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Una nuova Gilded Age? Grande impresa e democrazia negli Stati Uniti contemporanei

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Introdotta oltre un secolo fa da Mark Twain per indicare l’età di tumultuosa e contraddittoria crescita che va dagli anni Settanta ai Novanta dell’Ottocento, l’espressione Gilded Age (età dorata o indorata), è stata rispolverata alla fine degli anni Novanta del XX secolo. L’ha riesumata il direttore del “New Yorker” David Remnick per definire l’America “da bere” del decennio clintoniano: un’America sospesa fra prosperità e superlusso, esplosione informatica, deregulation e bolle speculative. La si è continuata a usare anche nel primo decennio del nuovo secolo, nel post-11 settembre, di fronte agli scandali imprenditoriali come Enron e Worldcom, alla nuova deriva della “bolla immobiliare” e della speculazione residenzial-finanziaria, culminata nel crack del 2007, e alla rinnovata e allargata forbice dei redditi. Una forbice che, favorita dalle politiche fiscali di Bush jr., verso la fine del secondo mandato dell’ex governatore del Texas ha visto aumentare le risorse dell’1% più ricco della popolazione in proporzioni che non si vedevano dai tardi anni Venti, subito prima della Grande Crisi (all’epoca l’1 % più abbiente possedeva il 23,9% della ricchezza nazionale, nella primavera del 2007 era attestato al 21,8, il doppio di quanto possedeva nel 1980).

Immediatamente a ridosso dell’elezione di Barack Obama autorevoli osservatori quali lo storico Michael Kazin hanno suggerito che, con la sconfitta del progetto neoliberista repubblicano incarnato dal ticket McCain-Palin, quell’età poteva considerarsi finita. In realtà, di “età dorata” si continua a parlare anche alla chiusura del primo decennio del XXI secolo: sia a proposito della situazione politica di stallo, venutasi a creare nel post-elezioni di metà mandato del 2010; sia riguardo a nuovi scandali come quello BP o ai salvataggi bancari pubblici non accompagnati da adeguate misure di regolazione; sia rispetto alla persistente pesante polarizzazione sociale e dei redditi.

Obiettivo di questo articolo è capire quanto quest’analogia può essere utile per descrivere e spiegare quello che è accaduto nel mondo corporate Usa nell’ultimo decennio, soprattutto dal lato dell’ideologia e della visione del mondo della grande impresa capitalistica e dei suoi rapporti con la società e la democrazia. L’ottica è quella di una rinnovata attenzione, emersa di recente nella storiografia d’oltre Atlantico, sul formarsi e riformarsi, nel corso del tempo, delle élite e sulle relazioni fra potentati economici, società, politica e cultura. Partiamo dunque riconsiderando l’ “età dorata” storica. Passiamo, quindi, agli sviluppi più recenti, cercando di leggere in filigrana, dietro gli eventi e le trasformazioni strutturali in corso, come si è modificata la cultura della grande impresa. E vediamo infine se e in che misura fra le dueGilded Ages si siano verificati altri processi, di medio e lungo termine, la cui considerazione può aiutare la comprensione della situazione odierna.

La prima età dorata

Il senso delle modificazioni strutturali che caratterizzarono la Gilded Age storica ce lo fornisce efficacemente il censimento del 1890. Quest’ultimo dichiarava ufficialmente chiusa la frontiera, adombrando i processi di tendenziale unificazione del mercato nazionale in corso; segnalava come per la prima volta il settore industriale avesse superato quello agrario quale produttore di ricchezza, con un incremento in capitale investito e salari nel periodo 1879-1889 del 133,8%; e indicava come la quota di popolazione urbana fosse salita a oltre un terzo del totale.

La velocità del cambiamento in atto sul piano tecnologico, dell’organizzazione produttiva, degli spazi e dei tempi della vita quotidiana., espressa dai contemporanei quando parlano di ritmi frenetici e American Nervousness o coniano la parola “stress”, trovava riscontro in un universo nel quale il territorio coperto da binari passava da 35.000 a 166.000 miglia fra il 1865 e il 1890 e, nel giro di pochi anni, facevano la loro comparsa il telefono, il telegrafo multiplo, il fonografo, la lampadina, la linotype. Basta, del resto, puntare il quadrante su un solo anno come il 1886, per trovarvi coagulati innumerevoli segnali dell’avvento della modernità e del formarsi di quell’America che con più forza si è infissa nel nostro immaginario collettivo. In quell’anno, infatti, arriva a New York da Parigi la Statua della Libertà; viene inventato un intruglio ancora molto sospetto che prende il nome di Coca Cola; Frederick Winslow Taylor, uno dei padri dell’organizzazione produttiva di massa, fondata sui cronometri e sulla rigida predeterminazione dei compiti di lavoro, intensifica i suoi esperimenti, mentre nasce Charles Bedaux, che sarà uno dei suoi seguaci più accaniti; le ferrovie sviluppano l’introduzione dell’ora standard, dalla quale poi verranno i fusi orari, avviata all’inizio del decennio; su skylines contro le quali si stagliano i primi, ma ben presto sempre più diffusi, grattacieli, si aprono i grandi magazzini Woolworth; si spegne uno dei focolai più rilevanti di resistenza indiana, con la resa del capo pellerossa Geronimo; scoppia una bomba a Haymarket, a Chicago, durante una manifestazione operaia, con una serie di reazioni a catena (arresto e condanna a morte di alcuni anarchici in base a un processo sommario, nuove manifestazioni, negli Stati Uniti e in tutto il mondo) dalle quali scaturirà la tradizione del Primo maggio.

La vicenda di Chicago riflette la profondità e complessità dei problemi sociali che esplosero come conseguenza della trasformazioni strutturali in corso e che il poeta Walt Whitman riassunse nella “questione dei lavoratori, che comincia a spalancarsi come le fauci di un abisso”. Tali problemi risultano con immediata evidenza se solo si pone mente al paradosso che investì la vita delle campagne e dei piccoli farmers indipendenti, mezzadri, affittuari e braccianti che le popolavano. Fra il 1870 e la fine del secolo, con la messa a coltivazione di 431 milioni di acri di nuove terre, la produzione di cotone, grano e granoturco aumentò del 150%. Ma sotto i colpi della caduta cronica dei prezzi iniziata con la depressione del 1873, della crescita vertiginosa dei costi dei trasporti imposta dai giganti ferroviari e dell’endemica mancanza di credito per l’assenza di casse rurali, la povertà si abbattè sui lavoratori delle campagne, aprendo una forbice tra le loro percentuali di crescita occupazionale (60%) e quelle del mondo industriale (300%) nel trentennio 1860-1890. D’altro canto, istantanee non meno desolanti si ricavano se si sfogliano gli album di foto su “come vive l’altra metà” nelle città o se si esaminano le statistiche relative alla disoccupazione (anche un quinto della forza lavoro industriale nei primi anni ottanta) e alla polarizzazione sociale. Quest’ultima andava prendendo rapidamente campo, pur all’interno di una fase (1860-1890) in cui i salari (soprattutto quelli degli operai qualificati) registrarono un aumento del 50%. In Massachusetts, ad esempio, tra il 1860 e il 1890 la quantità di ricchezza sul totale nazionale posseduta da chi vantava meno di 1000 dollari di proprietà scese dal 20 al 2%, mentre alla seconda data una cifra oscillante dal 12 al 15% della ricchezza era nelle mani di individui con fortune superiori ai 500.000 dollari, figure sociali assenti allo scoppio della Guerra Civile.

Gli squilibri intersettoriali, territoriali, fra città e campagna e la verticalizzazione di destini e fortune spiegano l’intensità delle passioni che il nuovo che andava emergendo suscitò nel paese e la radicalità delle risposte che individui, forze e gruppi sociali elaborarono per farvi fronte dagli angoli più disparati del paese, mediante l’azione di riformatori urbani e rurali, movimenti di massa delle campagne, organizzazioni operaie. La risposta dell’establishmenteconomico e politico fu in molti casi durissima, come mostrarono la militarizzazione che risolse e accompagnò lo sciopero ferroviario del 1877 e la reazione alla vicenda di Haymarket un decennio dopo, con la caccia ai sovversivi e la loro condanna sulla base di un’evidenza inconsistente e lacunosa, in un processo pieno di violazioni procedurali da parte della pubblica accusa.

Il soggetto forte, che si consolida in queste battaglie contro il mondo del lavoro ed emerge come il vero protagonista dell’epoca, è l’imprenditore capace di costruire la moderna grande azienda integrata in virtù, scriverà Andrew Carnegie – uno dei protagonisti di questa epopea – del suo speciale “talento per l’organizzazione e la direzione (management)” degli affari. Una dote “naturale”, questa, che autorizza il “capitano d’industria” a perseguire strategie, anche molto spregiudicate, di crescita illimitata, in quanto interprete migliore dei destini della nazione e dell’umanità, alla quale potrà restituire, sotto forma di beneficenza, parte dei beni accumulati. Formatosi dapprima nel settore ferroviario, l’imprenditore-demiurgo passa poi all’acciaio (Carnegie stesso) o al petrolio (John D. Rockefeller), in una costante dialettica di cooperazione e conflitto con “finanzieri d’assalto” come John Pierpont Morgan. Regista, quest’ultimo, di innumerevoli operazioni di concentrazione proprietaria che culminano, nel 1901, nella creazione della U.S. Steel, la holding dell’acciaio che, forte delle 158 imprese assorbite, controllava il 60 per cento della produzione nazionale e, col suo quasi miliardo e mezzo di dollari di capitale, costituiva da sola poco meno di un sesto del capitale industriale del paese, un valore pari a tre volte il bilancio di spesa annuo del governo federale.

Guidano questi uomini e le corporations da loro fondate il “vangelo” spenceriano della “sopravvivenza del più adatto” e la conseguente irriducibile resistenza, da parte loro, a ogni sforzo di altri soggetti, inclusi i poteri pubblici, di limitare quelle che i robber barons – come li chiamano critici e riformatori – percepiscono come proprie prerogative assolute, rispetto alla società, prerogative fondate sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Invero non mancheranno, i robber barons e i loro collaboratori, entro strutture gerarchiche d’impresa ben presto sempre più articolate, di scendere a compromessi, soprattutto con i poteri pubblici. Ma mai rinunceranno all’idea della non interferenza (“al diavolo il pubblico” e “non devo niente al pubblico” sono le loro parole d’ordine) e della superiorità delle ragioni del mercato su qualunque altra istanza, massime quella incarnata dagli esponenti del mondo del lavoro, o da quei rappresentanti, liberamente eletti, della volontà popolare che, anziché diventare lobbisti dei magnati industriali e finanziari, pretendano di ridurne il raggio d’azione. Circoscrivere la democrazia, quando minacciava i loro interessi, era la parola d’ordine delle grandi imprese di fine Ottocento, dei loro proprietari, dei loro manager.

Una svolta epocale? 

Se puntiamo l’attenzione su questa recisa politica della non interferenza da parte del mondo del business, sulla polarizzazione economica e sociale e sul ruolo incontrollato della finanza non è difficile leggere le cronache dell’ultimo decennio come una nuova Gilded Age. Lo fa, del resto, anche chi come l’economista Jeffrey Sachs negli anni Novanta del secolo scorso cantava le lodi della deregulation clintoniana (quella che si è portata via il Glass-Seagall Act, la vecchia legge newdealista ultimo baluardo alle manovre speculative bancarie più selvagge) e oggi, di fronte alla vicenda dei subprime e alla conseguente, devastante crisi finanziaria ed economica, parla esplicitamente in forma critica di “ineguaglianze” che “probabilmente superano gli eccessi dell’età dorata dei baroni ladri”. Tuttavia, proprio l’uso della metafora da parte di chi, come Sachs, è riuscito a cavalcare indenne l’ultimo ventennio, barcamenandosi fra la globalizzazione apparentemente soft clintoniana, il duro neoconservatorismo bushiano e la navigazione a vista dell’amministrazione Obama, dovrebbe indurre a una certa cautela nell’uso dell’espressione. Indubbiamente efficace come metafora, rischia forse, se presa troppo alla lettera, non solo di farci dimenticare che viviamo nell’età dell’informatica e della globalizzazione dispiegate, ma anche di farci perdere di vista la differenza profonda che separa i “finanzieri d’assalto” di fine Ottocento da quelli odierni.

Viene in nostro aiuto lo storico tedesco Jurgen Kocka, il quale nota come negli ultimi tre decenni “una sezione chiave del capitalismo [con in testa naturalmente quello Usa] è cambiata”, mediante l’emersione del “capitalismo del mercato finanziario”. Ovvero, di quella che l’economista Christian Marazzi ha definito una “finanziarizzazione dell’economia”, con una crescente centralità dei mercati borsistici quale modalità principale di finanziamento dell’economia e di gestione del risparmio; centralità culminata nell’entrata dei mercati finanziari nella gestione del debito pubblico e nella estensione alla sfera pubblica della “logica finanziaria”, con “le sue regole, la sua disciplina privatistica, la concentrazione del suo potere”. Va sottolineata in proposito la profonda differenza rispetto al “capitale finanziario” degli anni a cavallo fra Otto e Novecento: quello incarnava la fusione, esemplificata dal citato caso di Morgan, tra grande capitale industriale e capitale bancario; l’assetto odierno consiste invece, osserva Marazzi, nella “fusione istituzionale delle funzioni del denaro (mezzo di scambio, mezzo di risparmio, mezzo di investimento) in modo da poter dominare senza ostacoli i mercati globali” (nel 2009 quasi il 50% degli utili delle prime 500 imprese Usa proveniva dall’estero). Ne è emerso, annota ancora Kocka, un nuovo specifico tipo di capitalista, specializzato in servizi e decisioni di natura finanziaria: sia esso manager di fondi di investimento, analista, esperto di ratingbroker, banchiere di investimento, manager di private equity.

L’importanza degli investitori istituzionali e la finanziarizzazione – nel duplice senso dell’allargamento a dismisura delle operazioni borsistiche, indotto dalla ricerca affannosa di nuove fonti di utili nel mercato globalizzato, e della tendenza per cui le proprietà delle imprese non finanziarie sono sempre più controllate da gruppi di interesse finanziari – è componente cruciale di una nuova configurazione dell’economia d’impresa capitalistica. Questa economia ha visto avanzare, nell’ultimo trentennio, un significativo rafforzamento della comunità degli affari (pur nelle sue rimarchevoli differenziazioni e divisioni interne e internazionali) rispetto ad altre forze e interessi sociali e un maggior potere “situazionale” (di risorse controllate e a disposizione) del management delle aziende, in un rapporto dialettico con gli investitori istituzionali, rispetto alla massa indistinta degli azionisti.

Tutti caratteri, questi, che hanno abbassato la capacità di controllo e regolazione della società e della politica (nazionale e internazionale) nei confronti del sistema dell’impresa transnazionale. Si sono aperti così allettanti interstizi per nuovi e più spregiudicati tipi di affari, mentre crescevano l’autonomia e l’arbitrio dei vertici delle aziende, in un circolo vizioso di collusioni con le strutture private di certificazione di bilancio che avrebbero dovuto verificarne la correttezza di comportamenti e che invece, in cambio di laute parcelle, hanno di frequente contribuito a intorbidare le acque. Già anticipata dagli scandali borsistici dei tardi anni Ottanta del Novecento, a cavallo fra le presidenze di Reagan e Bush sr., l’ondata di ruberie e malversazioni è riesplosa con particolare forza all’inizio dell’amministrazione di Bush jr., proprio mentre gli orfani della “società civile perduta”, come Robert Putnam, vedevano ricomparire un qualche barlume di spirito “comunitario” nel clima ultrapatriottico dell’immediato post-11 settembre.

Ne è stata protagonista indiscussa la Enron, sesta potenza nel settore dell’energia al mondo, settima impresa nella celebre graduatoria del Gotha aziendale di Fortune, fiore all’occhiello della nuova economia informatica, con la sua montagna di affari in sofisticati prodotti finanziari condotti attraverso la rete. Come Il titano di Theodore Dreiser, Enron ha messo in piedi un enorme castello di partecipazioni azionarie incrociate in barba a ogni legge statale o federale, le ha appoggiate ai soliti paradisi fiscali (Bermuda, Mauritius), le ha puntellate con opportune manovre di corruzione nei confronti dell’apparato politico repubblicano, le ha garantite mediante un legame innaturale con la famosa società di revisione contabile Arthur Andersen, un legame che sapeva di connivenza al punto da far crollare la reputazione della stessa Andersen. E l’informatica? Uno specchietto per le allodole, ovvero gli ignari azionisti, in parte risparmiatori dei fondi pensione e in parte dipendenti dell’azienda, che ha trasformato le loro pensioni in azioni del valore della carta straccia.

Scoppiato tra il 2001 e il 2002, il caso Enron parve toccare lo stesso governo federale. I vertici dell’azienda avevano infatti approfittato dell’ulteriore abbassamento della guardia della regolamentazione pubblica, praticato subito dopo l’insediamento da Bush jr., sulle orme di Reagan; della connivenza diretta e indiretta del partito repubblicano; e, si diceva, addirittura di un intervento a loro favore dei vertici dell’esecutivo Bush e Cheney. Questi ultimi erano effettivamente legati a Ken Lay, presidente di Enron, evangelico della Christian right, da un’amicizia di vecchia data, intessuta di comuni interessi politici e d’affari. Nell’atmosfera di mobilitazione nazionale permanente creata dall’11 settembre, però, il primo cittadino e il suo vice, trincerandosi con esito positivo dietro il “privilegio esecutivo” del segreto di stato, allontanarono da sé l’inchiesta che una commissione federale svolse rapidamente sul caso. L’indagine colpì invece duramente i vertici non solo di Enron, ma anche di Arthur Andersen, la principale società mondiale di certificazione di bilanci, che aveva coperto le pratiche illecite dell’impresa dell’energia. Sotto la spinta dell’indignazione montante dell’opinione pubblica, ne risultarono la scomparsa di entrambi i colossi e la decisione del Congresso di approvare, a maggioranza bipartisan, nell’estate del 2002, a soli sei mesi dal crack Enron, la legge Sarbanes-Oxley. Una misura, quest’ultima, che prevedeva un forte inasprimento delle pene per il falso in bilancio, misure più rigide di controllo sulle operazioni finanziarie e sulla trasparenza delle procedure contabili. Ma che non riuscì a evitare nuove elusioni dei controlli. Le favorirono, da un lato, la costante innovazione nei prodotti finanziari, dispersi in mille rivoli diffusi per tutta la società, con effetti deleteri sul sistema delle imprese nel suo insieme, innovazione che metteva a dura prova le possibilità di controllo e sanzione pubblica; e, dall’altro, il sistematico indebolimento delle strutture di regolazione praticato dalle amministrazioni repubblicane. Un indebolimento cumulativo, questo, che è passato attraverso l’emanazione sistematica di nuove norme e regolamenti, per aprire la strada a liberalizzazioni in varie direzioni, i tagli nei fondi delle agenzie federali di regolazione e un sistema di nomine che colpiva i vertici delle strutture esistenti, sostituendoli con funzionari e dirigenti fedeli alla linea neoliberista.

Se teniamo conto di questi due elementi, ovvero grande e incontrollata innovazione di una parte consistente del sistema capitalistico e crescente inadeguatezza della mano pubblica, non si fatica a spiegare i nuovi scandali che hanno scandito il resto del decennio: dalla vicenda Worldcom, ai fallimenti bancari, alla più recente storia di BP. Nel caso delle banche abbiamo assistito a una duplice, innovativa strategia fraudolenta, volta ad alleggerire i bilanci per proseguire imperterriti nei prestiti più spregiudicati e lucrativi. Tale strategia si è sostanziata, da un lato, nella cosiddetta “cartolarizzazione”, cioè nella “magica” trasformazione di una passività – i debiti dei clienti, legati in larga misura, ma non solo, ai mutui sulla casa – in un asset, cioè in titoli commerciali da piazzare, opportunamente combinati e spezzettati in mille modi, sul mercato. E, dall’altro, nella creazione di società di comodo che, in virtù della loro personalità giuridica formalmente autonoma, non compaiono nei fogli di bilancio dell’ente-sponsor, rendendo possibile, oltre tutto, una catena di operazioni di cui risulta difficile rintracciare il filo e le responsabilità.

“Responsabilità” è parola che ritorna con forza nella catastrofe ecologica che, nell’aprile del 2010 – a meno di tre anni da quell’uragano Katrina che aveva squadernato dinanzi al mondo intero una realtà di disattenzione pubblica per l’ambiente oltre che di caos e mancanza di coordinamento governativi nella gestione di un’emergenza nazionale impensabili nell’America superpotenza del nuovo millennio – ha colpito ancora l’area del Golfo del Messico, a seguito dello scoppio di una piattaforma del colosso petrolifero Beyond Petroleum (BP, che fino a poco tempo fa stava per British Petroleum) al largo della Florida. Troppo recente per poter essere oggetto di analisi storiche meditate, la vicenda BP pare comunque esemplare degli effetti delle politiche di deregulation, nella fattispecie riguardo all’ambiente. L’evidenza sinora disponibile mostra con chiarezza, infatti, come si sia trattato di un disastro annunciato. Gli autori della cementificazione della piattaforma – la grande impresa di servizi Halliburton, legata all’ex vicepresidente bushiano Cheney e tristemente nota alle cronache per una serie di gravi malversazioni nella gestione della guerra in Iraq – e i vertici BP sapevano dei problemi connessi a questo specifico impianto, puntualmente segnalati da dipendenti aziendali e da tecnici di Transocean, l’impresa che gestiva la piattaforma. Anzi, il colosso britannico aveva cercato di “coprire” incidenti analoghi per natura tecnica, ma per fortuna dalle conseguenze molto più ridotte, avvenuti in questi anni su impianti simili. Né, a dire il vero, i “regolatori” pubblici, incaricati di verificare procedure e linee di azione delle imprese, avevano fatto il loro dovere, nel clima di deregulation spinta degli anni di Bush jr.; clima che, occorre dirlo, ha allungato la sua ombra anche sulla prima età obamiana, la cui amministrazione ha avviato una politica di più severo controllo energetico solo in conseguenza dell’incidente BP nei mari della Florida.

Le ragioni per cui BP aveva agito con tanta spregiudicatezza erano di stretto ordine economico: si era tagliato sulle spese di rivestimento della tubatura e su quelle, non meno decisive, per il coordinamento con le imprese come Transocean alle quali, secondo una classica linea di outsourcing, erano state delegate operazioni cruciali senza le opportune garanzie tecniche di sicurezza. Una modalità di azione “irresponsabile” che rientra perfettamente nella logica di esclusiva e assoluta attenzione ai valori azionari dell’impresa, anche a costo di devastanti conseguenze sui dipendenti e sull’ambiente esterno nella sua accezione più ampia, che ha indotto il sociologo Luciano Gallino a parlare di “capitalismo manageriale azionario”, subentrato, a partire dagli anni Ottanta, con una particolare accelerazione nel decennio successivo, al cosiddetto “capitalismo manageriale produttivista”. Li differenzia, anzitutto, il nuovo rapporto instauratosi fra azionisti, manager (direttori-membri del consiglio di amministrazione, con in testa il Chief Executive Officer [Ceo], o amministratore delegato-presidente) e dirigenti operativi (capi delle divisioni funzionali e operative nelle quali l’impresa è articolata); un rapporto frutto e causa al tempo stesso della finanziarizzazione, del postfordismo (decentramento e snellimento delle strutture) e della rivoluzione informatica. Il “capitalismo manageriale produttivista” ruotava attorno all’impresa fordista a centralità manageriale, sull’asse della separazione fra proprietà e controllo. Sotto la spinta delle agitazioni sociali, delle sfide e opportunità del mercato di massa e dell’azione regolativa dello stato federale, tale impresa aveva accettato un certo grado di responsabilità sociale e contribuito a elaborare un assetto keynesiano di parziale regolazione pubblica, fondato su contrattazione collettiva e consumi di massa. Il secondo tipo di capitalismo, invece, ha visto il ritorno in forze degli attori proprietari (anche e soprattutto di tipo istituzionale, come fondi pensione e fondi di investimento) e l’affermarsi della massimizzazione del valore azionario, di breve e brevissimo periodo, come unico orizzonte-missione dell’azione imprenditoriale. Con gli effetti di volatilità e distruzione di risorse (eliminazione di posti di lavoro, stipendi e pensioni; annientamento di azioni dei piccoli shareholder; attentati alla qualità e quantità dei beni e servizi per i consumatori), perdita di senso di continuità e conseguente tendenza a comportamenti illegali o comunque irrispettosi del benessere collettivo che hanno riempito le cronache corporate Usa dell’ultimo decennio. Una ormai vasta letteratura storiografica statunitense (da William H. Becker a Ernie Englander e Allen Kaufman) ha ricostruito in dettaglio questa transizione, riannodando il filo che parte dalla conflittualità sociale e dalla caduta degli utili degli anni a cavallo dei Sessanta e Settanta del Novecento, passa attraverso la crisi delle imprese conglomerate e approda alla fine del secolo all’assetto attuale. Il che ha comportato anche un significativo mutamento di pelle sul piano ideologico, ovvero il passaggio da una logica di direzione aziendale “tecnocratica” e “corporatista” a una di stretta impronta neoliberista – forgiata da economisti aziendali, giuristi e soprattutto analisti del mercato finanziario – di “imprenditori nell’impresa”: capaci di mettere da parte, in nome degli automatismi di mercato e del proprio interesse, ogni senso di responsabilità e di preoccupazione di medio periodo nei confronti di azionisti, dipendenti e futuro della struttura come istituzione. Su questo terreno si è prodotta la convergenza – più oggettiva e occasionale che programmatica, ma non per questo meno gravida di conseguenze in termini operativi – fra tali manager, gli investitori istituzionali (e familiari) e quegli analisti del mercato finanziario che, oltre a offrire un rilevante contributo operativo alle nuove modalità di funzionamento del sistema economico, gli hanno fornito, come si diceva, la base teorica e culturale neoliberista (l’azienda come nient’altro che un insieme di contratti individuali rescindibili in ogni momento).

Tutto questo pare riportare indietro l’orologio della storia all’individualismo selvaggio della prima Gilded Age. Ma in realtà non abbiamo ancora un’efficace ricostruzione d’insieme dell’intera sequenza che ha portato dai “baroni ladri” ottocenteschi, ai manager “weberiani” e “responsabili” dell’universo della produzione di massa e del “compromesso keynesiano”, all’attuale fase di apparente “ritorno al futuro” ottocentesco. Indizi sparsi ci suggeriscono, tuttavia, periodizzazioni meno semplici e chiaramente individuate, percorsi più mossi e accidentati della sequenza sopra indicata; percorsi materiati di una complessa dialettica di continuità e rottura, con numerose zone grigie e sovrapposizioni fra un modello e l’altro. Proviamo, per concludere, ad accennare un’incursione in queste zone grigie. Scopriremo così che anche nel cuore del “capitalismo manageriale produttivista” c’era una operosa “tribù delle talpe” impegnata a riaprire i giochi, appena possibile, rispetto al “compromesso keynesiano”, in nome della cosiddetta “libertà d’impresa”, e come, per converso, echi della stagione “organica” e “corporatista”, virati in chiave di aziendalismo unilaterale, convivano oggi con l’ultraliberismo più gridato.

La tribù delle talpe

Quando si parla di “capitalismo manageriale produttivista” Usa il pensiero corre immediatamente e con ragione alla General Electric, il colosso dell’elettricità e dell’elettronica che, attorno a una grande tradizione di costanti innovazioni tecnologiche, ha dato al mondo dell’impresa d’oltre Atlantico manager di provata capacità tecnica e di notevole sensibilità sociale e politica come Gerald Swope, Owen Young e Charles Wilson, e al mondo del lavoro Usa una delle classi operaie più determinate a strappare significative conquiste sindacali. Eppure la storia dell’impresa nel secondo dopoguerra mondiale, età dell’oro del “compromesso keynesiano” e delle relazioni industriali, è lastricata di sforzi sistematici, da parte del suo management, di sottrarsi alla legislazione e alle procedure del collective bargainingo comunque di darne un’interpretazione il più possibile riduttiva. E di sviluppare percorsi di integrazione e coinvolgimento della forza lavoro nei quali una contrattazione dura, e presentata ai dipendenti non come un diritto, ma come il frutto della “benevolenza” dell’impresa, era sovrastata da una combinazione di propaganda nazionalista e di guerra fredda, di concessioni salariali unilaterali e forme di welfarism aziendale e di una sorda, costante azione antisindacale portata nella vita quotidiana dei lavoratori, mediante raduni e massicce campagne di public relations, “liste nere” e opera di presenza aziendale nelle attività civiche comunitarie locali, per mostrare ai dipendenti come il loro datore di lavoro fosse un “cittadino” sensibile e responsabile, che li aiutava a essere lavoratori e americani migliori. Passata alla storia come “boulwarism”, dal nome del direttore del personale, Lemel L. Boulware – un manager di estrazione marketing, con un’enorme sensibilità per la comunicazione – che la condusse negli anni Cinquanta, questa politica di bombardamento culturale e materiale non mancò di produrre alcuni frutti nell’immediato, intaccando la presa esercitata dal sindacato, per giunta fortemente diviso, sul piano ideologico, dalla guerra fredda, sui lavoratori. E soprattutto preparò l’azienda a saltare con decisione il fossato del “compromesso keynesiano”, non appena ciò fu possibile, a cavallo degli anni Settanta e Ottanta del Novecento, mentre stava per aprirsi la stagione di quel Ronald Reagan che proprio da Boulware, col quale era entrato in contatto negli anni Cinquanta in quanto testimonialtelevisivo del colosso elettromeccanico, aveva appreso i rudimenti dell’ideologia della libera impresa come incarnazione dei destini del paese, ideologia che avrebbe costituito il suo mantra di successo nei due mandati alla Casa Bianca. Lo spirito del boulwarismo era più che mai tangibile quando mi capitò di visitare l’azienda, intervistare i suoi manager un mese prima delle elezioni “reaganiane” del 1980 e sentirmi leggere il contratto sindacale con le indicazioni, puntuali, di tutte le occasioni nelle quali si contava sistematicamente di violarlo.

Con opportuni correttivi, legati al mutamento dei tempi, lo stesso spirito sottende le numerose iniziative che General Electric ha preso nell’ultimo decennio nell’ambito della cosiddetta “responsabilità sociale dell’impresa” (corporate social responsibility, CSR), cioè dei progetti volti a mostrare l’attenzione e l’interesse delle imprese per i propri dipendenti, la società e l’opinione pubblica rispetto a una vasta messe di questioni: dalle condizioni lavorative, alle conseguenze delle attività produttive sull’ambiente circostante. Le multiformi esperienze di CSR hanno una storia, ancora in larga parte da scrivere, i cui momenti salienti coincidono con le fasi immediatamente successive alle punte della conflittualità sociale e politica. E’ una storia che comincia soprattutto negli anni successivi al New Deal, nel secondo dopoguerra, in specie nei Cinquanta, e conosce una particolare fioritura a partire dagli Ottanta e Novanta. Può sembrare a prima vista in aperta contraddizione con il modello tendenzialmente prevalente, nel capitalismo manageriale azionario, dell'”individualismo patrimoniale”, cioè dell’impresa che rifiuta ogni impegno che ecceda la sua natura di combinazione di contratti individuali costantemente revocabili. In realtà, però, come ha notato l’economista ed ex ministro del Lavoro Robert Reich, per quanto alcune delle attività assunte dalle aziende nell’ambito della CSR possano riflettere una sincera vocazione a impegnarsi nel sociale o a migliorare aspetti sia della vita lavorativa sia di quella esterna all’impresa, colpisce come questo impegno 1) sia spesso un’iniziativa temporanea, adottata in risposta a una crisi di immagine; 2) conviva con politiche di natura radicalmente diversa; 3) tenda a sostituire e aggirare un corretto rapporto di negoziazione e dialogo costante con attori collettivi, come il sindacato, e con il sistema politico rappresentativo, cercando, anzi, di indurre in quest’ultimo un comportamento, se non di acquiescenza, comunque di abbassamento della guardia, rispetto al mondo corporate. Basti notare come nel caso di General Electric la recente (e molto propagandata) autoriduzione nelle emissioni gassose in alcuni impianti non abbia cancellato la lunga storia di inquinamento del fiume Hudson e di tentativo persistente di evadere i controlli degli enti federali sull’ambiente e di fare pressioni sui legislativi statali e federali per ottenere esenzioni e favori che costella l’ultimo trentennio di vita aziendale. Così come è interessante osservare che – almeno sulla carta – vantavano meriti di CSR rispetto a singoli progetti sulla tutela dell’ambiente o su provvedimenti a vantaggio dei dipendenti, imprese invece balzate poi clamorosamente alla ribalta per motivi del tutto opposti: la fraudolenta, verso dipendenti e consumatori, Enron, l’ “irresponsabile” BP o l’antisindacale, e poco sensibile alla salute e alla qualità di vita dei consumatori, Wal-Mart. L’impressione, da verificare, ma non priva di forti elementi di evidenza, è perciò che i progetti di CSR svolgano prevalentemente una funzione tattica, “reattiva” e di crisis management. Che essi, cioè, incarnino in fondo quel motto coniato da un manager e consulente aziendale degli anni Dieci che parlava della necessità, per l’impresa, di ottenere “un massimo di pubblicizzazione (publicity) con un’interferenza minima per tutto quanto pertiene alle condizioni d’impiego” (e non solo a quelle).

Ma il riemergere del tema del rifiuto dell’interferenza, che abbiamo visto all’opera nella prima età dorata, non deve indurre a facili sensazioni di immutabile continuità o all’adozione della suggestiva immagine di ciclici (e inspiegabili) corsi e ricorsi del comportamento imprenditoriale. Né tanto meno deve indurre l’idea di un eterno complotto del grande capitale ai danni di una popolazione statunitense sempre succube e alienata dai media, vecchi e nuovi. Occorre, piuttosto, approfondire l’indagine, proseguendo lungo un percorso di analisi, di pratiche manageriali e di cultura d’impresa, capace di tenere insieme, senza confonderne i contesti e le peculiarità, le onde lunghe della Gilded Agestorica, quelle brevi del neoliberismo, e quelle medie della prolungata, e per molti versi vincente, guerra di posizione del mondo degli affari corporate contro il New Deal e i suoi eredi. Solo così, inseguendo il concreto confondersi e sovrapporsi dei diversi, ma spesso nella sostanza convergenti, rapporti instaurati dal variegato mondo del big businesscon la politica e la società nel corso di oltre un secolo potremo rendere ragione di una parte cruciale, eppure stranamente a lungo trascurata, della cultura pubblica negli Stati Uniti. E potremo contribuire a spiegare, in modo specifico, il processo di costruzione, nel corso del tempo – un processo mai irresistibile, ma neppure mai innocente – di quella che oggi vien fatto di chiamare, con una felice espressione di Sheldon Wolin, “democrazia controllata dall’alto” (managed democracy).

Bibliografia

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Gallino, L., L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino, 2005.

Lears, J., Rebirth of a Nation. The Making of Modern America, 1877-1920, Harper, New York, 2009.

Marazzi, C., Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale, ombre corte, Verona, 2010

McLean, B. and Nocera, J., All the Devils Are Here. The Hidden History of the Financial Crisis, Portfolio/Penguin, New York, 2010

Il testo di Ferdinando Fasce è apparso originariamente in Baritono, Raffaella and Vezzosi, Elisabetta, eds., Oltre il secolo americano? Gli Stati Uniti prima e dopo l’11 settembre, Roma, Carocci, 2011, pp. 171-184.

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