Evocare Camus e più in generale la sua famosa opera sulla peste in occasione di una pandemia in corso e della restrizione domiciliare alla quale sono sottoposte le persone è risultato opportuno. Così hanno fatto i tanti che in questi ultimi mesi hanno ritenuto di intervenire, per dovere o per diletto, nei vari media, sulla storia delle pestilenze subite dall’umanità e così ha fatto anche chi scrive (https://www.epiprev.it/materiali/suppl/2020_EP5-6S2/MaterialiAggiuntivi/RUB-Libri/RUB-Libri_Full.pdf ). Nel contempo si è affacciata la pratica di una nuova branca dell’epidemiologia la ‘‘clioepidemiologia’’ (da Clio, la musa della storia) con l’intento di scavare, rivalutando, nella messe di dati tramandati nei secoli da storici e non storici ed operando una nuova storicizzazione, forse anche utile, che secondo alcuni va al di là del semplice esercizio accademico o della soddisfazione di curiosità. Di matasse da dipanare ce ne sono tante ogni volta che prende corpo una forza di onnipotenza maligna, quando, come scrivono Cosmacini e D’Agostino (La peste. Passato e presente, Editrice San Raffaele, Milano 2008),
“il complesso pestilenziale non era [e non è] rappresentativo di un’associazione morbosa, ma dimostrava [e dimostra] l’incapacità della scienza medica di scomporre l’entità della ‘peste’ nelle sue diverse componenti nosologiche, una incapacità che si traduceva, sul piano pratico, in una diagnostica differenziale aleatoria e in una terapia stereotipata ed ecclettica (oltreché del tutto inefficace)”.
Discorso della peste ai suoi amministrati di Albert Camus
Viene riportata una breve nota scritta in precedenza, forse nel 1941, ma pubblicata assieme ad un’altra più lunga nel 1947 da Albert Camus (1913-1960), (Camus Albert, Exhortation aux médecins de la peste; Discours de la peste a ses administrés, Archives de la Peste, Les Cahiers de la Pléiade, avril 1947, pp. 45-54) lo stesso anno nel quale comparirà in Francia da Gallimard il suo romanzo La Peste che verrà tradotta in Italiano da Beniamino Dal Fabbro (1910-1989) e pubblicata per la prima volta da Bompiani nel 1948. La seconda nota è stata tradotta per la prima volta in italiano ai tempi del CoViD-19, prima da Lucio Coco per l’Osservatore Romano (Testi inediti di Albert Camus sulla peste. L’irruzione dell’assurdo. Esortazioni ai medici della peste, lunedì-martedì 6-7 Aprile 2020, pag. 5) e poi da Yasmina Melaouah per la casa editrice Bompiani-Giunti (Esortazioni ai medici della peste, Milano-Firenze 2020) che la ha stampata per farne omaggio ai clienti delle sue librerie. La prima, ancora inedita in Italia, è stata tradotta da chi scrive confortato dalla revisione fatta da Christine Vernière.
Io regno. È un dato di fatto, quindi è un diritto. Si tratta di un diritto indiscutibile: dovete prenderne atto.
Vi conviene non commettere errori, se regno lo faccio a modo mio, ed è giusto dire che io lavoro bene. Voi altri, naturalmente, siete abbastanza sentimentali e vi piacerebbe vedermi come un re nero o un insetto sontuoso. Avete bisogno di pathos, si sa. Ebbene no. Non ho uno scettro io, ho mezze maniche lucide. Questo è il modo di offendervi ed è giusto che voi siate offesi: avete tutto da imparare. Il vostro re ha le unghie nere, un colletto duro e una visiera scura. Non troneggia, occupa la posizione.
Ecco perché al mio arrivo il pathos se ne va. È interdetto il pathos ed alcune altre oscillazioni come la ridicola angoscia della felicità, la faccia stupida degli innamorati, la contemplazione egoistica dei paesaggi, il piacere frugale e l’ironia colpevole. Al posto di tutto ciò io porto l’organizzazione. Cosa questa che immediatamente vi sconvolgerà abbastanza, ma arriverete ad ammettere che una buona organizzazione è meglio di un insulso pathos.
Penso che mi avete già compreso. Da subito si tratta che voi dovete apprendere come morire ordinatamente. Fino ad ora voi morivate un po’ a caso, capricciosamente per così dire. Morivate perché faceva freddo dopo aver fatto caldo, perché le macchine procedevano troppo velocemente e gli aerei decollavano troppo lentamente, perché la linea dei Vosgi è blu, perché in primavera i fiumi delle grandi città attraggono la persona solitaria, o perché ci sono degli imbecilli che uccidono per denaro, quando è molto più fine uccidere per piacere. Sì, morivate male. Un morto qui, un morto la, quello nel suo letto, questo in una trincea! Un libero arbitrio. Ma, fortunatamente, a questa anarchia verrà posto rimedio. Una stessa morte per tutti e con il giusto ordine di una lista. Avrete un ordine, non morirete in maniera capricciosa. Il destino, ormai, si è dato una regola, ha previsto una agenda. Non si prenderà più cura di voi in maniera spiacevole, con disprezzo, negligenza come spesso faceva. Se ne occuperà, al contrario, essendo diventato meticoloso e un po’ maniacale: la resa sarà migliore. In precedenza, la sua noncuranza vi accompagnava fino alla morte, ma mai oltre. Ora non dovete più preoccuparvi di essere trascurati, sarete nella statistica. Neppure dovrete preoccuparvi di essere inutili per sempre, i vostri corpi serviranno la scienza e la vostra pelle creerà paralumi. Perché ho dimenticato di dirvelo, morirete, si intende; ma sarete in seguito cremati. È meglio e fa parte del piano.
Mettersi in fila per morire bene, ecco la cosa principale. A questo prezzo avrete il mio favore. Ma fate attenzione alle idee insane, alle passioni dell’anima, come dite voi, alle piccole febbri che fanno grandi rivolte. Ho rimosso queste compiacenze e ho posto la logica al loro posto. Aborro le differenze. A partire da oggi, voi sarete ragionevoli, vale a dire che sarete marchiati all’inguine ed ostenterete sotto l’ascella la stella del bubbone che vi segnerà per essere stati colpiti. Gli altri, quelli che, convinti che ciò non li riguardi, si metteranno in fila al cinema, si allontaneranno da voi perchè sospetti. Ma non abbiate timore, la cosa riguarda anche loro e verrà il loro turno. Sono nella lista, non dimentico nessuno. Tutti sospetti, questo è l’inizio giusto.
In fin dei conti, tutto ciò non mette da parte i sentimenti. Mi piacciono gli uccelli, le prime violette, la bocca fresca delle ragazze. Di tanto in tanto è rinfrancante ed è vero che sono un idealista. Il mio cuore … Ma sento che mi placherò e non intendo andare oltre. Ricapitoliamo. Vi porto silenzio, ordine e giustizia assoluta. Non vi sto chiedendo di ringraziarmi, ciò che faccio per voi è molto naturale. Ma chiedo la vostra collaborazione attiva. Il mio ministero ha preso il via.
La peste di Orano come metafora di tutte le pestilenze
Si capiscono le motivazioni dell’interesse mostrato in particolare nei confronti della peste, un fenomeno con il doppio carattere della epidemicità e della letalità: su quelle epidemie esiste una vasta ed impressionante pubblicistica ed anche di tipo letterario ed artistico figurativo, cosa quest’ultima che generalmente caratterizza meglio il fenomeno rispetto ai contributi strettamente storici e scientifici; alcune pestilenze dell’antichità risultano ancora indefinibili rispetto alla loro vera causa dove la differenziazione è difficile anche perché essa si presenta spesso in associazione morbosa; è fuori da ogni dubbio che ogni pestilenza ha caratteristiche epidemiologiche, sociali ed economiche sue proprie ma non pochi risultano i tratti che le accomunano. In maniera esemplificativa la peste di Orano della quale tratta Camus non si è mai verificata, alla fine è una metafora, non solo del nazismo, ma di qualsiasi vera pestilenza, costruita intensamente dall’autore anche dopo un attento studio della letteratura specializzata. Viene narrato un dramma storico con valore universale dove ogni essere umano, ma spesso qualcuno più di altri, è assurdamente vulnerabile, soggetto alla sofferenza ed alla morte in qualsiasi momento, mettendo a nudo la natura umana e dei crismi sociali che si osservano in maniera sostanzialmente stereotipata in tutti i periodi storici perché in ognuno di essi si è verificata una pestilenza. Essere vivi è sempre stato e sempre sarà una emergenza, ad un certo punto la peste passa ma la morte è sempre dietro l’angolo. Le epidemie hanno imposto ed impongono ancora confinamenti fisici ed anche sociali, reclusioni a domicilio, nei lazzaretti o negli alberghi requisiti o negli ospizi, sospetti del prossimo contagioso, cure più o meno incongrue, creazione di untori, tumulti, notizie e teorie anche contrapposte, false e tendenziose sulla contagiosità e non solo, ricorso all’aiuto del soprannaturale e masochistica accettazione di colpe commesse contro di esso castigando sempre di più le persone più svantaggiate ed accentuando le diseguaglianze sociali.
Esistono delle sorprendenti concordanze tra la peste di Camus ed un’altra fiction pubblicata nel 1943 in Italia dallo scrittore e pittore calabrese Raoul Maria De Angelis (1908-1990), La peste di Urana (Mondadori, Verona 1943), e quindi alcuni anni prima di quella che si svolge a Orano. Le concordanze riguardano la toponomastica, ma “Urana” è un nome di fantasia, ovviamente la presenza ossessiva dei topi e della peste con i suoi effetti clinici e sociali e, principalmente, come scrive De Angelis, il “senso angoscioso di vita perduta, che prelude a una inevitabile catastrofe”. In entrambe le opere compaiono quasi specularmente le prediche di due religiosi, padre Paneloux e don Ambrogio, la morte di una figura ingombrante, la cattura di evasi. È stato avanzata anche l’ipotesi di plagio del francese sull’italiano respinta signorilmente dal primo sostenendo che entrambi sono da considerarsi debitori di Daniel Defoe (1660 – 1731) di La peste di Londra (Bompiani, Milano 1940 [ed. orig. 1722]) la cui versione italiana è stata curata da Elio Vittorini (1908-1966). Dopo un certo successo anche di critica La peste di Urana viene praticamente rimossa mentre il successo di Camus è irresistibileesicuramente da ricondurre a delle sue peculiarità e in particolare ad un tessuto filosofico originale ed universale con il quale il suo lavoro è stato imbastito. De Angelis si fa apprezzare per delle divagazioni fantascientifiche e di più per l’attenzione rivolta ad alcuni aspetti sociali ed anche tipici del meridione d’Italia dei quali si pensa di offrire un piccolo esempio:
… In ogni casa forse c’era un morto, ma tutti temevano i morti delle altre case come se ci fosse differenza tra peste e peste; comprese per la prima volta di essere legato al padre alla madre da una corrente sanguigna, e guai a disperderla, bisognava impedire che sgorgasse in altre vene e bagnasse la terra incancrenita. Vide il panno rosso al balcone e fu ai piedi del letto dove giacevano i cari infermi, in un volo. Teresa imboccava la madre con la grazia maldestra delle bambine. Giovanni diede da bere al padre il brodo in una tazza. I fratellini, silenziosi, parlavano con segni delle mani e dandosi rapidi colpi senza piangere nascosti dalla spalliera del letto. Giovanni si affacciò ad un rumore di chiodi piantati sulla porta d’ingresso: le guardie lo ammonirono di non stracciare il cartello in cui era scritto volgarmente “Casa appestata” col timbro della polizia e la data. Richiuse la porta con fracasso, ma senza collera: ormai aveva qualche cosa da difendere e avrebbe salvato i cari infermi dalla gente maligna o dalle guardie brutali; accarezzò la fronte della madre per indurla al sonno, e quella sorrise, stremata. Il padre fissava ostinatamente il soffitto con uno sguardo mite e grave, come un buon animale ingiustamente colpito. Teresa spazzò rapidamente e senza sollevare polvere, e abbandonarono i malati all’inerzia e al sonno. Fu un pasto quasi allegro, nel brodo galleggiavano piume, la gallina era troppo grassa e mangiarono molti cetriolini sottaceto. (De Angelis, pp. 46-47)
È il caso di ricordare anche Alberto Moravia (1907-1990) che pubblica nel 1944 la raccolta L’epidemia la quale riunisce racconti già usciti su rivista (Documento Librario Editore, Roma 1944). Il breve racconto iniziale che dà il titolo al libro era stato pubblicato su Letteratura nel 1941. Si presenta come un resoconto storico: in un’epoca imprecisata, in un luogo imprecisato, si è diffusa una strana epidemia. Basta leggere il brano iniziale per capire che L’epidemia è una allegoria, la satira del regime fascista.
Dicono le cronache che, verso quell’epoca, in quel paese, incominciò a diffondersi una singolare malattia o per lo meno affezione, perché da molti è tuttora negato che fosse una malattia vera e propria. Si trattava in breve di questo. Un bel mattino, al risveglio, una persona si accorgeva ad un tratto di puzzare. Ma non ai piedi o alle ascelle o in un altro luogo dove ciò può avvenire facilmente, bensì in un punto abbastanza preciso tra la nuca e il cranio. Questo puzzo aveva anche un carattere assai distinto: era il puzzo della carne putrefatta o in procinto di putrefarsi. L’intensità di tale lezzo poteva variare da un leggero cattivo odore fino ad un tanfo insopportabile, ma non la qualità. Era sempre odore di carne andata a male, su questo non potevano esserci dubbi. Ma ancor più strano della malattia stessa, era il decorso di essa. Con tutto il suo puzzo avvertibile talvolta anche a gran distanza, il malato, si scusi il bisticcio, non dava alcun segno di essere malato. Niente febbre, niente mal di capo, niente capogiri, nessun malessere insomma, nient’altro che puzzo. Soltanto, ed è qui che stava la maggiore singolarità della malattia, gradualmente, come per una lenta e insensibile perversione delle papille olfattive, il puzzo diventava per il malato sempre meno forte e fastidioso; e non solo il suo bensì anche quello degli altri affetti dallo stesso morbo; finché poi non gli si cambiava addirittura in profumo. Le cronache e i documenti scientifici del tempo concordano tutti nel dire che l’odore iniziale era di carne guasta, ma sul profumo che in seguito i malati credevano di sentire, i pareri differiscono parecchio. Chi parla di violetta, chi di rosa, chi di arancio, chi di bergamotto, chi di incenso. Comunque non c’è dubbio che fosse sempre profumo. Al contrario, per i sani, questa trasformazione del puzzo in profumo non avveniva; per loro il puzzo restava puzzo, senza più dando luogo a contrasti e incidenti di cui parleremo in seguito. Dopo questa curiosa trasformazione dell’olfatto (o dell’odore, come si preferisce) non pare che accadesse più nulla di notabile. Il malato continuava a spandere il suo puzzo o profumo che fosse e a vivere come se nulla fosse stato; e quando moriva, moriva per tutt’altri motivi che la malattia sopradescritta. Come si vede gli effetti della malattia su chi ne fosse affetto erano modesti per non dire nulli. E questo spiega perché a molti, allora come adesso, malattia non sembrasse, bensì un’innocua quanto misteriosa alterazione.