Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Se questa è scienza. Presentazione del dossier

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Per preoccuparsi della colonizzazione tecno-scientifica di ogni spazio della vita quotidiana nei paesi ricchi basta valutare la fatica di docenti e allievi durante una lezione di didattica-a-distanza (didattica-digitale-integrata), oppure si può provare a perdersi nei meandri in silico dell’identità e della certificazione digitale o, ancora, si può tentare di comunicare con l’amministrazione pubblica senza l’accesso al web e senza l’uso della posta elettronica. Può creare agitazione anche un approfondimento dei legami esistenti fra nanotecnologie, crittografia e spionaggio digitale, così come inquieta scoprire che le più innovative tecniche di geo-posizionamento dell’industria bellica, i congegni radar per distinguere bersagli anche piccolissimi e i sofisticati dispositivi di puntamento laser di potenti armi da fuoco sarebbero impossibili senza gli sviluppi della meccanica quantistica.

Si sviluppano e si perfezionano anche farmaci e vaccini, è vero. Si salvano così moltissime vite e si rendono migliori esistenze altrimenti difficilmente tollerabili. È un innegabile e prodigioso risultato delle scienze e tecnologie mediche; ma la scoperta e l’applicazione dei vaccini risalgono agli albori del XIX secolo ed è lecito interrogarsi sulla reale funzione (curativa o suppletiva) di molti farmaci: sull’eccessivo consumo di antibiotici, per esempio, o sugli usi in psichiatria a discapito, quando possibile, di terapie e politiche d’integrazione o sull’abuso di ansiolitici “su prescrizione”, che negli Stati Uniti stanno determinando un’epidemia da oppioidi che uccide per overdose quasi 50mila persone l’anno.

È elevato, insomma, il rischio di condividere il pessimismo di Robert Musil, lo scrittore nato nel 1880 a Klagenfurt in Austria, che già nei primi decenni del XX secolo attribuiva il decadimento della società occidentale principalmente alle scienze moderne, la matematica su tutte, delle quali deprecava “l’intima sterilità, il mostruoso miscuglio di rigore nelle minuzie e d’indifferenza per l’insieme”, arrivando a denunciare “la desolata solitudine dell’uomo in un groviglio di particolari” (L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1957, Cap.11 “Il tentativo più importante”).

Solo la pan-sindemia da Covid-19 in effetti è riuscita a scuotere la singolare percezione e classificazione di gravità e pericolo dei problemi del mondo che regna nel sistema tecno-scientifico: mentre alle necessità di molti non è nemmeno data voce, le risorse materiali e intellettuali sono sprecate nella maggior parte non per soddisfare i bisogni ma per sostenere e amplificare le vanità e l’effimero. La scienza medica soprattutto sta cercando di recuperare, almeno in parte, la propria credibilità come strumento di “verità”, ultimo baluardo con la pallottola d’argento del vaccino, contro il coronavirus Covid-19 che anziché ridursi come i suoi predecessori SARS-virus dopo aver creato epidemie locali nei paesi africani o del sudest asiatico è progredito fino a sviluppare una pan-sindemia globale che era in realtà “scientificamente” prevista e attesa da decenni.

Tuttavia, anche con il coronavirus permane la forte sperequazione fra i mezzi e i modi con cui le urgenze sono affrontate, o procrastinate, a seconda che si tratti di calcio e affari o di povertà e ambiente. Le contraddizioni sono forti e mentre l’inquinamento è tale che il pianeta appare prossimo al collasso climatico e dai Sud del mondo continua l’esodo di disperati privi di tutto, nuove sonde spaziali atterrano su Marte rimbalzando sulla terra immagini di desolazione – però a 360 gradi e ad alta risoluzione – mentre missili-velivolo accompagnano nel 2021, anno primo del turismo spaziale, viaggiatori sfacciatamente ricchi oltre la stratosfera al costo, si stima, di 32mila euro al secondo.

Fra inconciliabili contraddizioni un gran disordine regna sull’uso del sapere. Questo interessa poco i politici, tendenzialmente sordi all’argomento, ma piace moltissimo ai ricchi, ai potenti e agli economisti che, sebbene siano tradizionalmente ciechi di fronte a ogni verità scientifica di ostacolo alla loro “crescita” – fino a che non capita anche a loro di sbatterci contro, – sono in realtà capacissimi di cogliere le opportunità offerte dall’arretramento di interesse pubblico verso i temi della ricerca, del sapere e dell’educazione. Rincorrendo una pasticciata epistemologia neoliberista, approfittano della confusione sul significato dei termini cultura, scienza e conoscenza proponendoli nella prospettiva dell’unico immaginario rimasto lecito: quello del mercato. Come ha affermato il direttore della rivista medica The Lancet, Richard Horton esattamente recensendo un libro sull’uso distorto della scienza (Sheldon Krimsky, Science in the Private Interests, Rowman and Littlefield, Lanham MD 2004): “La preminenza del profitto come motivo di indirizzo della ricerca scientifica in ultima analisi significa che la scienza viene deprivata del suo carattere epistemologico, secondo il quale il suo obiettivo principale è la scoperta della verità. Il rischio è che quando la ricerca prende la svolta dell’utilitarismo, il suo carattere speculativo, motore della scoperta intellettuale, sia ridotto o soffocato” (The Dawn of McScience, The New York Review of Books 4, 2004).

Torneremo ancora sui temi della scienza – o meglio di “questa scienza” – autoreferenziale e rigorosamente economicista che dopo aver definitivamente scoperto il peccato ad Alamagordo, nel deserto del Nuovo Messico il 16 luglio 1945 e dopo averlo sperimentato due volte meno di un mese dopo in forma irreversibile sulla popolazioni di Hiroshima e Nagasaki, sembra aver perso il senso del limite e della decenza. Non mancheranno occasioni – dal negazionismo delle cause antropiche delle variazioni climatiche o dell’insostenibilità di ogni uso dell’energia nucleare, fino ai pericoli e alle incognite per gli eccessi della chimica di sintesi e delle tecnologie di modifica genetica delle specie viventi – né purtroppo le preoccupazioni associate.

Quel che preme affermare qui e ora è che anche a causa delle derive sopra ricordate la difesa della salute di tutti e di ciascuno si sta facendo piuttosto complicata se siamo giunti al punto in cui nella letteratura scientifica si coniano definizioni con prerogativa immorale come quelle di “scienza in difesa del prodotto” e “gestione dell’incertezza scientifica”. Queste pratiche sono messe in atto quando si profila un dubbio di sicurezza per la salute e l’ambiente correlato a una produzione o un’attività su scala industriale – pensiamo alle sostanze per-fluoro-alchiliche (PFAS) prodotte a Trissino in Veneto, alle acciaierie dell’ILVA di Taranto, agli inceneritori, alle discariche, alle grandi opere come il TAV. La strategia difensiva consiste soprattutto nel gettare discredito sulle affermazioni di nocività di sostanze e attività individuate come pericolose mettendo insiemi dati non pertinenti ma capaci di introdurre intenzionalmente visioni contraddittorie nel dibattito. È usata con grande successo e su scala mondiale dai principali inquinatori e dai produttori di sostanze nocive che per opporsi alle leggi nazionali e internazionali di protezione dell’ambiente e della salute non esitano a condizionare le decisioni delle più importanti agenzie di vigilanza. Un caso noto è quello del glifosato prodotto dalla Monsanto, il pesticida più usato in assoluto in agricoltura, classificato come genotossico, cancerogeno per gli animali e probabile cancerogeno per gli umani dall’Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro – la IARC di Lione – ma che viene ancora sparso sui campi d’Europa e del mondo; l’Italia lo ha bandito solo in parte. L’industria ha sferrato un attacco addirittura contro l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), coadiuvata dall’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) e dall’Agenzia Europea delle Sostanze Chimiche (ECHA). Queste ultime hanno prodotto rapporti meno problematici sul glifosato, ma con intere parti identiche ai documenti industriali (si vedano i dossier di Le Monde del 2017 sui Monsanto papers), addirittura rimestando accuse di parzialità e scorrettezza del comitato IARC che si era occupato della monografia sul glifosato.

Un altro caso attuale e che ci ripromettiamo di approfondire è quello della possibile presenza di fibre di amianto nella polvere di talco, usata anche per i neonati. Il problema è noto da decenni ma solo recentemente alcune multinazionali fra cui la Johnson & Johnson (J&J) hanno ritirato dal mercato statunitense e canadese – non da quello europeo – i loro prodotti a base di talco, come le note confezioni di Johnson’s Baby Powder. Intanto oltreoceano continuano a moltiplicarsi le richieste di indennizzo di consumatori ammalatisi per colpa dell’amianto e le richieste di risarcimento sono ingentissime: lo scorso giugno la Corte Suprema USA ha condannato la J&J al pagamento di 2,1 miliardi di dollari per i danni causati alla salute di 20 donne, con l’aggravante di aver operato per decenni per nascondere la verità, arrivando a far modificare i metodi ufficiali di analisi con tecniche non sufficientemente sensibili da rilevare la presenza di amianto nel talco.

In questo numero di Altronovecento per rendere esplicite alcune modalità operative di “questa scienza” abbiamo tradotto la recensione di un noto saggio dell’epidemiologo David Michaels “Doubt is their product” (Il dubbio è il loro prodotto). Autore della recensione è il tossicologo Steven G. Gilbert, direttore dell’Istituto di Neurotossicologia e Disordini Neurologici (INND), un’organizzazione non governativa di Seattle (Washington). Il titolo del libro riecheggia quello del libro postumo del medico e scrittore Renzo Tomatis direttore della IARC di Lione dal 1982 al 1993, “L’ombra del dubbio” (Sironi, 2007), ultimo di una serie di racconti autobiografici sui temi della ricerca medica.

I libri di Michaels non sono stati tradotti in italiano nonostante la fama dell’autore, docente presso i Dipartimenti di Epidemiologia e di Salute Ambientale e Occupazionale dell’Università di Washington, e i suoi incarichi istituzionali nella sanità USA sotto le amministrazioni di Bill Clinton e Barack Obama. I temi trattati nel libro sono poi stati ripresi dallo stesso autore in un volume più recente: “The Triumph of Doubt: Dark Money and the Science of Deception” (Il trionfo del dubbio: Dark Money e la scienza dell’inganno) New York, Oxford University Press, 2020.

Non si tratta dell’unica pubblicazione su questi argomenti. Oltre alla già citata Science in the Private Interests recensita da Richard Horton nel 2004, il giornalista e scrittore scozzese Martin Walker ha curato pochi anni fa una raccolta di saggi intitolata “Corporate ties that bind” (I legami con l’industria diventano catene, Skyhorse, New York 2018) un’analisi delle manipolazioni e dei conflitti di interesse nella ricerca sanitaria. In Italia l’autorevole rivista scientifica Epidemiologia & Prevenzione difende l’interesse sanitario pubblico da assalti più o meno scomposti segnalando con regolarità i casi più eclatanti di conflitto di interesse nella ricerca medica.

Come contrappunto – speriamo efficace – a questa presentazione, abbiamo posto due interventi tipici presentati come difese dell’integrità scientifica ma grossolani e contornati dal fumo del conflitto di interesse: un appello internazionale firmato da centinaia di ricercatori contro la “pseudoscienza della precauzione” pubblicato nel 2016 sulla rivista “Toxicology” (n. 371, pp. 1-11) e un’ulteriore precisazione dello stesso concetto apparsa sul quotidiano il Sole 24 Ore (27 novembre 2016) con il titolo Dibattiti “scientifici”: c’è un limite alla precauzione, firmata da Marcello Lotti già ordinario di medicina del lavoro dell’Università di Padova.

Precisiamo, per il primo contrappunto che in campo medico le malattie degenerative come quelle neuronali e tumorali – a differenza di quelle trasmissibili o epidemiche contratte solo per contagio con virus o batteri – non sono quasi mai riconducibili interamente a un’unica causa patologica. Sono piuttosto espressione di effetti sinergici legati all’esposizione a sostanze o agenti nocivi che possono portare nel tempo all’insorgenza di malattie con maggiore o minore probabilità in funzione del livello e della durata dell’esposizione e anche dello stile di vita degli individui, per esempio se fumatori o non-fumatori. Con l’amianto questo può accadere fino a molti decenni dopo l’esposizione. In questi casi, la prova scientifica certa non è sempre disponibile ed è difficile definire il “nesso causale” con la malattia, ovvero il momento univoco in cui l’esposizione a un agente nocivo ha determinato l’insorgenza della patologia. Sovente però ci sono evidenze sufficienti di nocività, anche senza bisogno di studi epidemiologici specifici e senza necessità di individuare il nesso di causalità, per raccomandare misure di protezione pubblica come nel caso dell’amianto.

Per il secondo contrappunto, aggiungiamo come informazione che l’autore Marcello Lotti, consulente dell’ILVA di Taranto assieme ai colleghi Paolo Boffetta, Carlo La Vecchia e Angelo Moretto, cofirmò nel 2013 una controversa memoria tecnica sull’acciaieria che confutava le preoccupanti conclusioni degli studi commissionati dall’Istituto Superiore di Sanità per valutare la salute della popolazione locale e che portarono alle prime chiusure dell’impianto siderurgico e poi al processo “Ambiente svenduto” concluso in primo grado lo scorso 31 maggio con pesanti condanne per la proprietà dell’ILVA e gli amministratori locali. Secondo quella memoria, divulgata dall’allora Commissario straordinario per l’ILVA Enrico Bondi, “l’enfasi sul possibile ruolo dell’impianto siderurgico sulla mortalità a Taranto sembra essere un effetto della pressione mediatico-giudiziaria, ma non ha giustificazioni scientifiche”.

La tecnica è collaudata: in caso di pericolo commerciale per una produzione o una sostanza sospette di nocività occorre mettere in discussione la validità delle prove scientifiche che spingono il legislatore a prevenirne l’uso e se questo non è possibile allora va bene anche solo gettare discredito personale sugli autori di quelle stesse prove.

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