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Il (perverso) ruolo dell’uranio nelle vicende politiche e sociali italiane

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Questo saggio costituisce il capitolo conclusivo dell’opera Atlante dell’uranio. Il testo di riferimento sul nucleare civile e militare nel mondo, versione italiana pubblicata nell’aprile 2021 di un lavoro collettivo uscito per la prima volta in Germania nel 2019. Tale versione è stata realizzata dalla casa editrice Aam Terra nuova, dall’Associazione Editoriale Multimage e dall’Agenzia Stampa internazionale per la pace e la nonviolenza Pressenza grazie a una campagna di crowdfunding. Il sottotitolo non inganna: il piccolo Atlante (123 pagine riccamente e sapientemente illustrate) si candida davvero ad essere un testo di riferimento per rigore, completezza, essenzialità e leggibilità e quindi a nostro parere non deve mancare nello scaffale di militanti e docenti. In linea con questa impostazione, il breve saggio di Angelo Baracca ripercorre con rapide ma sapienti pennellate quasi ottant’anni di vicende del nucleare italiano e lo pubblichiamo – ringraziando l’autore, l’editore e Pressenza – per le stesse ragioni per cui consigliamo l’Atlante. L’opera può essere acquistata scrivendo a info@multimage.org.

Dalla gloria alla polvere

La tecnologia dell’uranio ha avuto un ruolo nella storia dell’Italia del dopoguerra che solitamente viene sottovalutato nelle ricostruzioni delle vicende politiche, sociali ed economiche nazionali, ed anche delle vicende internazionali. Una storia che ha attraversato varie fasi e traversie politiche, sottese da scontri violenti e spesso oscuri tra gruppi di potere interni e pesanti interferenze internazionali, che hanno marcato svolte senza ritorno nel ruolo e nei destini del nostro Paese.

Sebbene durante la guerra l’Italia fosse stato il solo paese direttamente in guerra a non avere avviato nessun progetto nucleare, negli anni ‘50, quando presero l’avvio nel mondo i primissimi programmi nucleari civili, la compagine delle industrie elettriche private, che erano state uno dei pilastri del regime fascista, si lanciarono in una scoordinata corsa a contrattare licenze per la costruzione di reattori nucleari di potenza per la produzione di energia elettrica. Schematicamente, erano due le fazioni in campo: quella statalista e quella costituita da 5 società elettriche private che da sole controllavano l’87% di tutto il mercato elettrico e volevano assicurarsi anche lo sfruttamento di questa nuova fonte. Così, verso la metà degli anni ‘50, vennero ordinate ben 3 centrali nucleari (seppure allora non fossero che prototipi), che all’inizio degli anni ‘60 proiettarono l’Italia verso un improbabile terzo posto a livello mondiale per potenza elettronucleare installata. Senza dubbio non vi era neanche l’ombra di un progetto nucleare coerente, che avrebbe avuto un senso, anzi per antagonismo a livello internazionale furono ordinati 3 progetti diversi e in competizione fra loro.

In ogni caso, vi era indubbiamente un settore del capitale industriale italiano che sosteneva il progetto ambizioso di una ricostruzione del Paese, raso al suolo dalla guerra, che puntasse a sottrarsi al ruolo subalterno ricoperto dall’Italia per acquistare un’autonomia tecnologica e industriale in settori tecnologicamente avanzati e profondamente innovativi, e giocare un ruolo di punta nel contesto internazionale del dopoguerra.

Infatti, lo sviluppo della tecnologia nucleare non fu il solo progetto ambizioso in questo senso. Vi erano, per ricordare gli esempi più noti: Enrico Mattei, che costruì una società petrolifera che entrò in competizione con le multinazionali che dominavano il mercato del petrolio; Domenico Marotta, eminente chimico, che aveva portato l’Istituto Superiore di Sanità a livelli di eccellenza internazionale (riuscendo a far venire a Roma il premio Nobel inglese Ernst Boris Chain, e lo svizzero Daniel Bovet, che vincerà il Nobel proprio per i lavori che svolge a Roma); Adriano Olivetti, che sviluppò un’industria elettronica di livello mondiale, sviluppando anche un modello di “fabbrica a misura d’uomo” (complessi residenziali per i dipendenti, servizi sociali, biblioteca ecc.) e raggruppando attorno a sé una quantità straordinaria di intellettuali che operavano in differenti campi disciplinari, inseguendo il progetto di una sintesi creativa tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica.

Vi era insomma un vasto e qualificato settore dell’intellettualità e dell’imprenditoria italiana che condivideva, seppure in modi diversi, questo progetto.

Ma questo disegno ambizioso non era tollerabile per il capitale internazionale, ma anche per quello nazionale, che aveva sempre avuto una vocazione conservatrice e reazionaria, la predisposizione alla subalternità. La reazione a tutto questo scattò nel 1962, innescata anche dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica, condizione voluta del Partito Socialista Italiano per l’ingresso nel governo: la controffensiva cominciò non per caso proprio dall’affossare i programmi di sviluppo nucleare con la denuncia e il successivo processo e condanna del segretario del CNEN Felice Ippolito, per passare a tagliare le gambe a tutti i progetti ambiziosi (ed anche alcune vite), relegando in modo definitivo l’Italia al ruolo di paese dipendente, di produzioni di basso contenuto tecnologico.

Ma andiamo con ordine.

Lo scoordinato slancio nucleare degli anni Cinquanta

I primordi della tecnologia dell’uranio avevano avuto origini italiane, con la storica scoperta di Enrico Fermi nel 1934 della fissione dell’uranio per effetto dei neutroni lenti, della quale peraltro egli diede un’interpretazione errata. Con il regime fascista e le leggi razziali, la diaspora del “Gruppo di Via Panisperna” fu totale, con la sola eccezione di Edoardo Amaldi. E in effetti fu Amaldi l’alfiere della ripresa della ricerca scientifica nell’Italia della ricostruzione, e il nucleare non poteva non esserne l’asse portante. Così – per sommi capi – nel 1946 un gruppo di giovani fisici e ingegneri convinse un gruppo di industrie private ad istituire a Milano la prima struttura di ricerca nucleare, il CISE (Centro Informazioni Studi Esperienze). Fino dal 1952 i ricercatori del CISE avevano l’ambizione di progettare un reattore italiano, che negli anni successivi prese infatti il nome “CIRENE” (Ci.Re.Ne, Cise Reattore a Nebbia), la cui realizzazione si è protratta fino agli anni ‘80 ed è stato uno degli sprechi e dei fallimenti del nucleare italico.

Tutto questo avveniva nel contesto di un’ignoranza abissale della nostra classe politica riguardo l’energia nucleare, al contrario dell’esplicita sensibilità e iniziativa di altri governi europei, come quelli della Svezia, della Danimarca, della Finlandia.

Così, fu su iniziativa di un comitato ristretto nell’ambito del CNR che venne istituito nel 1952 il CNRN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare). È importante tenere presente che fin dall’inizio l’industria pubblica e quella privata avevano idee e posizioni assai diverse sull’organizzazione del settore nucleare italiano e sullo sviluppo del Paese: in particolare le imprese private del settore elettrico avversavano qualsiasi forma di organizzazione nazionale per timore che si effettuasse la nazionalizzazione del settore. Questo scontro di interessi fu alla base dell’indeterminatezza delle scelte che vennero operate negli anni ‘50: schematizzando molto, scelte pubbliche europeiste con tecnologia ad uranio naturale vs scelte private atlantiche con tecnologia ad uranio arricchito (tecnologia allora detenuta dagli Stati Uniti).

Così nella seconda metà degli anni ‘50 furono ordinati in Italia, senza nessuna strategia generale, tre reattori con tecnologie completamente diverse l’uno dall’altro, che entrarono in funzione tra il 1963 e il 1964: un PWR della Westinghouse a Trino Vercellese, dalla Società Edison; un BWR della General Electric sul Garigliano, dalla IRI-Finmeccanica; un reattore britannico del tipo Magnox a gas-grafite alimentato a uranio naturale a Latina, dall’ENI di Enrico Mattei.

Vale la pena, anche per gli sviluppi successivi, rimarcare la scelta di Enrico Mattei di giocare da solo: fra il 1956 e il 1957 fondò l’Agip Nucleare e la SIMEA (Società Italiana Meridionale Energia Atomica), che nel 1958 firmò il contratto con la britannica UKAEA (United Kingdom Atomic Energy Authority) per la costruzione della centrale di Latina, un reattore ad uranio naturale che entrò in servizio nel 1963. La scelta di Mattei aveva due scopi: il primo era appunto di sottrarsi all’egemonia statunitense per l’arricchimento dell’uranio optando per una scelta europeista; il secondo era di dare sostanza all’ambizioso progetto di creare l’ENE, Ente Nazionale Energia, che avrebbe dovuto riassumere in sé le funzioni dell’ENI e quelle del settore elettrico, e quindi entrando a modo suo nel risiko della nazionalizzazione. Ma al di là delle diverse strategie, una cosa accomunava questi tre progetti diversi: l’essere sostanzialmente dei prototipi che in quanto tali non erano del tutto affidabili.

Va notato infatti che avrebbe potuto avere un senso testare le diverse tecnologie per scegliere quella migliore o più idonea alle esigenze nazionali: sennonché le tre scelte furono totalmente scoordinate fra loro, e animate purtroppo da logiche concorrenziali.

Fu così che, in assenza di una legge nucleare organica, fortemente osteggiata dall’industria elettrica che si opponeva a qualsiasi regolamentazione nazionale, si moltiplicarono progetti, centri, iniziative ambiziose e qualche volta anche pericolose, come quella del reattore “Galilei” del centro di ricerche militari del CAMEN a Pisa (“Centro Applicazioni Militari Energia Nucleare”, poi ribattezzato CISAM, “Centro Interforze Studi per le Applicazioni Militari”), che è stato in funzione negli anni ‘70, del quale si sa ben poco. Le conseguenze di quel disordine pesano in modo determinante sull’eredità che ancora oggi i nostri programmi nucleari ci hanno lasciato, come la moltiplicazione degli impianti e dei depositi di scorie radioattive. Il solo atto di regolazione preliminare (che incontrò comunque l’ovvia opposizione del CISE) fu l’attribuzione nel 1959 di uno stato giuridico al CNRN, che cambiò nome in CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare), con la responsabilità del controllo tecnico sugli impianti nucleari, durante la costruzione e il funzionamento: il presidente era formalmente il ministro dell’Industria, ma di fatto l’ente era in mano al segretario generale, Felice Ippolito, che fu la vera anima dei programmi nucleari italiani.

Un ambiziosissimo, quasi megalomane quanto scoordinato, piano quinquennale doveva sviluppare praticamente tutti gli aspetti della tecnologia nucleare: si dovevano progettare e sperimentare tutti i tipi di reattori (ad acqua bollente, raffreddati a gas ad alta temperatura, a sostanze organiche, a metallo liquido) e di combustibili (il ciclo uranio-torio, un impianto di separazione chimica, un impianto pilota per il ciclo integrale). Furono costruiti il centro della Casaccia, presso Roma, che realizzò alcuni reattori di ricerca; il centro del Brasimone, sull’Appennino Tosco-Emiliano, che tornerà nel seguito; il centro della Trisaia, in Basilicata, dove l’impianto ITREC rimase per molti anni il solo al mondo progettato per recuperare Uranio-233 dal Torio (un progetto a quel tempo originale, che dopo lo stop ai programmi nucleari italiani nei primi anni ‘60 divenne una “pattumiera nucleare”, quando nel 1967 ricevette formalmente in leasing dagli USA 84 elementi di combustibile della centrale statunitense di Elk River, mentre il ciclo Uranio-Torio veniva abbandonato da tutti i paesi con l’eccezione dell’India: 64 elementi rimangono oggi nel sito, senza nessuna possibilità di venire ritrattati: una vicenda inquietante e intricata (per la quale rinvio alla bibliografia, Ferrari, Le Mille e una scoria, puntata 5).

Il momento cruciale arrivò nel 1962 con la nazionalizzazione dell’industria elettrica, condizione posta dal PSI per la formazione del governo di centro sinistra. Le società elettriche ricevettero indennizzi faraonici, con l’idea che avrebbero usato queste enormi somme per sviluppare altri settori dando un enorme impulso al nostro sistema economico. Ma gli imprenditori italiani si dimostrarono talmente incapaci che sperperarono questa ricchezza negli anni seguenti. Un autore insospettabile, Felice Ippolito, ha osservato che lo Stato avrebbe potuto comperare le società elettriche a costi molto bassi nell’immediato dopoguerra – e in quel caso la storia italiana sarebbe stata completamente diversa – mentre aveva sostenuto la loro ripresa ed aumentato il loro valore.

Contestualmente alla nazionalizzazione del settore elettrico, il governo di centro-sinistra approvò la Legge Nucleare, che stabiliva che la produzione di energia nucleare è una prerogativa dello Stato, o società a prevalente partecipazione statale. Il secondo piano quinquennale, approvato nell’ottobre 1962, prevedeva l’installazione entro il 1970 di 2-4 centrali nucleari per una potenza di 1000-1500 mwe.

Il sogno si infrange: quasi un golpe

Intanto il crescente allarme dei centri di potere tradizionali, nazionali e internazionali, aveva raggiunto il culmine (un grave campanello d’allarme era stato il rigurgito fascista del governo Tambroni del 1960, dietro il quale stava una parte degli imprenditori elettrici), e scattò una reazione generalizzata: in pochi anni alcuni eventi decisivi tagliarono definitivamente le gambe alle correnti e ai progetti che lavoravano per dare all’Italia un ruolo di rilievo internazionale. E proprio l’“uranio”, simbolicamente, fu l’innesco della reazione.

Nella calura dell’11 agosto 1962, com’è prassi in Italia per gli attacchi o i cambiamenti politici, Giuseppe Saragat, segretario del Partito Socialdemocratico (il partito nato nel 1947 dalla “scissione di Palazzo Barberini” per intralciare la scelta a sinistra del PSI), sferrò una dura offensiva contro i programmi nucleari con il pretesto dei costi del nucleare, ma evidentemente con ben altri scopi … e mandanti: Usa, petrolieri, mafia (poco dopo Saragat fu eletto presidente della Repubblica, ed è difficile pensare che sia stato casuale). Saragat sosteneva che le centrali nucleari dal punto di vista economico erano state un vero disastro, ma il reale obiettivo era il segretario del CNEN, Felice Ippolito.

Di fatto l’attacco a Ippolito e la stroncatura dei programmi nucleari si inserirono in un quadro ben più generale (le annotazioni che aggiungo non sono complottiste ma suggeriscono nessi, a volte ipotetici, che collegati fra di loro assumono una certa rilevanza).

  • Due mesi dopo, il 27 ottobre di quello stesso anno 1962, venne assassinato Enrico Mattei con l’attentato all’aereo sul quale era diretto a Milano, che venne archiviato come un’avaria: 8 anni dopo scomparve misteriosamente il giornalista del quotidiano l’Ora Mauro De Mauro, era sulla pista dei mandanti mentre collaborava con il regista Francesco Rosi per il film Il Caso Mattei; il suo cadavere non è mai stato ritrovato (raccomando il libro L’agendarossa diPaolo Borsellino di Lo Bianco e Rizza, Chiarelettere, 2010).
  • Nello stesso anno Domenico Marotta, sebbene già in pensione, venne denunciato per irregolarità amministrative, analogamente poco dopo ad Ippolito: oggi, per la “gravità” di quelle irregolarità (come quelle successive imputate ad Ippolito), probabilmente metà dei dirigenti e degli accademici italiani dovrebbe essere denunciato.
  • Nel frattempo, nel 1960, Adriano Olivetti era stato stroncato da un’emorragia cerebrale sul treno che lo portava a Losanna: non venne eseguita l’autopsia, lasciando adito ad ipotesi di complotto a favore di lobby statunitensi; come si scoprì in seguito alla desecretazione di documenti della CIA, l’industriale era oggetto di indagini da parte dell’agenzia di spionaggio USA.
  • Poco dopo, nel 1961, era morto anche l’ingegnere elettronico e tecnico di punta dell’Olivetti, Mario Tchou, in un incidente stradale: certo il caso è imprevedibile, ma negli anni seguenti si sono fatte diverse congetture sull’incidente, tra cui quella di un complotto della CIA. Pochi anni dopo venne liquidata anche l’esperienza d’avanguardia della Olivetti, quando il “Gruppo di Controllo” (composto da Fiat, Pirelli e due banche pubbliche) decise nel 1964 di trasferire il gioiello della Divisione Elettronica alla General Electric, nella totale indifferenza del governo.

L’onda lunga di questi eventi si prolungò alla minaccia del colpo di Stato del 1964 (il “piano Solo” del generale De Lorenzo, ma pilotato dal presidente della Repubblica Segni), a Piazza Fontana e gli altri piani eversivi, scandali e stragi di stato (progettato golpe del 1970, scandalo del SIFAR, rete Gladio della NATO e via di seguito).

Il 3 marzo 1964 Felice Ippolito venne arrestato, anche lui, per presunte irregolarità amministrative: ne seguì un processo molto discusso, molto sentito dall’opinione pubblica e dalla stampa (il famoso “caso Ippolito”), che culminò con la condanna di Ippolito a 11 anni di carcere. L’Italia e il mondo politico erano profondamente divisi, molti ritennero che la vicenda giudiziaria fosse una montatura e Ippolito venisse usato come capro espiatorio per stroncare la nascente industria nucleare italiana in favore di quella petrolifera (sul fronte della quale pure l’eliminazione di Enrico Mattei aveva tagliato le gambe alle ambizioni dell’Italia). Tutta la vicenda ebbe indubbiamente risvolti che rimangono ancora oggi oscuri e inquietanti.

Il risultato fu comunque l’arresto del programma nucleare italiano: potenti forze lavorarono per l’eliminazione di Ippolito, le “sette sorelle” del petrolio in prima fila, l’Italia doveva continuare a consumare petrolio. Del resto, lo “scandalo del petrolio”, italiano sarebbe poi scoppiato nel 1974.

Dalla faticosa ripresa allo showdown

L’Italia non si è più rialzata dal “golpe” – perché di questo si è trattato – del 1962-64, come era nelle intenzioni dei guastatori: qualsiasi velleità venne profondamente ridimensionata, e il Paese fu relegato definitivamente a un ruolo subalterno nel quadro internazionale.

Si dovette aspettare il finire degli anni ‘60 perché l’ENEL – che aveva intanto soppiantato il CNEN nei programmi nucleari oltre ad aver ereditato le tre centrali nucleari, ma aveva al proprio interno anche un forte “partito del petrolio” – riprendesse il progetto di una quarta centrale nucleare (la limitazione ad una sola centrale anziché due fu il risultato di un compromesso con il “partito del petrolio”).

Le cose comunque non furono così spedite come nel decennio precedente, anche a causa di scontri e interessi clientelari. La costruzione della centrale di Caorso iniziò nel 1971, avrebbe dovuto concludersi nel 1976, ma subì ritardi ed aumenti di costi: le prove iniziarono nel 1978, e l’allacciamento alla rete avvenne nel 1981. Le complicazioni organizzative e tecniche si intrecciarono con lo “scandalo del petrolio”, esploso nel 1974 a seguito di un’inchiesta della magistratura sulle procedure illegali di accaparramento del petrolio, che coinvolse partiti politici, ministri, manager dell’ENEL, ma si concluse all’italiana senza conseguenze legali.

La crisi petrolifera del 1973 fu il pretesto per i più o meno ambiziosi “Piani Energetici Nazionali” (PEN) che si susseguirono negli anni ‘70 e ‘80: l’improbabile “piano” di Donat Cattin del 1976, basato su previsioni gonfiate delle richieste di energia elettrica, prevedeva entro il 1985 la costruzione di ben 18 centrali (oltre alle due già approvate per Montalto di Castro), ridotte poi a 8 negli anni ‘80.

Nel frattempo si svilupparono crescenti proteste popolari e manifestazioni antinucleari, sorsero comitati, nacquero petizioni e anche critiche tecnico-economiche al piano energetico, si moltiplicarono convegni e ordini del giorno dei comuni designati come siti per la costruzione di centrali nucleari: Montalto di Castro, Viadana, San Benedetto Po, Suzzara, San Matteo delle Chiaviche ecc. In Molise si svolse una grande marcia popolare contro il progetto di costruzione di due centrali nucleari. Altrettanto avvenne nel 1978 in Basilicata.

Ma le ambiziose iniziative nucleari italiane non erano state definitivamente archiviate con la crisi degli anni ‘60, così negli anni ‘70 si intrecciarono varie proposte, fra le quali iniziò l’avventura nei reattori nucleari veloci. Nel 1972 era nata nel CNEN l’idea del reattore PEC (Prova Elementi Combustibile) nel Centro del Brasimone (una localizzazione assolutamente inidonea per trasporti di materiali nucleari) con lo scopo di testare elementi di combustibile diversi da quelli normalmente impiegati nei reattori termici (obiettivo giustificato, in teoria, dal tentativo di sottrarsi all’uso dell’uranio arricchito), vale a dire un campo del tutto estraneo alle strategie dell’ENEL in quel momento. Nel 1974, quando fu firmato un accordo di collaborazione franco-tedesco-italiano per la realizzazione di due reattori veloci al plutonio in Francia e Germania, si cercò di far rientrare il PEC nell’accordo tra CEA (Commissariat à l’Energie Atomique) e CNEN finalizzato alla ricerca e sviluppo nel settore dei veloci raffreddati a sodio liquido. In realtà il PEC non era nato per testare elementi di combustibile per reattori al sodio quale era il Superphénix francese e dunque si trattava di adeguare il progetto iniziale a questo nuovo presunto scopo, verso il quale la CEA faceva buon viso, ma non era affatto convinta sia per motivi di carattere tecnico (la non riproducibilità delle condizioni operative del Superphénix in un circuito sperimentale), sia perché l’establishment francese nel suo complesso non aveva intenzione di prestare a chicchessia o far effettuare esperimenti sugli elementi di combustibile del Superphénix per la politica di riservatezza che circondava tutto il progetto, dettata assai probabilmente da ragioni militari (la Francia stava realizzando la force de frappe). Di fatto il PEC accumulò ritardi incredibili con costi calcolati in moneta 1992 pari a 3000 miliardi di lire, senza peraltro essere portato a termine.

Il 28 marzo 1979 l’incidente nucleare di Three Mile Island, in Pennsylvania, smentì la favola della sicurezza delle centrali nucleari. Un anno dopo, il 19 maggio 1979, si svolse una grande marcia antinucleare a Roma. Gli anni 1981-1983 videro moltiplicarsi le grandi contestazioni antinucleari. A queste si sommarono le oceaniche manifestazioni pacifiste innescate dalla “crisi degli Euromissili”, che chiedevano l’eliminazione degli armamenti nucleari.

Il 26 aprile 1986 esplose uno dei quattro reattori della centrale nucleare di Chernobyl.

L’.8-9 novembre 1987 si svolsero in Italia tre referendum sul nucleare, la maggioranza dei votanti (75-80%) si espresse per la rinuncia all’energia nucleare: sebbene i tre quesiti proponessero l’abrogazione di norme specifiche (in Italia esiste solo il referendum abrogativo) il segnale fu chiaro, e di fatto segnò la chiusura delle avventure nucleari italiane.

L’eredità ineliminabile

La chiusura del nucleare in Italia con il referendum dell’87 lasciava irrisolta la questione dei residui nucleari, del resto mai affrontata anche prima del referendum. Così come i gestori del nucleare italiano hanno sempre evitato di affrontare in passato questo problema nella speranza che fosse la tecnologia a risolverlo, altrettanto fecero i governi del dopo referendum, congelando di fatto la situazione al momento in cui le centrali nucleari smisero di funzionare: l’ENEL, in quanto proprietaria degli impianti, aveva l’ obbligo di mantenerli in sicurezza mentre il CNEN, attraverso la sua divisione sicurezza (DISP) aveva il compito di sorvegliare ed approvare le procedure di sicurezza adottate dall’ENEL.

Per oltre dieci anni non furono presi provvedimenti nei riguardi dei residui nucleari, anzi con la riorganizzazione del CNEN in ENEA (Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente) scomparve la DISP, l’unica autorità di sorveglianza che aveva competenza in materia nucleare, e le sue funzioni furono trasferite all’ANPA, poi divenuta ARPA. Successivamente, con il decreto Bersani del 1999 che liberalizzava il mercato elettrico, fu stabilito che le attività relative allo smantellamento delle centrali nucleari, la chiusura del ciclo combustibile e la sistemazione dei rifiuti fossero concentrate nella SOGIN (Società Gestione Impianti Nucleari), società pubblica interamente partecipata dal MEF.

Questi provvedimenti assegnavano a SOGIN anche la predisposizione del quadro normativo entro cui realizzare le attività di cui era intestataria, in difformità a tutti i principi della sicurezza nucleare che invece separano e distinguono le due funzioni: realizzare la fuoriuscita dal nucleare e controllare questo processo.

La via italiana alla gestione dei rifiuti radioattivi riproponeva un vecchio ma sperimentato metodo di governo: lasciare che le cose marciscano per poi imporre decisioni di comodo sull’onda dell’emergenza. Alcune svolte e accelerazioni esasperarono il problema, o meglio i problemi. E qui non posso andare oltre a rapidi e parziali cenni, con inevitabili semplificazioni. L’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York innescò – oltre alla “guerra infinita e preventiva” al terrorismo che ebbe il suo apice con l’invasione e la devastazione dell’Iraq nel 2003 – anche un diffuso inasprimento degli apparati e delle misure di sicurezza in tutti i paesi dell’Occidente, ivi compresa l’Italia.

Su questa scia il secondo governo Berlusconi nel 2003 colse al volo l’allarme dell’ennesimo straripamento della Dora Baltea che minacciò il deposito di rifiuti nucleari di Saluggia per proclamare l’emergenza nucleare relativamente all’attività di smaltimento dei rifiuti radioattivi dislocati in cinque regioni (Lazio, Campania, Emilia Romagna, Basilicata e Piemonte): così Berlusconi nominò un Commissario all’emergenza rifiuti con pieni poteri e con un curriculum militare, il Generale Carlo Jean, che già occupava il posto dì presidente della SOGIN. Questi indicò nel 2003 la localizzazione di un deposito geologico presso Scanzano Jonico, provocando però una rivolta popolare che impose di abbandonare il progetto.

Da allora in poi i “lati oscuri” del management e della mission di SOGIN si sono fatti più evidenti; ma è un ginepraio nel quale è impossibile addentrarsi in questa sede (si veda sempre la bibliografia, Ferrari, Le mille e una scoria, puntata 7).

Dopo il tentativo di forzare la situazione imponendo il deposito geologico a Scanzano, la matassa della scelta di una localizzazione idonea per il Deposito Nazionale di superficie dei residui radioattiva si è aggrovigliata in modo inestricabile (non è possibile fornire un quadro sintetico della situazione, rimando ancora a Ferrari, Le mille e una scoria).

In estrema, e necessariamente lacunosa, sintesi: l’Italia è stata sottoposta a procedura di infrazione europea per l’inadempienza della realizzazione di un deposito nazionale, essendo attualmente i rifiuti radioattivi stoccati in una ventina di siti provvisori, che non sono idonei ai fini dello smaltimento definitivo; la SOGIN è stata incaricata di proporre un elenco di aree potenzialmente idonee per ospitare il deposito, la carta delle aree individuate (CNAPI) è stata tenuta ferma nei cassetti per sei anni, ed è stata sdoganata come “regalo della Befana” 2021 . Al momento in cui scrivo (marzo 2021) è impossibile valutare che strada prenderà il tortuoso e problematico iter della procedura, prevedere che cosa avverrà per la CNAPI e la localizzazione del deposito nazionale.

In Italia conserviamo 31 mila metri cubi di scorie radioattive. Si stima che fra una cinquantina d’anni i nostri figli e nipoti dovranno gestirne 45 mila metri cubi in più rispetto a quelli di oggi, per un totale di 75-80 mila metri cubi.

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Zoellner T., Uranium: War, Energy, and the Rock that Shaped the World, New York (Ny), Viking Press, 2009.

Filmografia

Accounts of a Nuclear Whistleblower, regia di Naveed Farro, Australia, 2020.

Atomic Africa, regia di Marcel Kolvenbach, Germania, 2013.

Australian Atomic Confessions, regia di Kathy Aigner e Gregory K. Young, Australia, 2005.

Balentes – I coraggiosi, regia di Lisa Camillo, Italia-Australia, 2018.

Chernobyl. Un grido dal mondo, regia di Anthony Page, Stati Uniti, 1991.

Children of Uranium, regia di Iulian Manuel Ghervas e Adina Popescu, Romania, 2009.

Fukushima, a nuclear story, regia di Matteo Gagliardi, Italia, 2016.

Gerboise bleue, regia di Djamel Ouahab, Algeria-Francia, 2009.

Hiroshima mon amour, regia di Alain Resnais, Francia, 1959.

Jabiluka, regia di David Bradbury, Australia, 1997.

La Bombe et nous. L’arme atomique aujourd’hui, regia di Xavier-Marie Bonnot, Francia, 2017.

Le ultime 56 ore, regia di Claudio Fragasso, Italia, 2010.

Los Alamos und die Erben der Bombe, regia di Claus Biegert, Germania, 2001 (ed.inglese: The Sacred: Two Worlds at Los Alamos).

Maralinga Tjarutja, regia di Larissa Behrendt, Australia, 2020.

Materia oscura, regia di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Italia, 2013.

Nuclear Nation, regia di Atsushi Funahashi, Giappone, 2012.

Nuclear Savage: The Islands of Secret Project 4.1., regia di Adam Jonas Horowitz, Stati Uniti, 2011.

Pandora, regia di Park Jung-woo, Corea del Sud, 2016.

Rapsodia in agosto, regia di Akira Kurosawa, Giappone 1991.

Silkwood, regia di Mike Nichols, Stati Uniti, 1983

Sindrome cinese, regia di James Bridges, Stati Uniti, 1979.

Taiwan, une poubelle nucléaire?, regia di Werner Kiefer, Francia-Germania-ltalia-Stati Uniti, 2013 (su YouTube).

Terra incognita – Die Wismut, regia di Joachim Tschirner und Burghard Drachsel, Germania 2016 (serie di tre documentari).

The Return of Navajo Boy, regia di Jeff Spitz, Stati Uniti, 2000.

Trinity and Beyond: The Atomic Bomb Movie, regia di Peter Kuran, Stati Uniti, 1995.

Un héritage empoisonné, regia di Isabelle Masson-Loodts, Belgio, 2018.

Village of Widows: The Story of the Sahtu Dene and the Atomic Bomb, regia di Peter Blow, Canada 1999.

Where the Wind Blew, regia di Andre Singer, Gran Bretagna-Kazakistan, 2016.

Yellow Fever: Uncovering the Navajo Uranium Legacy, regia di Sophie Rousmaniere, Stati Uniti, 2013.

Discografia

AA. VV., No Nukes: The Muse Concerts Por a Non-Nuclear Future, Asylum, 1979.

AA. VV., Remember Chernobyl 1986-2011, Ambientaria, 2001.

AA. VV., Atomic Platters. Cold War Music from the Golden Age of Homeland Security, Bear Family, 2005.

AA. VV., Nuclear Free Nation, Handmade Records, 2007.

AA. VV., Amchitka: The 1970 Concert that Launched Greenpeace, Maple Music, 2010.

Adams J., Doctor Atomic Symphony, Nonesuch, 2009.

Akiyoshi I, Hiroshima – Rising From The Abyss, Video Arts Music, 2001; True Life, 2003.

Cilkovà E., Pripyat Piano (The Zone Of Chernobyl), Mathka, 2013.

Cytotoxin, Nuklearth, Unique Leader, 2020.

Elias J., Prayer Cycle: Path to Zero, Downtown, 2011.

Ensemble Hilka, Chernobyl Songs Project: Living Culture from a Lost World, Smithsonian Folkways, 2015.

From Scratch, Pacific 3-2-1-Zero (Parts 1 & 2 Live), Atoll, 2011.

Fuji S. (Satoko Fujii Orchestra New York), Fukushima, Libra, 2017.

Hosokawa I, Voiceless Voice In Hiroshima, Col Legno, 2002.

Hurko R., Requiem/Panachyda for the Victims of Chernobyl, autoedizione, 2002.

Koch D. (Denin Koch and Beta Particle), Re: Manhattan Project, Denin Koch Music, 2020.

Luttun Ph., The Taste of Wormwood (Voices from Chernobyl), Musea Parallèle, 2014.

Neizvestija, Majak, Cryo Chamber, 2013.

Ohki M., Symphony No 5 “Hiroshima”, Naxos, 2006.

Ravcan, Chernobyl Disaster, Darker Days Ahead, 2014.

Glossario

Arricchimento: processo col quale si aumenta il contenuto fissile dell’uranio.

Becquerel: unità di misura della radioattività (un becquerel significa una disintegrazione radioattiva al secondo).

Bomba atomica (bomba A): nome comune della bomba a fissione nucleare, la cui energia è prodotta da una reazione a catena di fissione nucleare.

Bomba all’idrogeno (bomba H): l’ordigno nucleare più devastante mai creato. Se la potenza media della bomba A si aggira sui 15-20 kilotoni, nel caso della bomba H si parla di almeno una decina di megatoni (500-700 volte tanto). La sua onda di calore può avere un raggio superiore ai 50 km. L’elemento più distruttivo e pericoloso non è la radiazione ma l’esplosione.

Decadimento: processo radioattivo di emissione che comporta una progressiva diminuzione del numero di alcune particelle (per esempio mesoni, neutroni, nuclei atomici) e la loro trasformazione in altre particelle.

Emivita: il tempo in cui decade metà della massa iniziale di un elemento radioattivo.

Fallout: emissioni radioattive derivate da esperimenti nucleari di superficie o da incidenti nucleari.

Fissione nucleare: frattura dell’atomo in varie parti.

Fonti di energia rinnovabile: fonti energetiche ricavate da risorse rinnovabili, come la luce solare, il vento, la pioggia, le maree, le onde e il calore geotermico. Forniscono energia in quattro aree importanti: produzione di energia elettrica, riscaldamento/raffreddamento ad aria e acqua, trasporti e servizi energetici rurali, non erogati tramite una rete di distribuzione.

Fusione nucleare: reazione nucleare attraverso la quale i nuclei di due o più atomi si uniscono tra loro, dando come risultato il nucleo di un nuovo elemento chimico. Perché questo sia possibile, i nuclei devono essere avvicinati tra loro con una forza enorme, che permetta di superare la repulsione elettromagnetica.

Ossido di uranio: primo prodotto intermedio dopo l’estrazione di uranio.

Radioattività: insieme di processi attraverso i quali alcuni nuclei atomici instabili o radioattivi (radionuclidi) decadono, in un certo lasso di tempo detto tempo di decadimento, in nuclei di energia inferiore raggiungendo uno stato di maggiore stabilità con emissione di radiazioni ionizzanti. Il processo continua più o meno velocemente nel tempo finché gli elementi via via prodotti, eventualmente a loro volta radioattivi, non raggiungono una condizione di stabilità attraverso la cosiddetta catena di decadimento.

Reattore a fusione: installazione nucleare che genera energia attraverso la fusione. Reazione nucleare a catena: processo di frattura dell’atomo che si ripete automaticamente.

Residui sterili: fanghi tossici e radioattivi che rimangono dopo l’estrazione dell’uranio dal materiale grezzo.

Scorie: tutti i rifiuti radioattivi (liquidi, solidi o gassosi) che rimangono dopo la fine del processo che ha trasformato l’uranio grezzo in uranio.

Torio: elemento chimico e prodotto di decadimento dell’uranio, utilizzato per i reattori nucleari di quarta generazione che sono in fase di studio in questi anni.

Uranio: materiale altamente radioattivo presente in vari minerali.

Uranio-235: parte fissile dell’uranio.

Uranio-238: parte non fissile dell’uranio.

Uranio impoverito: residuo generato durante l’arricchimento dell’uranio. Contiene lo 0,2-0,3 % di uranio fissile; ha un’emivita di 4,46 miliardi di anni.

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