Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Clima e cibo

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La ventunesima conferenza delle parti interessate alla diminuzione del riscaldamento del pianeta responsabile dei mutamenti climatici e di tutti i guai conseguenti, si è tenuta a Parigi nel dicembre 2015, per ora ultima di una serie di incontri che si trascinano da anni; anche questa, come le precedenti, si è conclusa con dichiarazioni di buone intenzioni e con impegni a fare cose che difficilmente saranno fatte. Anche a Parigi si è parlato di soldi, di tanti soldi, di chi li deve spendere e chi li prenderà, ma ben poco spazio ha ricevuto il rapporto fra cibo e modificazioni del clima, un rapporto bivalente perché la produzione di alimenti contribuisce alle modificazioni climatiche e le modificazioni climatiche contribuiscono alla perdita di prodotti agricoli indispensabili per sfamare gli abitanti della Terra.

Il cibo ha come unica fonte l’agricoltura che utilizza, mediante la fotosintesi “alimentata” dall’energia solare, l’anidride carbonica portandola via dall’atmosfera. L’anidride carbonica è il principale fra i “gas serra” (in inglese “greenhouse gases” GHG), quelli che alterano il clima e che vengono immessi nell’atmosfera in quantità crescenti, circa 40 miliardi di tonnellate ogni anno, in seguito alla combustione dei combustibili fossili (circa 10 miliardi di tonnellate all’anno di petrolio, carbone e gas naturale), alla produzione di cemento e a molte altre attività umane. L’agricoltura si comporta, quindi, in questa prima fase, come un mezzo per attenuare il riscaldamento globale planetario e i suoi danni. La biomassa di prodotti agricoli adatti, direttamente o indirettamente, all’alimentazione umana è dell’ordine di dieci miliardi di tonnellate all’anno, da cui proviene il cibo che viene ingerito da tutte le persone del mondo ogni anno in quantità di circa due miliardi di tonnellate. Nel passaggio dai campi alla tavola la quantità di “gas serra” immessi nell’atmosfera è però molto maggiore di quella eliminata dalla fotosintesi dei vegetali.

Intanto va chiarito che ci sono due modi di accedere al cibo. Gli alimenti che ci sono familiari, la pasta, la carne, i formaggi, i grassi, la verdura e tutti gli altri che acquistiamo nei negozi, sono stati ottenuti “grazie” ad una agricoltura industrializzata che li produce in grande quantità, di elevata qualità e a basso prezzo con impiego di grandi quantità di energia. E tale energia è resa disponibile dall’uso dei combustibili fossili con liberazione di anidride carbonica. Energia fossile è necessaria per la fabbricazione e l’uso dei macchinari impiegati nella lavorazione dei campi; per restituire al terreno una parte delle sostanze nutritive del terreno, sottratte dalle coltivazioni intensive e dalle monocolture, l’agricoltura industriale richiede crescenti quantità di concimi ottenuti per sintesi con consumo di energia e liberazione di gas serra e tali concimi in parte si trasformano nel terreno liberando altri gas serra come ossidi di azoto; infine un gas serra come il metano è liberato dai campi di riso. I raccolti dei campi devono poi essere trasportati alle industrie di trasformazione mediante camion, treni e navi, che richiedono anch’essi energia fossile e liberano gas serra; energia fossile (con le relative emissioni di gas serra) è richiesta anche per i processi di conservazione, trasformazione, inscatolamento, distribuzione. La carne e i latticini e le uova, con le loro proteine di elevata qualità nutritiva, sono ottenuti da animali che sono stati nutriti in parte con l’erba dei pascoli ma, nei paesi più industrializzati, con mangimi contenenti prodotti vegetali, e durante la loro vita tali animali hanno prodotto altri gas serra, alcuni, come metano, nella loro digestione, altri liberati dalla decomposizione degli escrementi.

Non solo; molti prodotti agricoli pregiati possono essere ottenuti soltanto con monocolture e pascoli che richiedono crescenti spazi ricavati, soprattutto nei paesi più poveri, distruggendo le foreste spontanee che sono uno dei sistemi naturali per eliminare dall’atmosfera una parte dei gas serra; e ancora le modificazioni della superficie terrestre, come la scomparsa della biomassa forestale e lo sfruttamento intensivo dei terreni coltivati, contribuiscono anche loro ad un aumento della temperatura dei continenti modificando l’albedo, il bilancio fra energia solare in arrivo e quella re-irraggiata nello spazio. Insomma l’agricoltura industrializzata, capace di assicurare ad un terzo dei terrestri, quelli abitanti nei paesi economicamente più avanzati, cibo di buona qualità e abbondante contribuisce anch’essa, come le industrie e le centrali, e i cementifici, e il riscaldamento e raffreddamento degli edifici, e le automobili, ai mutamenti climatici che stiamo conoscendo ogni anno in maniera più vistosa. Il processo non solo sembra irreversibile, ma è crescente a mano a mano che, anche nei paesi emergenti come Cina, India, Brasile, sud est asiatico, i contadini abbandonano i campi e si trasferiscono in città sempre più grandi ed estese che allontanano sempre più dai campi e dalle fonti di alimenti coloro che di tali alimenti hanno bisogno in crescenti quantità.

Nello stesso tempo i mutamenti climatici si manifestano in alcune zone con piogge improvvise che allagano campi coltivati, con aumento dell’aridità di altre zone, con turbamenti dei cicli biologici naturali che favoriscono la diffusione di parassiti sempre più difficili da controllare e richiedono interventi di agenti chimici che alterano ulteriormente i cicli biologici. I mutamenti climatici alterano anche il ciclo delle acque da cui dipende l’irrigazione dei campi. Insomma assicurare più cibo per alcuni comporta compromettere la disponibilità degli stessi cibi pregiati, crescenti costi, minori rese, in una reazione a catena: più cibo, peggioramenti ecologici dovuti all’agricoltura industrializzata, minore e più costoso cibo.

Il discorso che ho fatto finora vale per meno di un terzo degli abitanti della Terra; gli altri due terzi sono i poveri dei paesi avanzati, e sono i poveri dei paesi emergenti, e sono i poveri e poverissimi dei paesi che chiamiamo “arretrati”, in Asia, Africa, America meridionale; questi ultimi ricavano cibo da una agricoltura contadina che soddisfa il fabbisogno locale senza cibo in scatola o alimenti esotici, spesso con una quantità insufficiente di cibo ottenuto da coltivazioni locali.

Questi abitanti della terra non contribuiscono praticamente alle modificazioni climatiche ma sono i primi a subirne i danni nella maniera più grave. Le tempeste tropicali spazzano via i loro poveri campi, fanno diminuire la fertilità dei suoli destinati alla coltivazione dei raccolti da cui ricavare il loro misero cibo. La situazione è ulteriormente aggravata perché in molti paesi poveri grandi società multinazionali acquistano o si appropriano delle terre utilizzate per l’alimentazione locale per trasformarle a monocolture intensive che alterano i delicati equilibri ecologici. Gli indigeni parlano giustamente di “rapina”, di “land grabbing”, delle loro terre.

Mentre, quindi, un terzo dei terrestri è danneggiato dai cambiamenti climatici provocati dal progresso e dal benessere della “civiltà”, avendo in cambio almeno un cibo abbondante e adeguato, gli altri due terzi, esclusi dalla “civiltà” industriale e merceologica, hanno soltanto dei danni e diventano ancora più poveri.

Si tratta di “circa un miliardo di persone che oggi soffrono la fame”, come ha ricordato Papa Francesco in un messaggio alla Caritas Internazionale il 9 dicembre 2013, invitando “tutte le istituzioni del mondo a dare voce a tutte le persone che soffrono silenziosamente la fame, affinché questa voce diventi un ruggito in grado di scuotere il mondo”.

Nell’aprile 2015 numerosi studiosi si sono riuniti a Brescia, su iniziativa del Museo dell’Industria e del Lavoro MusIL e della Fondazione Luigi Micheletti, per discutere il futuro dell’agricoltura e hanno riconosciuto l’esistenza di tre agricolture; quella contadina, oltre ad essere povera, è anche maggiormente esposta ai danni dei cambiamenti climatici; quella industriale assicura maggiori quantità di cibo ed è causa e vittima, nello stesso tempo del riscaldamento planetario. La salvezza per i nove miliardi di persone che abiteranno la Terra nella metà di questo secolo è possibile soltanto con una “terza agricoltura ecologica” Gli interessanti atti del convegno sono contenuti nel volume “Le tre agricolture”, curato da Pier Paolo Poggio, l’animatore dell’iniziativa, e pubblicato nello stesso 2015 dall’editore Jacabook di Milano.

La produzione di cibi “biologici” senza concimi e pesticidi, la diffusione di prodotti agricoli locali “a chilometro zero”, sono alcune possibili soluzioni. Il ricorso a coltivazioni di piante geneticamente modificate apparentemente rende più redditizie le coltivazioni ma aggrava i problemi di sfruttamento del suolo e climatici.

Il “manifesto di Brescia”, stilato alla fine dell’incontro dell’aprile 2015, spiega che la “terza agricoltura” è l’unica in grado di recuperare il rapporto fra coltivatori e consumatori riconoscendo la centralità della “terra”. Ricordate il romanzo “Via col vento” ? Dopo la guerra di secessione americana (1861-1865) i capitalisti degli stati del Nord compravano a prezzi stracciati le terre degli agricoltori del Sud, anche allora un “land grabbing”, e il vecchio O’Hara ricorda alla figlia Rossella, che vorrebbe adeguarsi alle nuove regole economiche: “La terra è la sola cosa per cui valga la pena di vivere e morire, la sola cosa che duri”.

Solo con tale nuova agricoltura sarà possibile assicurare ai terrestri cibo in armonia con i cicli e le leggi della natura. E, come diceva Bacone, la natura soddisfa i bisogni umani solo se le si ubbidisce.

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