L’agricoltura è in questi mesi al centro di dibattiti, seminari, pubblicazioni, in parte come conseguenza dell’attenzione suscitata dall’Expo di Milano e dal suo tema “Nutrire il pianeta Energia per la vita”, in parte perché attorno all’agricoltura e al cibo si muovono da tempo alcuni tra i movimenti sociali più innovativi in Italia e nel mondo.
Tra i momenti di discussione più interessanti, il convegno organizzato a Brescia (20-22 aprile) dalla Fondazione Micheletti e da Slow Food Italia, “Le tre agricolture: contadina, industriale, ecologica. Nutrire il pianeta e salvare la terra”, che ha peraltro mostrato alcune contraddizioni su cui è importante lavorare per capire come muoversi nella direzione di una maggiore giustizia a livello globale nella produzione, distribuzione e consumo di cibo.
Il testo introduttivo del convegno e il Manifesto di Brescia (cfr. “Altronovecento” n. 27) che in preparazione dell’incontro è stato redatto da Alberto Berton, Giorgio Nebbia e Pier Paolo Poggio rappresentano una critica forte all’agricoltura industriale, perché “orientata solo dalla logica del profitto”, “insostenibile per l’ambiente, a causa dello sperpero di risorse non rinnovabili”, per “i pesanti attacchi che porta alla diversità e vitalità degli ecosistemi terrestri e marini”, perché “produce alimenti di bassa qualità”, fomenta “vere e proprie guerre”, “toglie posti di lavoro e moltiplica i lavori precari e semi-schiavili”, “concorre a riprodurre la disuguaglianza”, e per molti altri motivi. Alcuni interventi hanno aggiunto elementi preziosi a questo quadro. Ad esempio, Alfredo Somoza ha spiegato le possibili conseguenze sull’agricoltura europea del Trattato Transatlantico (il TTIP) attualmente in discussione tra Unione Europea e Stati Uniti (una contrattazione che non ha ad oggi alcuna legittimazione democratica e su cui è necessario fare informazione e opposizione).
I firmatari del Manifesto di Brescia, di contro, sperano in “un sistema agro-alimentare ecologico, alternativo rispetto a quello industriale e finanziario, dove agricoltori, trasformatori, distributori, consumatori non agiscono in competizione gli uni contro gli altri per interessi esclusivamente economico-monetari, ma in cooperazione per finalità fondamentalmente economico-ecologiche”; aspirano a una economia agricola che assicuri “un reddito dignitoso, un lavoro soddisfacente, la sperimentazione di nuove forme di convivenza sociale e un rapporto consapevole con l’ambiente di vita”. Il modello proposto è quello di una “agricoltura ecologica” che raccolga e superi “l’eredità sia dell’agricoltura contadina sia di quella industriale”.
Obiettivi così ambiziosi fanno sorgere immediatamente una domanda: affinché il Manifesto non resti soltanto un testo tra i tanti, chi sono gli interlocutori, i soggetti di questo progetto di cambiamento rivoluzionario nel sistema agricolo e non solo? Quali in Italia, quali nel mondo? E come procedere verso un’agricoltura contadina ed ecologica? Il convegno bresciano è stato organizzato, come detto, anche da Slow Food Italia, alcuni dei cui esponenti hanno sottoscritto il Manifesto. Ragionare su Slow Food come uno dei possibili soggetti di questo cambiamento è interessante perché mostra alcune delle contraddizioni cui accennavo prima.
Da poche settimane è uscito il libro La danza delle mozzarelle. Slow Food, Eataly, Coop e la loro narrazione, di Wolf Bukowski (ed. Alegre, 2015). Prendo in considerazione qui due delle critiche mosse da Bukowski a Slow Food (e non solo) e che mi hanno fatto venire qualche dubbio (sebbene vada riconosciuto a Slow Food un ruolo importante nel cambiamento degli immaginari sul cibo negli ultimi anni). La prima riguarda le sue frequentazioni: tra i partner e i finanziatori di Slow Food, della sua Fondazione e della sua Università di scienze gastronomiche vi sono la prima catena di supermercati italiana per dimensioni, Coop Italia, e altre multinazionali, del cibo e non solo (Barilla, Ferrero, Benetton, Intesa San Paolo, ecc.). Restiamo su Coop. In molti hanno capito che, negli ultimi due-tre decenni, la strozzatura nel sistema distributivo è diventata una delle caratteristiche principali dell’agricoltura industriale. Una strozzatura che causa, attraverso il buyer power esercitato dalle catene della grande distribuzione organizzata, alcune pesanti conseguenze sugli agricoltori: solo i grandi produttori possono ottemperare alle richieste della GDO, mentre i piccoli chiudono.
I curatori di un dibattito sulle trasformazioni del ruolo dei supermarket nelle global supply chains, ospitato dalla rivista accademica Agriculture and Human Values scrivono a questo proposito: “l’imposizione di standard privati [da parte delle catene dei supermarket] sta marginalizzando le piccole e medie imprese contadine familiari che fino ad ora sono state una forza significativa in agricoltura. Molte non riescono a rispettare le richieste stringenti dei supermercati in merito a prodotti privi di difetti, standardizzati, a costi bassi e in volumi elevati. Coloro che riescono a rispettare le richieste dei supermercati sono i grandi produttori: essi stanno diventando gli unici capaci di sostenere i costi delle varie certificazioni di qualità e sono diventati gli alleati dei supermercati nel cercare profitti in agricoltura” (D. Burch, J. Dixon, G. Lawrence, Agriculture and Human Values, n. 30, 2013).
Certo, in Italia questo processo è più indietro rispetto ad altri paesi: la quota di mercato controllata dai primi tre gruppi della GDO italiani, Coop, Conad e Selex, è del 33%, a fronte di un 60% circa dei primi tre gruppi in Gran Bretagna, 58% in Germania e 55% in Francia e Spagna. Tuttavia, è indubbio che il processo sia ben avviato, visto che la GDO nel suo complesso commercia il 72% dei prodotti alimentari, freschi e confezionati, in Italia (nel 1996 era al 50%) e il commercio al dettaglio tradizionale è sceso in quindici anni dal 41 al 18% (dati dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato relativi al 2011-12). Allora: è proprio necessario “allearsi” – come fa Slow Food, ma non solo – con la maggiore delle catene distributive italiane, e cioè Coop Italia, e diventare una produzione di “nicchia” per i supermercati, gli stessi che mettono in estrema difficoltà quella piccola agricoltura che Slow Food vuole difendere? Può diventare una strategia che favorisca la transizione a un’agricoltura ecologica?
E ancora, ha senso – come fa Slow Food, ma non solo – decidere di stare dentro l’Expo milanese per “nutrire il pianeta con cibo buono, ripartendo dalla biodiversità” (come si legge sul sito), quando tra i maggiori partner e sponsor di Expo ci sono alcune tra le più grandi multinazionali agroalimentari italiane e mondiali (tra cui Coca Cola, Nestlé, Ferrero, ma anche McDonald’s e ancora Coop Italia), cioè proprio quelle che riteniamo responsabili delle disuguaglianze alimentari globali e della distruzione di molte agricolture contadine? È lecito dubitare che questa sia una strada fruttuosa e ritenere che possa avere invece come effetto principale quello di “ripulire l’immagine” delle grandi corporations e dei grandi eventi attraverso la partecipazione di chi si proclama “buono, giusto e pulito”. Peraltro, una lucida critica a Expo è stata espressa da Enzo Ferrara e Pier Paolo Poggio, organizzatori dello stesso convegno bresciano, nel loro intervento “Nutrire il pianeta e salvare la terra” su Gli Asini, marzo-aprile 2015: forse una discussione più approfondita sull’Expo sarebbe stata utile a Brescia.
Altre contraddizioni emerse nel convegno di Brescia riguardano l’agricoltura biologica. In uno degli interventi, il presidente del consorzio dei vini Franciacorta – una delle produzioni di successo dell’agroalimentare italiano, “vocata all’export”, in qualche modo un interlocutore indispensabile del convegno in quanto sul suo territorio il convegno si è svolto – ha descritto la transizione al biologico dei vigneti Franciacorta: circa la metà dei vigneti sarebbero ormai biologici, rivendicava il presidente del Consorzio. Questo rappresenta sicuramente un successo importante. Ma l’intervento ha fatto sorgere nei partecipanti una serie di altre questioni: è possibile una transizione alla viticoltura biologica in uno dei territori più inquinati d’Italia, come il bresciano, o non è altrettanto importante lavorare, contemporaneamente, a un modello di sviluppo che preveda meno inquinamento e bonifiche ambientali? E ancora, come si pone il consorzio di fronte alla questione del lavoro – non solo degli imprenditori agricoli (contadini?), ma anche dei loro braccianti – se pensiamo che, secondo le sezioni locali di Fai-Cisl e Flai-Cgil, nel 2012 il 70% dei 4.000 vendemmiatori della Franciacorta erano stranieri, molti di loro – polacchi, rumeni, moldavi – impiegati attraverso cooperative con sedi nei paesi di origine e quindi difficilmente controllabili? (ricordo che un attivista antirazzista romano scomparso troppo presto, Dario Simonetti, proponeva che nei disciplinari di produzione doc, dop, igp, bio si inseriscano criteri che valutino non solo la conduzione agronomica ma anche il rispetto dei diritti dei lavoratori, pena l’esclusione delle aziende agricole dal marchio). E infine, che rapporto è possibile tra un’agricoltura “di eccellenza” e votata all’export come quella della Franciacorta e l’idea di un’agricoltura contadina ed ecologica?
Allora, se la prospettiva è quella del rispetto delle “comunità” ad autodeterminarsi nelle proprie scelte agricole e di alimentazione (quella che si chiama “sovranità alimentare”, che è stata al centro dell’intervento di Giorgio Cingolani al convegno bresciano), quali sono gli interlocutori possibili, nel mondo produttivo e dei movimenti sociali? È possibile – nel quadro dell’attuale sistema economico – pensare davvero a un’agricoltura contadina-ecologica? E come?
Anzitutto, ci sono oggi altri interlocutori possibili tra i movimenti contadini. Per citarne solo alcuni, Genuino Clandestino, una variegata rete di associazioni contadine, centri sociali, mense popolari, fattorie occupate e mercati autogestiti, che ha tenuto il proprio incontro nazionale a metà aprile a Vicenza (e su cui è appena uscito il libro fotografico Genuino Clandestino. Viaggio tra le agri-culture resistenti ai tempi delle grandi opere, di Michela Potito e Roberta Borghesi, foto di Sara Casna e Michele Lapini, ed. Terra Nuova, 2015), e la Associazione Rurale Italiana, nodo italiano della via Campesina: realtà molto diverse tra loro ma che cercano di lavorare con maggiore coerenza politica sulla prospettiva della agricoltura contadina.
Inoltre, quando si discute sui modelli agricoli, è necessario ragionare sulla questione bracciantile, che oggi è fondamentale in tutti i paesi del “primo mondo”. Se, infatti, come denunciano tanto la via Campesina quanto molti ricercatori accademici – l’agricoltura industriale delle grandi corporations e le politiche di liberalizzazione del commercio internazionale hanno l’effetto di spossessare i contadini del mondo povero delle proprie terre – e, spesso, di costringerli all’emigrazione – nel primo mondo questo si traduce nello sfruttamento estremo dei lavoratori migranti. Per restare all’Italia, la questione si fa sempre più drammatica non solo nel Mezzogiorno (ce lo ricorda ancora una volta il rapporto Terra Ingiusta di Medici per i Diritti Umani su Calabria, Campania e Basilicata, pubblicato sempre ad aprile 2015) ma anche nel Nord: a Sermide (Mantova) un coinvolgente incontro “di comunità” organizzato il 15 aprile scorso da due sociologhe, Roberta Marzorati e Michela Semprebon, ha posto ai cittadini del comune il problema delle condizioni di lavoro dei 1.000-1.500 braccianti, soprattutto maghrebini, indiani, esteuropei, nella raccolta dei meloni, anche in questo caso spesso assunti attraverso cooperative che si pongono al limite tra la fornitura di servizi all’impresa agricola e l’intermediazione illecita di manodopera (cioè il caporalato); e su Ferrara si è concentrato il recente volume curato da Francesco Carchedi ( Schiavitù latenti. Le forme di grave sfruttamento nel ferrarese, Maggioli 2014), che documenta casi di grave sfruttamento lavorativo in vari settori produttivi, primo tra tutti l’agricoltura (nella quale il 50% dei lavoratori in provincia è ormai non italiano).
L’interrogativo in gioco è se e come questi lavoratori dell’agricoltura – spesso descritti come “vittime” di tratta, caporalato e violazione dei diritti umani, ma in realtà quasi sempre “semplicemente” lavoratori sfruttati o iper-sfruttati – vogliano e possano diventare protagonisti del miglioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro ma anche interlocutori dei movimenti che cercano un’alternativa all’agricoltura industriale.
Arrivo qui all’altra critica che Wolf Bukowski rivolge a Slow Food, ma che è estendibile anche al variegato mondo del consumo critico e per questo per certi aspetti spiacevole. È davvero possibile che le scelte dei consumatori possano spostare gli equilibri nella direzione di un reale cambiamento sociale? O non stiamo dando troppa responsabilità a chi invece è soltanto l’ultimo anello di una catena nella quale altri soggetti hanno un potere ben maggiore (politica, finanza, grandi produttori, catene della distribuzione…)? E ancora, le conquiste dei movimenti dei consumatori non sono state già sussunte dalle grandi catene dei supermercati, con le loro linee bio, eque e solidal per i consumatori più abbienti, negli stessi scaffali in cui sono esposte le merci invece non bio, non eque e non solidal, acquistate dai più poveri? Secondo Bukowski, le condizioni di lavoro e i salari (nel sistema agro-alimentare e non solo) difficilmente miglioreranno grazie alle scelte dei consumatori consapevoli. Per quanti (compreso chi scrive!) ormai da dieci o vent’anni si impegnano nei gruppi di acquisto solidale questa è una critica da prendere seriamente in considerazione. Per questo è necessario tornare a ragionare non solo da consumatori ma anche da lavoratori e con i lavoratori, soprattutto i migranti, che sono maggiormente penalizzati in questo quadro.
Il tema è stato posto in maniera simile anche da ricercatori accademici, ad esempio da Alessandro Bonanno e Josefa Cavalcanti (curatori del volume Labor relations in globalized food, Emerald 2014), che affermano: “negli ultimi dieci anni, la produzione scientifica su argomenti quali le nuove forme di governance, i food regimes, la produzione e il consumo alternativi, la biotecnologia, l’identità (genere ed etnicità) e la crescita del corporate retailing ha occupato un posto centrale nelle pubblicazioni rilevanti e negli eventi accademici. Simultaneamente, i ricercatori hanno dedicato minore attenzione ai temi delle relazioni lavorative e del ruolo del lavoro come agente di emancipazione […] proprio nel momento in cui lo sfruttamento del lavoro emergeva come uno dei fattori primari nella ristrutturazione dell’agroalimentare globale”.
È un fatto, però, che, per quanto il Manifesto di Brescia possa mostrarsi ottimista, una convergenza tra coloro che si oppongono all’agricoltura industriale – movimenti di contadini, di consumatori critici, di braccianti agricoli – non è semplice ed è ancora tutta da costruire.