Non ho sufficienti conoscenze per svolgere, come sarebbe necessario, una riflessione sullo stato dei movimenti e partiti ambientalisti a livello globale. Limito quindi il mio ragionamento alla realtà italiana che, per averla vissuta, conosco di più. Parlando dell’ambientalismo preferisco usare movimenti al plurale, perché dell’ecologismo politico e sociale del nostro paese il partito verde ne esprime solo una piccola parte.
Per dare un senso alla mia riflessione è utile richiamare brevemente il contesto generale nella quale va collocata.
Pandemia, aumento delle disuguaglianze e cambio climatico sono i tre elementi caratterizzanti questa fase storica, sintomi evidenti dell’insostenibilità del modello di sviluppo capitalistico che, con le sue ovvie diversità, è ormai dominante sull’intero pianeta.
È la conclusione che si deduce dal sesto rapporto sul clima dell’IPCC che conferma, aggravandole, le previsioni dei cinque già pubblicati negli anni precedenti. Il testo ribadisce che, in assenza di interventi adeguati, saremo costretti a ridisegnare l’Europa sugli atlanti geografici: ghiacciai alpini definitivamente sciolti, deserti che avanzano, città costiere inghiottite dal mare, migliaia di animali estinti e soprattutto milioni di profughi ambientali.
È noto da tempo in cosa consistano i provvedimenti che si dovrebbero adottare. E altrettanto lo è il perché non vengono mai decisi: gran parte del mondo è governato da forze più o meno negazioniste che ostacolano qualsiasi scelta di senso e i decisori che dirigono gli altri paesi, pur credendoci, pensano che una pennellata di verde possa risolvere il problema, più sensibili quindi alle pressioni dei grandi gruppi di potere che non al costante aumento degli eventi estremi, di cui sono vittime le loro popolazioni. Rimuovere gli uni e gli altri per invertire la rotta è la grande sfida a cui sono chiamati i movimenti ambientalisti, quelli di recente formazione e quelli più consolidati, in tutte le loro configurazioni assunte storicamente.
Ce la possiamo fare? Senza indulgere in alcun pessimismo, perché sappiamo che dopo lunghi periodi di stasi i processi sociali e politici assumono accelerazioni improvvise, c’è ancora molto lavoro da fare. Ce lo ribadisce l’ultimo rapporto dell’IPCC quando conferma le previsioni dei precedenti cinque. In poche parole se non è cambiato niente vuol dire che non si è fatto nulla. Non è sufficiente di fronte a tanta irresponsabilità limitarsi a denunciare le inadempienze degli altri e in particolare quelle di chi nega da sempre che il clima è cambiato. Né basta a colmare i ritardi accumulati puntare il dito contro i troppi eco-furbi se in questi trent’anni non hanno fatto nulla, né per abbassare la febbre della terra, né per adattarsi alle conseguenze che il riscaldamento globale scaricava sulle popolazioni. Per quanto li si accusi, gli uni e gli altri continueranno a ripetere che le alluvioni, gli incendi devastanti, gli uragani, le ondate di calore, le bombe d’acqua sono catastrofi naturali imprevedibili e che non c’è altro da fare che aiutare a ricostruire come e più di prima.
Se la situazione appare fuori controllo, e gli eventi calamitosi dell’ultimo anno lo dimostrano, è qualcosa che tira in ballo soprattutto noi, cioè i vari ambientalismi politici e sociali. Evidenzia infatti la scarsa efficacia con cui abbiamo cercato di impedire che negazionismo e eco-furbi dilagassero con
tanta forza. Quindi è bene prendere atto che c’è molto lavoro da fare per consolidare una maggioranza sociale e un progetto capaci di trasformare in opportunità i vincoli del mondo fisico, della natura e della convivenza fra i popoli.
A poco serve attribuire questo deficit di peso e consenso a difficoltà oggettive. È bizzarro essere proprio così poco influenti nel momento in cui i fatti concreti ci danno ragione, soprattutto scuotono la fiducia popolare nel sistema, nella sua capacità di offrire un futuro gradevole, condizione necessaria per alimentare una diffusa disponibilità al cambiamento. Invece i media continuano a parlare, purtroppo con un certo successo, di ambientaliste/i come cassandre catastrofiste o professionisti del no a tutto e non come una forza in grado di tirare fuori dai guai il paese promuovendo una equa e vera transizione ecologica e un indispensabile ricambio della classe dirigente. Basterebbe seguire le dispute fra gli ecologisti sull’eolico o sui tanti rifiuti che dalla sera alla mattina devono – come per magia – ridursi a zero, per capire perché a dirigere l’orchestra e a condurre le danze ci sono gli stessi di sempre, coloro che pensano che le risorse del pianeta siano infinite e che comunque a goderne deve essere solo una piccola parte dell’umanità. Basti pensare al nostro PNRR e al fatto che alla sua stesura abbiano contribuito più l’ENI e l’ENEL che non gli ambientalisti a cui è stato riservato il ruolo di osservatori criticoni, mosche cocchiere incapaci di incidere sui processi reali.
La mia impressione è che nel nostro paese gli ambientalismi abbiano sprecato molte opportunità per giungere a questa fase cruciale della crisi ambientale con più forza e influenza. L’Italia ha alle spalle una storia ricchissima di lotte sociali per la sostenibilità e i beni comuni, di cui la più recente testimonianza è l’irruzione sulla scena politica di ragazze e ragazzi del Fridays for Future.
Fin dagli anni settanta del secolo scorso il nostro paese è stato teatro di importanti e partecipate lotte ecologiste. Penso che le difficoltà degli ambientalismi abbiano radici antiche che affondano proprio nel non aver colto le opportunità di crescita che le grandi lotte operaie e sociali offrivano.
Ritengo sia sbagliato pensare che la sensibilità ecologista abbia preso piede nel nostro paese solo agli inizi degli anni ‘80 con le lotte contro le centrali nucleari. Già nella rivolta studentesca del ‘68 cominciarono le prime crepe nella quasi apologetica adesione alla trasformazione del paese da contadino ad industriale. Proseguirono poi con la grande insorgenza operaia dell’anno successivo che allargò la breccia aperta dagli studenti. Il sistema politico bipolare instaurato dopo la liberazione dal fascismo, Democrazia Cristiana da una parte e Partito Comunista dall’altra, non riuscì più a mantenere il conflitto circoscritto solo alla distribuzione della ricchezza, spostandolo per un intero decennio sul modello di sviluppo e la sua qualità dal punto di vista della vita collettiva. Certo né i primi al governo, né i secondi all’opposizione fino ad allora si erano mai interrogati sulle conseguenze ambientali dello sviluppo industriale. Sebbene lo smog colpisse nelle città e l’inquinamento si cominciasse ad avvertire non furono condizioni sufficienti per mettere in discussione la cattiva qualità ambientale, oltre che sociale, del nostro piano di industrializzazione. Anzi, per quanto io ricordi, la costruzione dei quartieri operai vicini alle fabbriche con le ciminiere che vomitavano veleni, oggi teatro di importanti e giustificati conflitti ambientali, per anni furono anche una rivendicazione sindacale per garantire a lavoratrici e lavoratori di perdere meno tempo per spostarsi tra l’azienda e la propria casa. La contestazione studentesca ed operaia del ‘68 e ‘69 aprì una nuova fase in cui si affermava una sempre più estesa denuncia non solo dei limiti sociali dello sviluppo, fatto di bassi salari e lavori nocivi e faticosi per gran parte della giornata, ma anche di una scuola di massa adibita solo a preparare le nuove generazioni a quel destino. Si iniziò anche a contestare l’impoverimento della vita urbana, la finta neutralità della scienza, l’alienazione del lavoro, prefigurando una nuova stagione di diritti. Milioni di persone lottarono per smettere di monetizzare le conseguenze sulla salute che i lavori producevano e si iniziò a percepire anche i danni che il processo produttivo determinava sull’ambiente circostante e via via anche su quello più lontano, visto che le ferie pagate, strappate con dure lotte ai padroni, venivano spesso trascorse in un mare sempre più inquinato ed eutrofizzato. Ciò che voglio sostenere è che negli anni ‘70 si misero in discussione non le arretratezze della società italiana, ma la sua modernità, scuotendo le fondamenta stesse di una società capitalistica. Il disastro ambientale di Seveso del ‘76 ridusse la fiducia nello sviluppo industriale di gran parte del movimento operaio e sindacale e una parte di esso iniziò ad avere coscienza del limite “naturale”, oltre che di quello sociale, dello sviluppo capitalistico. Una non piccola minoranza aprì una lotta politica contro la maggioranza industrialista; denunciò l’insostenibilità dello sfruttamento delle risorse naturali e l’inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua, sostenendo non esserci differenza con lo sfruttamento della forza lavoro contro cui ci si era ribellati nelle fabbriche. Una sensibilità diffusa che si organizzò in associazioni e movimenti, penso fra le tante a Medicina Democratica, alla nascita dei Consigli di Zona, ai primi movimenti femministi. Dopo Seveso i conflitti ambientali diventarono molto più diretti, la contestazione del nucleare coinvolse una parte crescente e maggioritaria della popolazione, si diffuse una cultura dei beni comuni e nei territori cominciò una consistente ribellione all’abusivismo, all’illegalità, alla cementificazione e al dissennato consumo di suolo, alla chimica in agricoltura e alle emissioni velenose delle fabbriche. Nelle assemblee operaie diventò sempre più frequente intrecciare la discussione sulle piattaforme rivendicative con i temi sociali, interrogandosi sull’alienazione della società consumista e mercificata, sulla frustrazione della vita urbana. Insomma ci si chiese se non fosse giunto il momento di concepire piattaforme di lotta con al centro il tema del cosa produrre, come produrlo e soprattutto per chi produrlo. Ricordo quando, nel dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro, un operaio siderurgico milanese esternò in assemblea le sue perplessità, dicendo che non sapeva che farsene del tempo liberato visto che avrebbe dovuto passarlo in una casa piccola e in un quartiere dormitorio di merda. Non vanno dimenticate le 150 ore per il diritto al sapere inserite nel ‘72 fra le rivendicazioni del rinnovo contrattuale. Da questa semina viene, negli anni ‘90, l’incontro sull’occupazione fra la Legambiente e la CGIL che ha determinato che in entrambe le organizzazioni crescesse una cultura ecologista non separata dalla questione sociale, rovesciando di fatto il paradigma su cui erano maturate le grandi conquiste del movimento operaio. Il piano del lavoro che ne scaturì, affermava in modo esplicito che la soluzione dei grandi problemi ambientali era la chiave più efficace per riuscire a dare risposte convincenti alla questione sociale e alla mancanza di lavoro.
Senza questo retroterra mi chiedo se il movimento ecologista sarebbe riuscito a vincere tre referendum popolari, il primo contro il nucleare nel ‘87 e a distanza di vent’anni gli altri due, uno per abbandonare definitivamente l’atomo civile e l’altro per difendere l’acqua pubblica.
Un patrimonio di lotte e partecipazione significativo sottovalutato da gran parte dei movimenti ecologisti, soprattutto dai promotori del partito verde, che penso sia una delle ragioni delle sue difficoltà odierne.
Si racconta una verità parziale quando si liquida questo patrimonio dicendo che gli operai non ci sono più – cosa non vera – e che il lavoro è cambiato – questo sì vero – o quando si sostiene che la spinta collettiva alla ribellione di allora è da tempo sostituita dall’individualismo, che c’è stata la rivoluzione informatica e l’avvento del lavoro precario… argomenti tutti veri, ma che raccontati così trasmettono solo una rassegnazione che paralizza la volontà. È una narrazione in larga parte inesatta e un modo di indagare la società che ti lascia sempre alla coda dei processi sociali e di cambiamento e ti rende perennemente lamentoso. Certamente nessuno di questi scettici avrebbe immaginato che nel 2011, dalla sera alla mattina, migliaia di spagnole e spagnoli avrebbero dato vita a un moto di indignazione contro le misure liberiste dell’Europa e tantomeno che sarebbe stato portato al governo da Podemos.
Se solo si indagasse più a fondo si scoprirebbe che la realtà italiana è molto più contraddittoria e in movimento di quanto si pensi. C’è una resistenza sociale diffusa alla insostenibilità ambientale e sociale dei provvedimenti con cui si governa il paese. Sicuramente molto frammentata, difficilmente riconducibile a un progetto alternativo di società sostenibile, ma che comunque esprime una forte conflittualità sociale non facilmente normalizzabile. Non ci sono solo i ragazzi e le ragazze di Greta Thunberg, anch’essi totalmente inaspettati, visto i tanti tentativi di liquidare la giovane ragazza svedese come qualcosa di folcloristico e le adesioni ai suoi gesti come il solito fuoco di paglia dei movimenti studenteschi e giovanili. Oltre a questo importante segnale nei territori ci sono lotte concrete per la giustizia climatica, di chi reclama di voler vivere e lavorare in territori sostenibili ambientalmente e socialmente. Una domanda di giustizia sociale che si manifesta nella ribellione dei riders all’algoritmo che governa il loro lavoro, nella resistenza operaia e sindacale alle delocalizzazioni sempre più selvagge, nella vivacità conflittuale di pensionate/i per difendere le loro pensioni e il loro diritto a una vita dignitosa.
E ancora perché non vedere che la società italiana è ricca di un volontariato diffuso e generoso quando prova a ridisegnare e rendere sicure le rotte dei migranti, quando presta assistenza nei territori colpiti da terremoti ed alluvioni, quando produce cibo di qualità nei campi sottratti alla mafia o nei bio distretti e si oppone alle misure europee per l’agricoltura. Infine la società, non solo quella italiana, è attraversata dal conflitto permanente che il movimento femminista ha aperto per la liberazione dal patriarcato e dalle disuguaglianze economiche e sociali in cui ancora oggi vivono troppe donne.
Il movimento ecologista per tornare a guadagnare consensi e rendersi utile dovrebbe coinvolgersi di più e portare le proprie idee e progetti nelle tante vivacissime realtà sociali, senza pretendere di esserne l’avanguardia, ma per ricostruire una propria legittimità sociale. Rendersi utili per contrastare un’idea di autonomia dei movimenti che non produce risultati, se non una sottovalutazione della necessità dello sbocco politico. Far crescere non dall’esterno, ma come parte stessa del conflitto, la consapevolezza che una lotta, per quanto forte e partecipata sia, non la si può aprire e poi non chiudere più fino alla rivoluzione, ma deve aprirsi e poi chiudersi e poi riaprirsi nuovamente – come un moto ondoso – e ogni volta che riparte devi essere più forte, quantitativamente più pesante, qualitativamente più efficace.
Il momento più delicato è quello della chiusura, cioè quello del compromesso, dove sempre salta il rapporto fra avanguardie e base attiva. Solo se si è parte attiva del conflitto e non predicatori della “giusta linea” crescerà la consapevolezza collettiva della necessità della politica. Sappiamo che riuscire ad avere un peso sulle decisioni non è facile perché si agisce in un contesto ostile, non solo per questa o un’altra pandemia, ma soprattutto perché continueranno le manifestazioni del cambiamento climatico, perché è prevedibile che i conflitti aperti dovranno misurarsi con un quadro di tensioni internazionali crescenti e quindi con pericoli di nuove guerre, con le conseguenze delle sciagurate scelte di esportare la democrazia occidentale nel resto del pianeta.
Detto ciò penso che gli ambientalismi, sia politici che sociali, per essere all’altezza della situazione, dovrebbero superare alcune questioni a mio parere paralizzanti: l’eccesso di elettoralismo, la mancanza di unità e soprattutto la poca radicalità delle proposte.
Non si esce dalle difficoltà inseguendo le scadenze elettorali. L’esperienza ci dice che partecipare a scadenze elettorali con liste improvvisate e verticistiche, accorpamenti di forze diverse, determina una falsa unità che deperisce subito dopo il voto.
Non intendo polemizzare contro chi tenta questa strada. Ne capisco la motivazione che non è riducibile al ritornello della casta o del posto sicuro, ma so che parte dall’idea giusta che finché perdura l’assenza di una rappresentanza politica è molto difficile cambiare i rapporti di forza sociali. Una motivazione quindi di cui tenere conto, ma un espediente che ha già dimostrato la sua inefficacia.
Continuo a pensare che il consenso e la credibilità di una formazione politica ambientalista, tanto più quello elettorale, risiedano essenzialmente nella sua capacità di promuovere ed essere protagonista di conflitti sociali in grado di costruire rapporti di forza favorevoli ad una vera ed equa transizione ecologica. Questo non è solo un vincolo politico, se si vuole uscire dalla propaganda e dalla predicazione bisogna trasmettere l’idea di una transizione partecipata. La costruzione di nuova società e di una economia sostenibili non possono cioè essere delegate ad una avanguardia illuminata, ma devi conquistarla partecipando, modificando i tuoi stili di vita, organizzando nei territori istituti collettivi in cui questo immenso salto culturale e relazionale possa in parte sedimentare e prefigurare i caratteri costitutivi della società che si vuole costruire. Delegarla rende ogni piccolo passo avanti precario.
Altrettanto complicato, ma indispensabile per uscire dalle difficoltà in cui sono i movimenti ecologisti, è riuscire a far prevalere l’unità sulla divisione, unità non solo fra gli ambientalisti, ma con altre sensibilità, altri movimenti, per riscoprire la curiosità delle diverse motivazioni.
Uno spirito unitario a cominciare dalle principali associazioni che riduca la forte competitività con cui spesso dicono in maniera diversa le stesse cose. È paradossale che proprio quando il cambiamento climatico viene finalmente percepito da gran parte della popolazione, le associazioni ambientaliste procedano separatamente. Si rischia lo stesso risultato deludente di quel piano del lavoro che Legambiente lanciò con la CGIL negli anni ‘90 quando se solo l’associazionismo ambientalista si fosse unito per esercitare una pressione condivisa sul sindacato, forse quel piano non sarebbe rimasto una riflessione, senza produrre pratiche.
Unire l’ambientalismo non basta serve spingersi oltre, ritrovare il gusto della contaminazione, del mescolarsi con altri movimenti che perseguono attraverso altre strade la sostenibilità e altri obiettivi di giustizia sociale. Consiglio a Legambiente e a tutto l’associazionismo ambientalista di relazionarsi permanentemente con la riflessione sindacale e lo scontro aspro che lì si è aperto sulle scelte energetiche, sul ridisegno della vivibilità delle città, sulle grandi riconversioni industriali e il disinquinamento delle aree avvelenate. Mescolarsi di più e in maniera più continua con l’enorme lavoro del volontariato. Infine trovo bizzarro che il mondo ambientalista che ha al suo interno una componente femminile grande, se non addirittura maggioritaria, sia titubante nel farsi contaminare dalle tematiche e dai valori dei tanti femminismi organizzati. Constatazione che si può rovesciare anche sui movimenti femministi e le resistenze a scoprire quanto ambientalismo c’è nei contenuti delle loro lotte.
Infine penso che i vari ambientalismi debbano recuperare radicalità sia nel pensare che nell’agire. Molte/i pur criticando ferocemente l’ignavia delle classi dominanti, alla fine considerano irrealistico promuovere una alternativa di società e tantomeno rimuoverle dai posti di comando. Prevale un eccesso di realismo per cui il massimo a cui si può aspirare è la sostenibilità degli eco-furbi, quella che in maniera sempre più invadente viene diffusa dalle pubblicità. Pensare di risolvere le grandi questioni aperte solo con una pennellata di verde, più o meno brillante, rilanciando una crescita economica è l’opzione più irrealistica e complicata tra le tante messe in campo. Sono tentativi che vanno incontro a tre ostacoli: i limiti imposti dalla natura che il cambio climatico ci presenta ogni giorno, un’offerta di risorse non rinnovabili incapaci di soddisfare una domanda in continua crescita e infine la capacità della terra di accogliere e sfamare un numero crescente di persone, oltre a riuscire a smaltire le loro emissioni e i loro rifiuti. Si arriverebbe a rompere in maniera irreparabile l’equilibrio della biosfera o, in alternativa, si consegnerebbe il pianeta alle guerre per il controllo delle risorse delle terre rare, riconfermando la soggezione di tre quarti del pianeta ai paesi ricchi.
Capisco i limiti del mio ragionamento e cioè di esprimere un punto di vista personale e quindi esposto a sua volta al rischio di apparire una predica. È evidente che avrebbe molto più senso se avessi potuto avanzarlo a nome di un’organizzazione collettiva, anche se come iscritto e vecchio dirigente di Legambiente cercherò di far pesare queste riflessioni nell’associazione. Proverò a spingere l’associazione a sperimentare i suggerimenti che avanzo e che penso siano decisivi per quella trasformazione necessaria al paese: la rigenerazione e riqualificazione delle città; il nuovo modello energetico; le riconversioni industriali, con particolare riferimento all’Ilva.
Su ognuno di questi punti penso che il bisogno di unità e radicalità possa essere sperimentato. Tutti e tre possono orientare verso una transizione ecologica giusta ed equa, solo se si terranno insieme il bisogno di unità, superando lo specifico ambientalista, con una coalizione di forze il più ampia possibile e con la radicalità necessaria. Non sto a specificare quali contenuti specifici definiscano questa radicalità, perché auspico di poterli far crescere in una riflessione collettiva e come parte attiva dei necessari conflitti per riuscire a farli prevalere.