L’América Latina, oggetto di una disputa egemonica feroce e globale tra Cina e Stati Uniti, è investita da una tormenta che rende instabile qualsiasi governo e ardua la possibilità di leggere i processi in corso. Trascorso il tempo in cui l’alto prezzo delle materie prime ha permesso alle politiche – comunque neoliberiste – dei governi progressisti di non comprimere sotto il limite della sopravvivenza i redditi delle popolazioni povere, s’è aperta una fase nuova nel caos sistemico. Così, la guerra estrattivista de los de arriba contro i poveri, sostenuta dai governi di ogni colore, produce grandi proteste e sollevazioni di diversa natura. Nel nucleo principale dei protagonisti, si distinguono le donne, le comunità indigene e i giovani, che vedono chiudersi ogni speranza di futuro che non umili la dignità. Raúl Zibechi, intervistato da Gloria Muñoz Ramirez, direttrice di Desinformémonos e storica firma de la Jornada, traccia una panoramica completa di quel si muove nella regione latinoamericana. Queste rivolte, spiega, non sono contro un presidente ma contro un modello predatorio che devasta il pianeta e prova a controllare la gente attraverso le politiche sociali e la militarizzazione, due elementi che si integrano alla perfezione con il fine di mantenere la popolazione soggiogata. Di fronte al diluvio che li colpisce e impedisce di vedere vie di uscita credibili, los de abajo non possono che resistere in modo organizzato e collettivo, costruendo le arche di una sopravvivenza che esprime già oggi i mondi nuovi. Per quanto l’intervista sia in parte superata dagli eventi – e in primo luogo dal golpe elettorale che ha invalidato la rielezione di Evo Morales costringendolo all’esilio – sono molti gli elementi di interesse che ne suggeriscono comunque la pubblicazione.
Delle attuali rivolte latinoamericane, del ruolo dei popoli indigeni, dei giovani e delle donne, del ruolo degli Stati Uniti, delle elezioni in Bolivia e in Argentina, della congiuntura in Messico, dell’ultra-destra e di ciò che segue per chi cerca un mondo più degno, parla in questa intervista Raúl Zibechi, giornalista e scrittore uruguayano che conosce, percorre e accompagna diverse lotte dell’América Latina.
Indice
Cosa sta succedendo in América Latina? Perché adesso le rivolte in Ecuador, Haiti e Cile?
Siamo alla fine di un periodo segnato dall’estrattivismo, la fase attuale del neoliberismo o Quarta Guerra Mondiale. Credo sia l’autunno dell’estrattivismo perché il suo periodo d’oro è stato prima della crisi del 2008, quando i prezzi alti delle commodities hanno permesso di migliorare i redditi dei più poveri senza toccare i ricchi, senza riforme strutturali, come quella agraria, quella urbana, la fiscale e così via. Le rivolte sono molto diverse in ogni paese. In Ecuador abbiamo una sollevazione – sono state una decina dal 1990 – ben organizzata e diretta dalla Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (CONAIE), che per la prima volta è stata parzialmente scavalcata dai poveri delle città. In Cile, invece, c’è un’esplosione, senza che nessuno l’abbia convocata e senza direzioni ma con una crescente organizzazione territoriale attraverso assemblee popolari. I settori più organizzati sono i Mapuche, gli studenti e le donne, che stanno giocando un ruolo rilevante.
Credo che la gente ne abbia abbastanza, sia stanca e arrabbiata per tanta disuguaglianza e per il livello infimo in cui si trovano il lavoro, la salute e l’educazione. Quel che c’è sono servizi pessimi per gente di scarto. La vedono così soprattutto i più colpiti, le ragazze e i giovani, che si accorgono di non avere alcun futuro in questo sistema. La gente approfitta delle crepe (nella dominazione, ndt), come per lo sciopero degli autotrasportatori in Ecuador, per farsi sentire.
Qual è la tua lettura di ciò che sta succedendo in Bolivia? Nelle elezioni presidenziali è stato rieletto Evo Morales, ma poi sono seguite le mobilitazioni…
Un’altra frode. Evo Morales e la cricca che lo circonda, a cominciare dal vicepresidente Álvaro García Linera, si aggrappano al potere, la sola cosa di cui gli importa. È una lezione importante: avendo rinunciato a ogni etica ai dirigenti di sinistra rimane solo l’ossessione del potere. Questo merita un’analisi profonda. Come siamo arrivati a questo? Che cosa è accaduto perché il loro unico interesse sia il potere e tutto ciò che lo circonda, come il lusso o il controllo sulla vita degli altri? Morales non doveva presentarsi a queste elezioni perché ha convocato un referendum e ha vinto il No alla sua candidatura. Ha violato la volontà popolare e adesso torna a farlo. È chiaro che la destra pretende di approfittare di questa situazione, ma non dimentichiamo che la Organizzazione degli Stati Americani, attraverso Luis Almagro, difende il regime di Morales, questo mi sembra molto significativo. Chi parla di colpo di Stato nasconde che c’è un patto con la destra, i militari e la OEA, cioè con gli Stati Uniti, per sostenere il governo di Morales. Dobbiamo riflettere sul perché la sinistra non riesce a immaginare di potersi staccare dal potere, sul perché non concepiscono la politica senza aggrapparsi allo Stato. E sul perché, tra le altre cose, hanno abbandonato la costruzione di poteri popolari, sul perché non gli interessa che la gente si organizzi e fanno inevece tutto il possibile per evitarlo, perfino attraverso la repressione e il terrorismo di Stato, come in Nicaragua.
Che ruolo giocano i popoli indigeni nelle rivolte?
Sono il nucleo principale, insieme alle donne e ai giovani. Quel che sta succedendo in Cile ha tre precedenti: la lotta del popolo mapuche, quella degli studenti, molto viva da oltre dieci anni, e quella delle donne che l’anno scorso hanno occupato le università contro il patriarcato accademico. Mi sembra buffo quando dicono che il Cile s’è svegliato. Quelli che si sono svegliati sono stati i giornalisti e gli accademici che stavano nel limbo. Los de Abajo non hanno mai dormito. Un anno fa la risposta di tutto il Cile all’assassinio di Camilo Catrillanca è stata impressionante, con i blocchi stradali per un mese a Santiago e in altre trenta città. I popoli originari hanno due grandi qualità. La prima è l’organizzazione territoriale comunitaria che sta diventando più profonda con la comparsa dell’attivismo dei giovani e delle donne, che democratizzano le comunità. La seconda è che incarnano modi vivere potenzialmente non capitalisti, cosa che nessun altro settore della società può offrire alle lotte. Educazione, salute e cibo in chiave non mercantile, a cui bisogna aggiungere la costruzione di poteri di un altro tipo, non statali. Per questo i popoli originari sono referenti per tutti coloro che lottano. Per questo i “bianchi delle città” agitano le bandiere Mapuche e le donne, studentesse e contadine ecuadoriane accettano l’orientamento degli indigeni. Mi piacerebbe dire che i popoli originari sono oggi il principale referente delle rivolte, anche per i settori delle classi medie urbane. A Quito, le donne professioniste lavavano i bagni della Casa della Cultura, mentre donne e uomini originari discutevano in assemblee improvvisate. Lo hanno fatto come gesto di rispetto e di accettazione attiva della loro leadership, con un atteggiamento che dovrebbe farci riflettere dal cuore perché emoziona profondamente.
L’Uruguay rifiuta la Guardia Nazionale, che al contrario è stata approvata in Messico. Qual è il risultato delle forze armate nelle strade?
Nei prossimi anni vedremo sempre più i militari nelle strade. Lula e Dilma, in Brasile, li hanno portati nelle favelas e nessuno ha alzato la voce, perché lì sono neri e “delinquenti”. Il tema del crimine organizzato è un pretesto perfetto, perché serve a lavare la coscienza delle classi medie della sinistra, che sono poi quelle che meno soffrono la violenza. Il futuro ministro degli Interni del Fronte Amplio in Uruguay, Guastavo Leal, sta già comportandosi come tale e si dedica a perseguire i punti di vendita di pasta base con una foga speciale, demolisce le case degli spacciatori quando vengono detenuti. Non si tratta di narcos, in senso stretto, ma di poveri che sopravvivono nella delinquenza e che vengono sottoposti a metodi repressivi identici a quelli che utilizza Israele con i Palestinesi. Tuttavia, in Europa sono state scoperte partite di cocaina fino a cinque tonnellate imbarcate nel porto di Montevideo. La presenza nelle strade dei militari è inevitabile perché los de arriba hanno dichiarato guerra alla popolazione. Non c’è alcuna relazione con l’essere di destra o di sinistra, è una questione di classe e di colore della pelle, è la politica dell’1 per cento della popolazione che vuole restare arriba, sopra.
Che lettura dai del Messico in questo contesto latinoamericano?
Da tempo in Messico si sta incubando qualcosa di molto simile a quello che succede in Cile, una fenomenale esplosione che è stata ritardata prima dalla guerra e adesso dal governo di Andrés Manuel López Obrador. Però la pentola sta accumulando pressione ed è inevitabile che a un certo punto momento si verifichi una enorme sollevazione, accadrà quando la rabbia supererà la paura. Non sappiamo quando, ma il processo è in marcia, perché la politica di approfondimento dell’estrattivismo dell’attuale governo è un dispositivo di accumulazione di rabbie. Dall’altra parte, in Messico vedo un potere debole, un governo che si tira indietro di fronte ai narcos, com’è successo a Culiacán, e invece mette sotto pressione le popolazioni come a Morelos, quando hanno assassinato il difensore della comunità Samir Flores Soberanes. AMLO sta negoziando coi narcos e calpesta i popoli originari, rivelando così la miseria etica del suo governo. Ha detto che si è trattato di salvare vite, e questo lo posso capire. Ma chi ha difeso la vita di Samir e di tanti altri assassinati in questo suo primo anno di governo?
L’Argentina e le elezioni. Il ritorno del progressismo è la soluzione?
Il problema è che torna un’altra cosa, non il progressismo. In Argentina non torna il kirchnerismo del 2003, ma un regime peronista molto repressivo, che sarà più simile a quello del Perón del 1974 o del Menem del 1990. Il ciclo progressista è finito, sebbene ci siano ancora governi che si proclamano di quella corrente. Il progressismo è stato un ciclo segnato dai prezzi alti delle commodities, cosa che ha permesso di trasferire ai settori popolari le entrate degli alti avanzi commerciali. Oltre a questo fattore economico, il ciclo finisce per un’altra ragione decisiva: finisce la passività, il consenso tra classi, i movimenti si mettono in attività e questo segna un limite chiaro al ciclo che era possibile solo grazie all’accettazione abajo (in basso, ndt) delle politiche de arriba. Credo che il nuovo governo dovrà affrontare enormi difficoltà per il peso del debito che lascia Macri e che costringe a una politica di austerità. Il problema è l’aspettativa popolare che le cose cambino rapidamente e si produca un miglioramento rilevante nell’attività economica e nei salari. Sappiamo che questo non è possibile, si apre allora un periodo di imprevedibilità nel quale la gente non si metterà passiva ad aspettare che le vengano consegnati benefici. In Argentina vedremo un potente approfondimento dell’estrattivismo, in particolare per quel che riguarda il petrolio e il gas di Vaca Muerta.
In Costa Rica e a Panama ci sono rivolte studentesche. Che ruolo giocano i giovani?
I giovani sono uno dei settori più attivi. Se gli indigeni subiscono l’espropriazione e le donne violentate e assassinate, i giovani sanno che non hanno futuro, perché una vita dignitosa non può consistere in un lavoro di otto o dieci ore in un Oxxo, che con il viaggio di andata e ritorno a casa diventa di quasi quattordici ore dedicate al lavoro. Non c’è tempo né animo per fare altro che consumare con quel poco che resta di un salario, quando pure ce ne sia uno di salario. Solo una minoranza ha accesso a studi superiori, con borse di studio che garantiscono fino ai 40 anni una vita comoda. Un contrasto acuto con i giovani dei settori popolari, gli indigeni e i neri che, quando escono dai loro quartieri, subiscono la violenza della polizia o dei narcos, il che ci indica che vivono in una situazione di acuta fragilità. Questo li porta, in certi momenti, a entrare nella criminalità organizzata, che garantisce loro una vita più comoda. Ma, soprattutto, gli fa accumulare rabbia, molta rabbia. In Ecuador, i vecchi dirigenti comunitari erano sorpresi del fatto che i giovani si scontrassero con i gendarmi a mani nude, per pura ostilità, senza calcolarne le conseguenze. Sono riusciti a prendere centinaia di poliziotti che poi sono stati consegnati all’ONU o ad altre autorità, perché i dirigenti sono intervenuti affinché non venissero feriti. Fosse stato per i giovani, li avrebbero liquidati lì per lì, ai piedi delle barricate. Perché questa gioventù povera non ha esperienze di lotta organizzata e tende a togliersi la rabbia attaccando i nemici, cosa che può produrre autentici massacri. Però sono lì, pronti a superare ogni restrizione immaginabile: della famiglia e del quartiere, fino agli apparati repressivi e, naturalmente, delle organizzazioni di sinistra. Qui dobbiamo lavorare duro per organizzarli.
Il ruolo dell’ultradestra e il caso di Bolsonaro in Brasile
Dal momento in cui è andato al governo, Bolsonaro ha incontrato una serie di ostacoli che hanno mostrato un’enorme incapacità di governare. Si sono scatenate crisi nel suo stesso partito, tra il presidente e gli alleati, con gli imprenditori e i grandi produttori agricoltori. La vera ultradestra sono le forze armate, in particolare l’esercito, che gioca il ruolo di stabilizzatore del governo. Credo che il grande problema del Brasile sia la tremenda insicurezza nella vita quotidiana che soffrono le fasce popolari, generalmente povere e nere. Questo le porta a cercar rifugio nelle chiese evangeliche e pentecostali, così come in figure che mostrano un’immagine di “sicurezza”, come Bolsonaro. Quel che dobbiamo chiederci è perché i settori popolari hanno abbandonato il Partito dei Lavoratori (PT) e si sono rivolti all’ultradestra. La risposta semplicistica è che sono influenzati dai media. Una posizione che difendono gli accademici che si credono immuni dai media e che sottostimano le capacità popolari. La realtà è che la vita di chi vive nelle favelas è tremenda: precarietà nel lavoro, opprimente presenza della polizia militare, crimini e assassinii da parte dello Stato, salute ed educazione di pessima qualità, timore per i figli, che cadono vittime dei proiettili in percentuali allucinanti. Le madri temono per i loro figli e per il loro futuro. È un clima ideale per cadere in mano all’ultra-destra, in particolare tra i giovani maschi che si sentono spodestati dalla legittimazione nei loro rapporti di coppia.
In questo contesto, qual è il ruolo degli Stati Uniti?
La regione sta diventando lo scenario di una disputa per l’egemonia globale tra Stati Uniti e Cina. La penetrazione cinese si sta mostrando perfino peggiore di quella yankee. In Ecuador si costruiscono opere dell’infrastruttura, dighe idroelettriche, ad esempio, con schiavi cinesi che scontano le proprie condanne lavorando in condizioni forzate, con punizioni corporali incluse. Nessuno deve credere che il capitalismo e l’imperialismo cinese siano meno opprimenti e aggressivi di quelli yankee. Il problema è che gli Stati Uniti hanno bisogno di riposizionarsi in América Latina per compensare la crescente debolezza in Africa, Asia e Medio Oriente. Una delle tendenze che vedremo nel futuro immediato è la distruzione degli Stati-Nazione, un processo che è già cominciato in Messico e nei paesi del Centro America. Da questa parte, dobbiamo aspettarci il peggio.
Fino a dove?
La principale caratteristica di questo periodo che segue il ciclo progressista è l’instabilità. Le destre non possono governare, come dimostrano Cile ed Ecuador. Però neanche i progressismi, come dimostrano Bolivia e Nicaragua. Attenzione, però, il problema non è questo o quel governo (il governo è sempre un problema), bensì il sistema. Queste rivolte non sono contro un presidente ma contro un modello di distruzione della natura e di controllo sociale di massa attuato attraverso le politiche sociali e la militarizzazione, due elementi che si integrano al fine di mantenere la popolazione soggiogata. La risposta a quel “fino a dove” non può essere altra che l’organizzazione popolare in ogni territorio, per resistere e costruire i mondi nuovi. Mi piace parlare di arche, perché è necessario sopravvivere in modo collettivo al diluvio che viene. Desinformémonos può essere considerato come un’arca dell’inter-informazione de los abajo, come il meccanismo per collegare le nostre condotte, come direbbe Humberto Maturana. Cioè, un’informazione verso l’interno del campo popolare, o verso delle arche collettive, che è imprenscindibile per orientarci in un qualche senso di emancipazione, ma soprattutto per muover-ci in mezzo a una tormenta che non lascia vedere nulla, perché il diluvio è così forte che annebbia la vista.