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Carburo

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Pochi dei lettori forse ricordano quei carri da lavoro al di sotto dei quali penzolava, dondolandosi, una lampada ad acetilene, spesso chiamata “a carburo”. Erano quelle che oggi chiamiamo luci di posizione obbligatorie per qualsiasi veicolo. Chi ha avuto la fortuna di vederne qualcuna, ha (avrebbe) avuto modo di scoprire l’ingegnosità di tali lampade che erano usate anche nelle miniere. Si trattava di recipienti cilindrici, di una ventina di centimetri di altezza, dotati di un serbatoio contenente l’acqua, di una regolatore di flusso e di un beccuccio.

La lampada era caricata con pezzi di carburo di calcio, un solido grigiastro che, reagendo con acqua si trasforma in acetilene e idrato di calcio. L’acetilene usciva dal beccuccio ed era acceso fornendo una bella fiamma luminosa. La furbizia consisteva nel regolare le gocce di acqua in entrata in modo da avere una fiamma continua, senza sprechi.

Fortunatamente ci sono stati degli appassionati che hanno raccolto centinaia di lampade a carburo e altre lampade da minatori, fra l’altro alcune di grande bellezza e ingegnosità, conservando per il futuro una pagina straordinaria della storia del lavoro umano. Uno di questi collezionisti italiani, Giuseppe Croce, ha stampato una “Breve storia delle lampade da minatore. Dalla pietra focaia alle moderne lampade elettriche”, pubblicato in proprio. Altri due appassionati, Giovanni Belvederi e Maria Luisa Garberi, hanno a loro volta pubblicato “Illuminavano il buio”, anchje questyo pubblicato in proprio. Si tratta di due straordinarie testimonianze di come “portare la luce al centro della terra”, nelle miniere; purtroppo libri sommersi che meriterebbero di essere diffusi nelle scuole e anche nelle Università, perché raccontano di invenzioni e di sacrifici ai quali dobbiamo se oggi le miniere del mondo ci offrono, silenziose e sconosciute, le materie prime per la nostra vita.

All’alba di un lungo periodo di invenzioni che si sono moltiplicate nel Settecento e ancora di più nell’Ottocento, in tanti cercavano di trattare qualsiasi cosa capitava sotto mano, fossero vegetali, animali o minerali, con qualsiasi altro reagente disponibile, soprattutto i pochi avidi noti e la soda, a freddo e a caldo, per vedere che cosa succedeva.

In questa alba anche della chimica moderna, circa duecento anni fa Edmund Davy (1785-1857) scoprì un gas che chiamò carburo di idrogeno infiammabile, che intuì, in una relazione alla Reale Società Chimica di Londra, come possibile gas illuminante. Edmund Davy era cugino ed assistente di Humphry Davy (1778-1829) che aveva scoperto che le lampade ad olio da minatori avrebbero potuto essere rese più sicure se circondate da una reticella che impedisse il contatto della fiamma col terribile gas delle miniere di carbone, il grisou. Un tempo in cui la ricerca scientifica poneva al centro le necessità umane e la sicurezza dei lavoratori. Il “carburo di idrogeno” sarebbe rimasto dimenticato fino al 1862 quando Friedrick Wöhler (1800-1882) scoprì che esso si formava per reazione dell’acqua con una sostanza preparata facendo reagire ad alta temperatura il carbone con la calce (idrato di calcio). Per analogia col nome del gas acetilene, la polvere grigia da cui l’acetilene si forma sarebbe stata chiamata “carburo di calcio”.

La produzione industriale su larga scala del carburo di calcio divenne possibile dopo che, negli anni fra il 1888 e il 1892, il canadese Thomas Willson (1860-1915) e il francese Henry Moissan (1852-1907) ebbero scoperto un processo per far reagire carbone e calce in un forno elettrico ad alta temperatura. Una delle prime fabbriche di carburo di calcio fu insediata vicino alle centrali idroelettriche delle cascate del Niagara negli Stati Uniti; poco dopo una fabbrica di carburo fu creata a Papigno, vicino Terni. L’acetilene derivato dal carburo bruciava con una bella fiamma luminosa e poteva essere impiegato nelle lampade per minatori, al posto dell’olio vegetale e dell’olio di balena. Il successo dell’illuminazione a carburo, soprattutto nelle lampade portatili e nei mezzi di trasporto (i primi “fari” delle automobili erano lampade a carburo; lampade a carburo furono usate anche nelle biciclette, fu rapido e grandissimo, ma la fortuna delle merci è fragile.

L’età dell’oro del carburo e delle lampade ad acetilene sarebbe durata fino ai primi anni del 1900 quando divennero disponibili delle lampade elettriche portatili, alimentate con batterie. Anche se le lampade a carburo hanno continuato ad essere prodotte per tutta la prima metà del Novecento, il loro mercato si è andato restringendo; è così declinata anche la richiesta del carburo e molte fabbriche si sono trovate, all’inizio del Novecento, con i magazzini pieni di carburo invenduto. La salvezza venne da un processo che avrebbe permesso combinare il carburo di calcio con l’azoto, il gas che costituisce l’80 % dei gas dell’atmosfera ma che sarebbe diventato disponibile allo stato puro, liberato dall’ossigeno che l’accompagna nell’aria, soltanto dopo che, nel 1895, Carl von Linde (1842-1934) ebbe inventato un sistema di separazione dei due gas a bassissima temperatura (a titolo di curiosità la macchina di Linde fu costruita nel silurificio Whitehead di Fiume, allora sotto l’Impero Austro-ungarico).

Nel 1898, appena tre anni dopo la scoperta di Linde, Adolph Frank (1834-1916) e Nikodem Caro (1871-1935) misero a punto un processo di fissazione dell’azoto atmosferico per reazione ad alta temperatura con carburo di calcio in forma di concime azotato chiamato calciocianammide. La calciocianammide si decompone lentamente nel terreno, a contatto con l’acqua, liberando dapprima urea che, successivamente, si trasforma, ad opera dei batteri del terreno, in nitrati, la forma in cui l’azoto viene assorbito dalle piante. Si trattava quindi di un concime azotato “a lento effetto” che forniva azoto nel corso della crescita delle piante, a differenza dei nitrati. Ma anche l’età dell’oro della calciocianammide durò poco perché, intorno al 1915 furono scoperti i processi di sintesi dell’ammoniaca dall’azoto e dall’idrogeno; con l’ammoniaca si potevano produrre tutti i concimi azotati in modo relativamente facile, e ancora una volta la richiesta di carburo di calcio declinò. Restava il suo uso come fonte di acetilene richiesto per le fiamme da saldatura e per alcuni usi chimici. Furono anzi questi che salvarono carburo e acetilene; le prime sintesi di materie plastiche, fibre e gomma sintetica negli anni trenta del Novecento utilizzavano infatti acetilene di origine carbochimica.

Un nuovo declino della sorte del carburo e dell’acetilene si ebbe con l’avvento a basso prezzo, dagli anni cinquanta del secolo scorso in avanti, di grandi quantità di petrolio che forniva nuove convenienti materie prime per le sintesi chimiche della petrolchimica delle stese materie plastica, gomma, fibre tessili, eccetera, senza ricorrere al carbone. Ma la storia dell’industria e del lavoro è tutta fatta di declini e resurrezioni. Al declino dell’industria del carburo in Europa e negli Stati Uniti corrisponde, in questo inizio del XXI secolo, una vera esplosione di tale industria in Cina dove la produzione di carburo di calcio ha raggiunto 10 milioni di tonnellate all’anno. La Cina è ricca di carbone e ha sviluppato, in alternativa alla petrolchimica occidentale, una sua carbochimica di sintesi con grande e crescente successo. Una breve storia che dimostra come sia difficile, ma d’altra parte indispensabile, stare attenti ai mutamenti tecnologici quando si deve decidere che cosa produrre e come produrre le merci.

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