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Dossier 1972 – Forse entro cento anni la fine del mondo. I limiti allo sviluppo in uno studio del mondo condotto da un’equipe del Mit per conto del “Club di Roma”

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Intervista pubblicata su “E’. Settimanale d’attualità mondiale”, a. I , n. 4, 1972.

Dove va il mondo? Per secoli l’abbiamo chiesto a indovini, auguri, streghe. Lo abbiamo domandato alle stelle, al volo degli uccelli. Non c’è parte della realtà che non sia stata sollecitata a dare risposte, a tradire un suo segreto supposto e mai rivelato.

Oggi, nell’attesa del nuovo millennio, la futurologia annaspa tra un’alternanza di visioni apocalittiche e improbabili mondi perfetti.

In realtà, per delineare il futuro con un minimo di credibilità, occorre prima avere una visione attendibile del presente, cosa che di solito manca a questi funamboli dell’immaginazione. Conoscere il presente significa indagare la complessa problematica mondiale tenendo conto soprattutto delle interazioni tra problemi di diversa natura: il mondo non è fatto a settori stagni e ogni cosa che accade ha ripercussioni su tutto il resto.

Intellighentsia per il futuro

Il primo tentativo di condurre una tale rigorosa indagine sulla realtà presente per ideare poi una strategia del futuro fa capo ad Aurelio Peccei, uno dei grossi manager dell’economia italiana, presidente dell’Italconsult e uomo che col divinatorio e la futurologia da dilettante non ha nulla a che vedere.

Vado a trovare Peccei nel suo ufficio, in uno dei palazzi del centro direzionale lungo la Cristoforo Colombo. Dalla finestra appare un verde ravviato, qualche pino sopravvissuto: quel che resta della campagna romana.

Sul suo tavolo, Peccei ha le bozze di un libro The Limits to Growth (I limiti allo sviluppo), che compare proprio in questi giorni nell’edizione italiana, e che sintetizza i risultati di questo studio globale sulla situazione dell’umanità.

Peccei racconta la genesi del progetto.

Nell’aprile del ‘68 si riunisce presso l’accademia dei Lincei, a Roma, un gruppo di trenta persone di dieci paesi, dietro invitò di Peccei stesso.

Il tema che si propone di affrontare è di dimensioni impressionanti: la situazione presente e futura dell’umanità Lo scopo – spiega Peccei – era quello di avere un gruppo transnazionale, che potesse raccogliere la ricchezza di varie culture. Che fosse cioè un concentrato della intellighentsia attuale nel mondo: scienziati, umanisti, uomini d’azione, economisti. Ci sono nomi come Alexander King, direttore scientifico della Oecd (organizzazione cooperazione economica e sviluppo); Saburo Oki-ta, capo del Centro di Ricerche Economiche di Tokyo; Ernesto Sabato, lo scrittore argentino; Eduard Pestel, dell’università tecnica di Hannover.

Che cosa questo trust di cervelli si propone di fare è subito detto: “Due sono gli obiettivi del club – continua Peccei – approfondire la conoscenza del mondo attuale, soprattutto delle sue complicazioni e delle dinamiche dovute alla interazione dei vari fenomeni e trarre da questa conoscenza le indicazioni per cambiare la direzione in cui si sposta l’umanità, direzione che ritenevamo – e questo studio l’ha confermato – ci porti alla catastrofe “.

Per due anni il Club di Roma ricerca la metodologia e lo strumento che permetta questa visione integrata dei problemi del mondo. La trova nel system dynamics (analisi della struttura di un dato sistema attraverso le interazioni dei suoi componenti) che permette, per così dire, di mettere l’intero universo in un modello matematico. Comincia la fase prima del progetto del Club di Roma sulla condizione dell’umanità, finanziata dalla Fondazione Volkswagen e affidata ad un gruppo internazionale sotto la guida del prof. Dennis H. Meadows, del Mit (Istituto Tecnologico del Massachusetts). Le conclusioni di Meadows e dei suoi collaboratori sono racchiuse in questo libro che sarà pubblicato in dodici lingue, mandato a dodicimila personaggi chiave in tutto il mondo e che secondo Peccei, dovrebbe, nel giro di un paio d’anni, avere un tale impatto sull’opinione pubblica e su chi gestisce il potere da far cambiare letteralmente rotta all’umanità.

Un modello di mondo

“È chiaro che si tratta di un modello del mondo semplificato e imperfetto, ma già a questo stadio di imperfezione permette effettivamente di vedere la dinamica dell’insieme e non quella di ciascun fenomeno erroneamente isolato: permette cioè di ridurre il mondo in un modello comprensibile, sostanzialmente semplice”. Questo fatto di prendere il mondo nel suo insieme, di cominciare a pensare in termini di pianeta terra, di capire che i nostri personali destini sono coinvolti in quelli globali dell’umanità rovescerà molti modi di pensare. E da questo cambiamento di pensiero potrà nascere la possibilità di dirigere il mondo verso mete più razionali. Un vero e proprio salto copernicano.

Cosa dicono, in sostanza, queste scarne paginette che rappresentano secondo Peccei, lo strumento per giungere a questa rivoluzione del pensiero?

Lo studio, come si è detto, tenta per la prima volta una indagine sistematica della problematica mondiale nel suo aspetto dinamico. Il modello matematico del mondo di cui si serve prende in considerazione soprattutto cinque fattori di vitale importanza che determinano – e quindi limitano in ultima analisi – lo sviluppo su questo pianeta. Essi sono: la popolazione, la produzione alimentare, lo sfruttamento delle risorse, l’industrializzazione e la degradazione dell’ambiente.

Le domande a cui cerca di rispondere sono quelle che ognuno si pone: dove andrà a finire il mondo se si continua di questo passo? Come potrà l’umanità far fronte ai problemi che l’angosciano? E quanto tempo ci rimane per trovare una via d’uscita?

Le conclusioni dello studio sono agghiaccianti: se si lascia che le cose vadano avanti così, e cioè che i cinque fattori sopracitati continuino a crescere con ritmo esponenziale, entro cento anni avremo superato i limiti di sviluppo sulla terra.

La popolazione subirà una caduta repentina e la vertiginosa crescita del mondo finirà nel collasso totale del sistema. Lo sviluppo del mondo, infatti, non avviene in modo lineare, come si è pensato finora, ma segue piuttosto la filosofia delle cellule cancerogene.

È presto per domani

L’incredibile accelerazione a cui è sottoposta la crescita delle attività umane ha stravolto il presente gettandoci in un futuro che non riusciamo a controllare.

Scrive Alvin Toffler, autore del best-seller Lo Shock del Futuro “a meno che l’uomo non riesca a imparare al più presto a controllare il ritmo dei cambiamenti sia a livello individuale che sociale, siamo tutti destinati al collasso per l’incapacità di adattarci”.

Il futuro, insomma, è arrivato troppo presto per molti di noi, che ancora indugiano nel passato.

La tecnologia, cui avevamo delegato la responsabilità di creare il futuro, ha ridotto il mondo a dimensioni esigue e ora, su un pianeta minuscolo e finito, ci rovescia addosso una serie di problemi che si accavallano con ritmo ossessivo.

Immaginiamo, per capire come vanno le cose, uno stagno in cui crescano due ninfee, che ogni giorno raddoppiano. Se le si lascia crescere con questo ritmo dopo trenta giorni invaderanno lo stagno soffocandovi ogni altra forma di vita. La cosa non parrà allarmante fino a che le ninfee non avranno coperto metà dello stagno. Ma quando accadrà questo? Naturalmente al ventinovesimo giorno. Dopodiché rimarrà un solo giorno per salvare lo stagno.

Il “solo giorno” che ci rimane per il recupero del pianeta terra è calcolabile, secondo lo studio del Mit, in pochi decenni.

Se in questo breve lasso di tempo riusciremo ad imbrigliare questa crescita folle e a portare l’intero mondo verso uno stato di equilibrio globale potremo evitare la catastrofe. Altrimenti i cavalieri dell’Apocalisse saranno fra noi in meno di cent’anni. La popolazione mondiale raddoppia ogni 33 anni: eravamo tre miliardi e sette nel 70, saremo sei miliardi e mezzo nel duemila. Ogni anno nascono settantacinque milioni di persone, ogni giorno un’intera città.

L’incremento demografico richiede un aumento della produzione industriale e dell’evoluzione economica. Ma questo avviene soltanto nei paesi già sviluppati, di modo che il processo di crescita economica non fa che aumentare l’abisso tra nazioni povere e quelle ricche: i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Inoltre lo sviluppo economico comporta un intenso sfruttamento di materie prime, combustibili e risorse energetiche che si traduce in un vero e proprio saccheggio del pianeta a tutto vantaggio di una parte privilegiata dell’umanità (quella colpevole del saccheggio peggiore).

Le risorse si stanno esaurendo con ritmo esponenziale. Finora ci si era illusi sui tempi di esaurimento di alcune risorse chiave proprio perché si ragionava in termini di calcoli lineari: si pensava ad esempio di avere alluminio per altri 100 anni, rame per 110, petrolio per 31 e così via. Il computer ha ridotto drasticamente questi tempi: rispettivamente a 31, 60 e 20 anni. E così per le altre risorse. Inoltre, dato il ritmo di consumi, i prezzi sono in costante aumento; quello del mercurio, ad esempio, è salito del 500 per cento negli ultimi anni.

Entro il 2000 la fame

Le materie prime si fanno sempre più rare e costose, sempre più irraggiungibili, quindi, per i paesi cosiddetti in via di sviluppo e che appaiono invece condannati ad una condizione sempre più angosciosa.

La produzione totale di cibo nei paesi sottosviluppati è aumentata, ma con lo stesso ritmo è aumentata la popolazione: per cui ogni persona si ritrova ad avere, per sfamarsi, quel che aveva prima. E la fame resta.

Anche ammesso che si riuscissero a sfruttare tutte le aree utilizzabili per l’agricoltura, al tasso attuale di crescita della popolazione, il nostro pianeta diventerebbe ugualmente insufficiente prima del 2000. Coltivare nuove terre costa troppo, raddoppiare la produttività delle aree già coltivate è pure un’operazione costosissima. Inoltre implica un impiego massiccio di concimi chimici e antiparassitari, e porta a un super sfruttamento del terreno: il tutto equivale ad un altro passo avanti verso la catastrofe ecologica.

Il pericolo che questa ci arrivi addosso appare sempre più consistente se si tiene conto del fatto che anche l’inquinamento aumenta a ritmo esponenziale e che per di più non sappiamo quali siano i limiti massimi che possiamo raggiungere senza provocare la rottura irreparabile degli equilibri ecologici.

Siamo insomma in un bel pasticcio. L’attuale tendenza del sistema mondiale – produrre più gente con “più” di tutto – fa sì che alla crescita vertiginosa segua puntualmente il collasso.

Gli studiosi del Mit hanno cercato di studiare varie alternative, proponendo al computer una serie di modelli possibili che equivalgono ad altrettante ipotetiche vie d’uscita.

Vediamo, si sono detti, se la tecnologia su cui si ripongono tante speranze, ci dà veramente gli strumenti per uscire da questa impasse. Immaginiamo per esempio che la disponibilità illimitata di energia nucleare raddoppi le risorse e renda possibile vaste operazioni di riciclaggio. Ma se si introducono solo questi cambiamenti nel sistema, lo sviluppo viene arrestato dalla crescente degradazione ambientale. Persino dando per scontate risorse illimitate, controllo dell’inquinamento, miglior produzione alimentare e controllo delle nascite le conclusioni del computer sono inesorabili: al massimo si può posporre la catastrofe verso il 2100, ma evitarla no.

Su un pianeta sempre più esiguo cresciamo in modo vertiginoso

Il problema di fondo è che una crescita esponenziale in un sistema complesso e finito quale il mondo è insostenibile.

La tecnologia, da molti considerata il deus ex machina della situazione non altera invece le tendenze di base che portano al collasso finale.

Non c’è dunque via d’uscita?

L’equipe del Mit ritiene di sì: la condizione è quella della transizione da uno stato di crescita avventurosa e caotica ad uno stato di equilibrio mondiale globale.

La ricetta per arrivarci è grosso modo la seguente: stabilizzazione della popolazione (cioè un tasso di natalità che sia pari alle morti) e del capitale (servizi, industrializzazioni etc.), limitazione dello sfruttamento delle risorse, controllo degli inquinamenti e tutta una serie di misure da studiarsi in dettaglio che convergano su questo obiettivo di equilibrio.

Soprattutto, occorre modificare radicalmente i fini della società (qui sta il vero salto copernicano) e adottare modelli di comportamento che diano priorità alla produzione di servizi sociali e culturali e al miglioramento della qualità della vita.

In fondo non abbiamo scelta, dicono Meadows e i suoi collaboratori; la crescita arriverà comunque ad un alt. Sta a noi fare in modo, che ciò non avvenga in modo disastroso, attraverso guerre, carestie, catastrofi ecologiche ma che la transizione si verifichi in modo razionale e ordinato.  Abbiamo tutto quel che occorre per operare questa scelta di fondo, sostengono gli studiosi del Mit. Mancano però, ammettono, due ingredienti di fondo: un obiettivo realistico a lunga scadenza che guidi l’umanità verso l’equilibrio globale e la volontà umana di raggiungere tale equilibrio. Non ci pare poco.

Il Club di Roma ha allo studio una serie di progetti che tenteranno proprio di stabilire il “come” si può arrivare, entro i limiti trovati dal primo studio, ad un equilibrio stabile senza provocare effetti laterali negativi come disoccupazione, carestie e così via.

“Vorrei – aggiunge Peccei – che se ne occupassero proprio quelli che sono gli attuali responsabili della crescita del mondo, che fossero loro a cercare le vie concrete per arrivare all’equilibrio”.

Nel frattempo il dibattito sollecitato dal club di Roma sulle conclusioni dello studio è già divenuto un turbine di polemiche. Parecchi economisti esprimono dubbi sulla possibilità di arrestare lo sviluppo. “È una conclusione semplicistica – afferma Simon S. Kuznets, premio Nobel dell’economia – non si possono risolvere i problemi bloccando le fonti dei cambiamenti”.

Altri, come il prof. Henry C. Wallich di Yale, dicono che un’economia di non-crescita è difficile da immaginare, ancora più problematica da raggiungere e potrebbe finire col congelare i paesi poveri nella loro povertà.

“Potete immaginare – rincalza l’economista Solow – miliardi di asiatici ed africani che continuano a vivere al loro attuale livello di vita mentre noi andiamo avanti col nostro?”.

Inoltre lo studio del Mit non tiene volutamente conto dei fattori sociali che peraltro, ammette, svolgono un ruolo fondamentale nel processo di crescita mondiale. E rappresentano anche l’imprevedibile, il difficilmente razionalizzabile e perciò l’elemento che dà a questo equilibrio mondiale il colore dell’utopia.

Che la catastrofe sia in arrivo pare più che probabile.

È sul come evitarla che il meccanismo delle previsioni e delle terapie si inceppa. Purtroppo il tempo per trovare soluzioni è esiguo. Viviamo già di crediti, e il futuro, forse, l’abbiamo già condannato oggi.

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