan della crescita verde. Il fatto che la crescita economica fondata sulle risorse fossili non sia praticabile neppure nel medio periodo, è arrivato perfino agli alti ranghi dei summit del G7. Nel 2015, i paesi industrializzati prevedevano la decarbonizzazione dell’economia globale entro la fine del secolo. In ogni caso, tutte le ricette della crescita verde sono fondate sulla disgiunzione tra degrado ambientale e crescita, anche se la disgiunzione assoluta (aumento della crescita con diminuzione del degrado ambientale) non è mai stata raggiunta nella storia 7Tim Jackson e Robin Webster, Limits Revisited: A Review of the Limits To Growth Debate, London, APPG, 2016; Decoupling Debunked, Bruxelles, European Environmental Bureau, giugno 2019..

In sostanza, lo sviluppo-come-crescita è divenuto storicamente obsoleto, rivelandosi persino pericoloso per la vita stessa. Malgrado ciò l’Agenda 2030 evita di parlare di prosperità senza crescita, neppure per quanto riguarda i vecchi paesi industrializzati. Ridurre la compulsione alla crescita sembra essere un tabù: in campo economico, ciò significherebbe dare priorità alla sufficienza anziché all’efficienza. In un’economia in cui domina il principio di efficienza, sempre più cose vengono prodotte con sempre meno risorse.

Ma in una economia della sufficienza, le cose necessarie sono prodotte con un uso intelligente delle risorse. Alcuni settori dell’economia si ridurrebbero, mentre altri crescerebbero. Questo assetto dell’economia implicherebbe una disponibilità a ridimensionare l’attuale sistema industriale. Al confronto con l’Agenda 2030, Papa Francesco, nella sua enciclica Laudato si’, sembra più capace di aprirsi al futuro, dato che propugna la decrescita per le zone ricche della Terra.

Una contraddizione insanabile

Mohandas Gandhi, che portò l’India all’indipendenza, era un post-sviluppista molto prima che il termine venisse inventato. Lasciò ai posteri una ben nota citazione, che riassume sinteticamente il suo pensiero sullo sviluppo: “La Terra offre abbastanza per i bisogni di ognuno [everyone’s need], ma non per l’avidità di ognuno [everyone’s greed]”.

Se si osserva meglio la frase, il suo carattere sovversivo diviene chiaro. Nessuna meraviglia che nell’India di oggi Gandhi sia visto come un santo patrono in disuso, che viene tirato fuori solo per cerimonie particolari. Al contrario dell’ortodossia economica, Gandhi crede che le risorse della Terra non siano scarse, ma invece abbondanti, di certo sufficienti per soddisfare i bisogni della società umana. Egli presuppone che i bisogni sono modellati culturalmente, e più o meno circoscritti, altra cosa in contrasto con il buonsenso economico generalmente accettato. Ciò lo porta a mettere sotto accusa l’avarizia, perché l’avidità sistemica pregiudica i bisogni della maggioranza delle persone. L’avidità è la variabile che decide se le persone hanno abbastanza per vivere oppure no.

Se gli autori del rapporto della Commissione Brundtland, nel 1987, avessero letto attentamente Gandhi, non sarebbero venuti fuori con quella classica definizione dello sviluppo sostenibile: “Lo sviluppo soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni”. Gandhi avrebbe insistito sul fatto che non tutti i bisogni sono ugualmente validi, che i bisogni dei benestanti sono diversi da quelli dei diseredati. Così, in seguito, la mancanza di distinzione tra bisogni di sopravvivenza e bisogni di lusso è divenuta una trappola nel dibattito sulla sostenibilità.

In effetti, mettere insieme i diritti umani e i diritti del consumatore fa parte dell’eredità del concetto di sviluppo, che è cieco ai rapporti di classe. Com’è possibile trattare i diritti sociali fondamentali al cibo, alla casa e alla salute come se fossero sullo stesso piano della domanda, espressa dai consumatori, di suv, proprietà immobiliari e azioni? Che cosa hanno in comune i Mapuche del sud del Cile con i banchieri di Wall Street, o i lavoratori del cotone del Mali con lestart-up di Shanghai? Non molto, tranne il fatto che sono uniti dal miraggio comune dello sviluppo.

Ma ciò apre un dilemma che è sempre rimasto nascosto nell’illusione dello sviluppo. Uno studio recente conferma che, all’interno del modello di sviluppo corrente, c’è una contraddizione insanabile tra gli obiettivi sociali e ambientali degli Sdg 8Daniel W. O’Neill et al., “A Good Life for All within Planetary Boundaries”, “Nature Sustainability”, 1, 88-95, 2018.. Nei paesi relativamente ricchi, dove gli obiettivi Sdg riguardanti la dimensione fisica (povertà, nutrizione, salute, energia) sono ragionevolmente soddisfatti – come in Europa, Nord America, Giappone, Argentina, Cile, Tailandia, e così via – c’è un problema ecologico di enormi dimensioni. Essi sorpassano i limiti planetari, nell’emissione di Co2 e di azoto, nel consumo di fosforo e di acqua dolce.

Al contrario, dove i paesi rimangono all’interno del quadro ambientale, gli obiettivi Sdg di tipo fisico sono largamente insoddisfatti. Il doppio vincolo è pressappoco questo: più sale lo standard di vita di un paese, più la biosfera tende a degradarsi. E, al contrario, meno sono garantiti i diritti umani e sociali, più tende a essere piccola l’impronta ecologica, almeno in termini di carbonio e di materiali. Che risultato tragico per lo sviluppo!

Ciò che è più rilevante, inoltre, è il fatto che a volte il benessere della classe media globale dipende dalla povertà degli altri. Ne abbiamo un’infinità di esempi: quando le grandi navi che praticano la pesca industrializzata svuotano gli oceani, danneggiano i pescatori locali; i piccoli proprietari vengono soppiantati quando le corporation agricole si accaparrano grandi estensioni di terra; gli abitanti degli slum devono lasciare il campo quando vengono costruite le strade urbane a scorrimento veloce; i vecchi abitanti devono andarsene quando la gentrificazione raggiunge i loro quartieri; i lavoratori vengono repressi quando rivendicano i loro diritti sindacali nelle fabbriche della filiera globale.

In breve, il modo di vivere “imperiale” penetra profondamente negli stili di vita, nelle istituzioni e nelle infrastrutture della classe media globale 9Ulrich Brand e Marcus Wissen, “The Imperial Mode of Living”, in Clive I. Spash (a cura di), Routledge Handbook of Ecological Economics, London, Routledge, 2017.. Non riconosciuto, eppure assolutamente presente attraverso una varietà di complesse strutture economiche e di meccanismi di sfruttamento, il risultato complessivo è drammatico: i benestanti vivono a spese dei poveri.

Paura del futuro

Un aspetto essenziale emerge dall’Agenda 2030, dall’enciclica Laudato si’ e dagli accordi di Parigi: l’entusiasmo del ventesimo secolo per lo sviluppo se n’è andato. Al suo posto, la fine della modernità espansiva ha conquistato la scena. Il motto del secolo scorso (parafrasando le parole del Padre Nostro), “come in Occidente, così in Terra”, ora suona come una minaccia. Il mondo ci appare in subbuglio: caos, paura e rabbia si estendono ovunque, contrastando aspramente con il trionfalismo degli anni Novanta. L’ascesa della Cina, il declino dell’Occidente, l’egemonia dei mercati finanziari, il ritorno degli stati autoritari: sono solo alcuni esempi dei capricci della storia contemporanea.

Se dovessimo trovare una frase che riassuma l’atmosfera attuale nel Nord Globale, e in parte del Sud Globale, potrebbe essere “paura del futuro”. È la paura che le prospettive di vita si stanno riducendo, e che i figli e i nipoti saranno meno benestanti dei loro genitori e nonni. Nella classe media globale si diffonde il sospetto che le aspettative suscitate dallo sviluppo non saranno soddisfatte.

Le classi medie dei paesi che erano ricchi, sfoltite dalla globalizzazione, ora chiedono protezione e sicurezza. Allo stesso tempo, vaste porzioni delle popolazioni dei paesi emergenti, alienate dalle proprie tradizioni, al corrente degli stili di vita occidentali attraverso i loro smartphone, ma escluse dal mondo moderno, fanno ricorso all’orgoglio nazionalista.

Ovunque si assiste a un’enorme polarizzazione tra ricchi e poveri. Ma mentre negli stati-nazione dei tempi andati i perdenti erano ancora capaci di pretendere correzioni dai vincitori, al tempo della globalizzazione non sono più in grado di farlo. L’economia transnazionale, specie il settore finanziario, trionfa sulle condizioni di vita di ogni paese. Come risposta, sono emersi i populismi nazionali, con le loro diverse sfaccettature.

Di fronte alle turbolenze del mondo contemporaneo, inquadrare i problemi sociali come “problemi di sviluppo” appare stranamente antiquato. Se tutto ciò non è ingannevole, nelle trasformazioni sociali si possono riconoscere tre diverse narrative: la narrativa della fortezza, quella del globalismo e quella della solidarietà.

Il pensiero della fortezza, espresso attraverso il populismo nazionale, ravviva il passato glorioso di un popolo immaginario. I leader autoritari riportano in auge l’orgoglio, mentre gli “altri” diventano capri espiatori (dai musulmani alle Nazioni Unite). Ciò conduce all’odio per gli stranieri, a volte combinato con il fondamentalismo religioso. Si diffonde ovunque una sorta di “sciovinismo opulento”, in particolare tra le classi medie, i cui beni materiali devono essere difesi contro i poveri.

Nei confronti dell’ecologia, inoltre, i populisti nazionali non mostrano altro che disprezzo. Gradiscono la trivellazione dei mari, il fracking, l’estrazione del carbone e la deforestazione. Per loro il cambiamento climatico è lo scrupoloso elenco dei nemici dell’economia nazionale. Sono così retrogradi da glorificare il saccheggio della natura. Tranne che per la loro xenofobia, potrebbero essere considerati i fantasmi dell’ideologia sviluppista degli anni Cinquanta. Ciò aumenta l’anacronismo dei populismi nazionali.

Al contrario, la narrativa del globalismo ruota attorno all’immagine del pianeta come simbolo archetipico. Al posto del mercantilismo da fortezza dell'”America First”, i globalisti promuovono un mondo ideale di deregulation e libero commercio, che dovrebbe portare ricchezza e benessere alle corporation e ai consumatori. I globalisti considerano però l’attuale sistema economico insostenibile. Rispetto alle strategie politiche del neoliberismo, essi danno più spazio agli investimenti pubblici, chiedono più riforme nel settore sociale e in generale più leadership nelle politiche pubbliche. Soprattutto, si battono per la crescita economica in un quadro di “green economy”. Le elite globalizzate possono anche essere preoccupate per il futuro, ma pensano che queste difficoltà possano essere superate attraverso la crescita inclusiva, le tecnologie smart e direttive in materia ambientale in grado di indirizzare le forze di mercato. L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, con i suoi Sdg, si colloca in larga misura all’interno di questo quadro di pensiero.

La narrativa della solidarietà è diversa. L’etica eco-sociale si pone in opposizione sia alla narrativa della fortezza quanto a quella del globalismo. Essa immagina un’era post-capitalista, fondata su uno spostamento culturale verso l’eco-solidarietà. La monocultura economica, che regna in larga parte del mondo, dovrebbe lasciare spazio ad alternative di civiltà, siano esse le visioni del mondo dell’Ubuntu o del Buen vivir, o quelle dell’umanesimo o spirito di comunità europei 10Ashish Kothari et al., Pluriverse: A Post-Development Dictionary, Alwarpet Chennai, Tulika Books, 2019..

Nella mentalità della solidarietà, i diritti umani – collettivi e individuali – e i principi ecologici sono altamente considerati; le forze di mercato non sono viste come un fine in sé, ma come mezzi per un fine. La politica della solidarietà promuove un cambiamento culturale piuttosto che tecnologico, sostenuto da forme di economia cooperativa e da misure di welfare pubblico. Diversamente dal globalismo, la narrativa della solidarietà non invoca confini aperti, ma permeabili, imponendo determinate condizioni ai migranti, alle merci e ai capitali, come la membrana di una cellula vivente.

Così come espresso dallo slogan “pensare globalmente, agire localmente”, viene inoltre coltivato un localismo cosmopolita in cui le politiche locali devono tenere in considerazione anche i bisogni della comunità transnazionale. Ciò significa abbandonare il modo di vivere “imperiale” che la civiltà industriale esige, lasciando la terra, il cibo e i capitali del Sud Globale nelle proprie mani.

Soprattutto di fronte al collasso ecologico, nel Nord come nel Sud del mondo è indispensabile eliminare gradualmente il sistema economico basato sulle risorse fossili, sostituendolo con un sistema fondato sulla biodiversità.

Questa transizione implica sistemi eolici e solari per fornire energia, e agricoltura rigenerativa per fornire cibo e fibre. Al posto di una modernità espansiva, è ora il tempo di una modernità riduttiva: imprese verdi, case a emissioni zero, una quantità di traffico motorizzato molto inferiore (rispetto agli standard europei), un consumo di carne molto più basso e, in generale, meno proprietà e più condivisione. Infine, sono necessarie nuove forme di prosperità frugale: abbondanza di tempo anziché abbondanza di merci, lavoro di cura anziché lavoro retribuito, condivisione [partaking] della natura anziché partecipazione [ taking part] alla corsa dei topi.

Dal momento che ci confrontiamo con la paura del futuro, sono in gioco gli orientamenti politici fondamentali. Questa disputa paradigmatica sarà all’ordine del giorno nei decenni a venire. Così lo sviluppo, come le monarchie e il feudalesimo, è in procinto di allontanarsi sempre più lontano nelle foschie della storia, e a quel punto interesserà solamente gli studenti e gli studiosi. Dare forma al nostro destino, oltre lo sviluppo, è il compito che ci sta di fronte.

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