Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Su “Gli scienziati, gli esperti e l’ambiente” di Federico Paolini e Francesco Sanna

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Recensione di Federico Paolini e Francesco Sanna, Gli scienziati, gli esperti e l’ambiente. Il caso italiano 1950-1990, Franco Angeli, Milano, 2015.

Il libro, come spiega uno dei due autori, Federico Paolini, nell’introduzione, è il frutto del lavoro di un’unità di ricerca nell’ambito del progetto Prin 2017 Science, Technology and International Relations: Case Studies in Italian Foreign Policy. L’obiettivo della ricerca è cosi sintetizzato: “provare ad analizzare il ruolo avuto dagli esperti – in modo particolare da alcuni scienziati che occupavano posizioni di primo piano all’interno delle istituzioni della ricerca scientifica – nell’affermazione di una crescente consapevolezza ambientale nelle istituzioni e nello spazio pubblico” [p. 9]. Un obiettivo definito “ai limiti dell’imprudenza” dato lo stato della storia della letteratura sul caso italiano e gli ampi vuoti storiografici, soprattutto riguardo l’età contemporanea.

Proprio per i motivi citati, il programma di ricerca risulta quantomai interessante per chiunque riconosca nella crisi ambientale un nodo cruciale del nostro tempo. La prospettiva risulta ancor più interessante per una rivista,AltroNovecento”, espressione di una realtà come la Fondazione Micheletti che ha fatto di conservazione e valorizzazione degli archivi di scienziati ed esperti italiani (Giorgio Nebbia, Laura Conti, Dario Paccino etc.) impegnati in campo ambientale uno dei propri tratti distintivi.

L’opera ha l’indubbio merito di segnalare subito la propria presa di posizione sul rapportoscienziati-esperti-ambiente: in una storiografia molto lacunosa in materia, gli autori intendono focalizzarsi sugli scienziati non canonizzati dagli storici dell’ambiente in quanto “ispiratori, nonché protagonisti, del movimento ambientalista” [p. 10]. In altre parole, la storia dell’ambiente italiana si sarebbe finora concentrata su un gruppo di scienziati (in primis proprio Giorgio Nebbia) che non avrebbero declinato le proprie competenze scientifiche nelle forme proprie dell’uomo di scienza e quindi dell’esperto, ma le avrebbero spese (o, per meglio esprimere la prospettiva dell’opera, tradite) entrando in presa diretta con un’opinione pubblica surriscaldata dal sensazionalismo in tema ambientale.

Di conseguenza, l’introduzione di P. presenta un lavoro dai caratteri di contro-storia della scienza in materia ambientale – si tratta di una storia dell’approccio scientifico alla questione ambientale opposta all’ambientalismo “militante” (in realtà nell’opera “ambientalismo” è già quasi sempre sinonimo di approccio ideologico alla questione ambientale).

Questa prospettiva è spesso animata, in verità nelle parti opera di P. e soprattutto nell’introduzione e nella postfazione, da un tono estremamente coinvolto, quasi militante: evidentemente, attaccare i munitissimi bastioni dell’ambientalismo deve richiedere non solo tanto coraggio intellettuale, ma un sovrappiù di vis polemica che prorompe spesso schietta e un po’ a sorpresa, in quello che dovrebbe essere una ricognizione volta a valorizzare figure di esperti sacrificati dall’indifferenza istituzionale per l’ambiente e, ovviamente e soprattutto, dalle ideologie ambientaliste. Pare di vedere all’opera i poveri soldati nelle trincee della Prima guerra mondiale: si esce allo scoperto verso il nemico strapotente solo levando altissime le proprie grida accorate. Bene, vediamo cosa c’è, dietro questo singolare “Avanti Savoia”.

Ecco un primo passo significativo, in cui P. passa rapidamente in rassegna lo stato degli studi internazionali:

Fin dalle origini, l’environmental history si è caratterizzata per la vicinanza al movimento ambientalista e per l’approccio radicale e anti-sistema: questo suo carattere militante ha finito per far prevalere un paradigma marcatamente ecocentrico che, da un lato, ha indebolito le connessioni con le storie antropocentriche (la storia politica, la storia sociale, la storia culturale) e, dall’altro, non è comunque riuscito a produrre una reale ibridazione dei saperi. [p. 11]

Qui P. vorrebbe dire che la ricerca internazionale non ha aiutato il lavoro “ai limiti dell’imprudenza” svolto sul caso italiano e chiama in causa un’opposizione, quella tra ecocentrismo e antropocentrismo, che c’entra poco con l’Italia degli anni Settanta: oggi la critica radicale rientra nella categoria “ecocentrismo”, ma la stragrande maggioranza delle critiche di ispirazione marxista e quelle di ispirazione cattolica, centrali nella mappa di scienziati e scienziate più attivi in campo ambientalista in Italia, ricadono semmai nel campo antropocentrico.

Questa opposizione poco pertinente viene complicata da un’altra distinzione, anch’essa nota ma più fuorviante che utile: quella tra le “due culture”, grosso modo qui intese come scienze umane e scienze dure. In sostanza, P. sostiene che nell’environmental history hanno prevalso gli studiosi “umanisti” (cosa banalmente vera) e che “quei non molti studiosi che si sono occupati della scienza hanno finito per concentrare il loro interesse sugli approcci scientifici funzionali al pensiero ambientalista, in modo particolare su quelle teorie ecologiche ritenute in grado di fornire le basi scientifiche per l’affermazione di un’etica ambientale globale” [p. 11].

Chiaramente, la perifericità della scienza nella gerarchia dei saperi che informa istituzioni e cultura in Italia è cosa risaputa e confermata in infinite occasioni. Questo dato di fatto, però, può servire per spiegare soltanto la sostanziale allergia di politica e istituzioni culturali verso i temi ambientali, peraltro ben illustrata dal capitolo dedicato dall’altro autore, Francesco Sanna, alla tragicomica epopea del mancato museo nazionale “naturalista” in Italia. Certo, soprattutto in Italia è esistito ed esiste un problema di finanziamento, visibilità e riconoscimento pubblico delle scienze (fisiche, biologiche, naturali, epidemiologiche etc.). Questo a-scientismo, però, è un problema sofferto tanto dagli scienziati-esperti, la cui causa è perorata in quest’opera, tanto dagli scienziati-ambientalisti, qui messi all’indice. Al di là delle critiche alle prese di posizioni in ambito di politiche ambientali, infatti, si converrà che Nebbia, Tiezzi, Conti, Cini, Maccacaro e altri erano indubitabilmente scienziati o comunque figure dal solido curriculum non letterario.

Eppure, quasi tutta l’introduzione di P. è occupata da una sorta di denuncia retrospettiva dell’allargarsi, dalla metà degli anni Sessanta, di un irrazionalismo anti-scientista. Perché mai? La ragione è che questo atteggiamento viene ricondotto in larga parte al radicarsi di una critica alla “scienza borghese”, asservita ai poteri economici, che identificherebbe critica alla scienza esistente e critica al metodo scientifico tout court. P. individua nella direzione di “Sapere”, prima da parte di Maccacaro (1974-1977) e poi dal suo comitato di redazione (1977-1983), e nel libro L’ape e l’architetto (il cui co-autore noto è Marcello Cini) le principali fonti inquinanti di un dibattito stretto tra indifferenza istituzionale e culturale alle questioni ambientali e ovvie pressioni sulla ricerca scientifica da parte di attori politici ed economici.

Ecco introdotto un blocco fondamentale dell’opera, il rapporto tra scienza, progresso e sviluppo economico. P. scomoda Bacone per ricordarci che il sapere è potere e che il progresso moderno ha un motore tecno-scientifico, che politica ed economia non possono che cercare di asservire. Eccola individuata la porta stretta in cui cerca di inserirsi l’opera: contro gli scienziati-ambientalisti, critici della scienza borghese e quindi inevitabilmente alleati se non alimentatori del dilagante scetticismo verso scienza e sue applicazioni, vanno rivalutati gli scienziati che si sono occupati di ambiente senza ideologismi distruttivi – i chierici che non hanno tradito, potremmo dire, lavorando coscienziosamente dentro le istituzioni ma anche accettando di difendere la razionalità scientifica con (e non contro) la logica, per natura contrastante, del profitto. Il catalogo è questo:

Nel quadro sopra descritto vanno incastonate le vicende di quegli scienziati che si trovarono a collaborare con alcuni organi istituzionali preposti allo studio delle questioni ecologiche. Si tratta di un gruppo numericamente esiguo, guidato da alcune figure di rilievo: Vincenzo Caglioti (chimico, Presidente del Cnr dal 1965 al 1972), Giovanni Battista Marini Bettòlo (chimico), Giuseppe Montalenti (biologo e genetista), Mario Pavan (entomologo). Nel corso degli anni ’50 e ’60, le questioni ambientali non riuscirono ad emergere dalla loro dimensione carsica e rimasero confinate in due organismi (la Commissione per la difesa della natura e delle sue risorse e la Commissione per i Musei naturalistici e l’Ecologia, si veda il cap. II) che ebbero una scarsa visibilità nello spazio pubblico, per non dire che passarono quasi inosservati. [p. 24]

La parabola del gruppo non è fortunata:

Il lavoro di questi scienziati fu portato in superficie, per un breve momento, nella prima metà degli anni ’70 quando – sull’onda delle iniziative per la preparazione dell’Anno europeo per la conservazione della natura (1970) e della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano (1972) – i governi di centro-sinistra (e, soprattutto, Amintore Fanfani, all’epoca presidente del Senato) favorirono la pubblicazione di quattro relazioni: L’uomo e l’ambiente, il Libro bianco sulla natura in Italia, Problemi dell’ecologia, il rapporto italiano per la Conferenza di Stoccolma, a cui si aggiunse la Prima relazione sulla situazione ambientale del paese (si veda il cap. III). Si trattò, in sostanza, di un’effimera congiuntura alimentata dalle sinergie tra il centro sinistra (che, giocoforza, si trovava a guidare la partecipazione dell’Italia alle iniziative sovranazionali), l’attivismo di alcune aziende di Stato (l’Eni, in particolare) e questa compagine di scienziati a cui venne assegnato il compito di delineare una qualche forma embrionale di politica ambientale, poiché fino a quel momento l’Italia – trovandosi in un momento nevralgico per il suo sviluppo economico e sociale – aveva ignorato i problemi ambientali e, al solito, navigava a vista rincorrendo quanto avveniva negli Stati Uniti nonché, in misura minore, nell’Europa del nord. Una volta affievolitasi l’eco della Conferenza di Stoccolma, ben poco fu fatto in concreto e le attività degli scienziati tornarono ad essere avvolte dall’indifferenza della politica e dell’opinione pubblica, quest’ultima affascinata dalle sirene delle previsioni apocalittiche e ammaliata dalla dopamina comunicativa del catastrofismo, ma assai poco propensa a seguire le reali traiettorie dei diversi campi scientifici (in modo particolare della chimica, della fisica e della biologia)”. [p. 25]

Pare chiaro che tra gli spacciatori di dopamina comunicativa vadano annoverati in primis gli scienziati-ambientalisti, cioè coloro che rigettando la “scienza del capitale” hanno in realtà alimentato il pregiudizio contro la scienza e il metodo scientifico, entrando invece in presa diretta con irrazionalismi di vario genere già presenti nella società.

L’opera articola questa tesi attraverso quattro capitoli e un “postscritto” [sic].

Vale la pena riportare l’indice nella sua integralità:

  • 1. Gli scienziati e la questione ambientale in Italia (1950 1990), di Federico Paolini
  • Abbiamo un problema? La scoperta della crisi ecologica (1950-1971)
  • Gli anni dell’iniziale consapevolezza (1972-1982)
  • Il triennio dell’ecologia (1972-1974)
  • La scienza militante (1975-1982)
  • Scienza, sviluppo e ambiente: una convivenza difficile (1983 1990)
  • Il dibattito teorico
  • Le priorità: degrado delle risorse, energia nucleare, clima
  • L’insofferenza verso la radicalizzazione dell’ambientalismo
  • 2. Le strutture della ricerca, di Francesco Sanna
  • La Commissione per la difesa della Natura del Cnr
  • I “commissari della natura” di fronte al problema della ricerca scientifica
  • La Commissione per i Musei naturalistici e l’Ecologia
  • Le missioni all’estero
  • 3. Le prime relazioni sullo stato dell’ambiente e il ruolo dell’Eni, di Federico Paolini
  • Le interpretazioni della crisi ecologica
  • Il ruolo dell’Eni come catalizzatore del know how ecologico
  • La Tecneco e il tentativo di avviare una politica ambientale nazionale
  • La Prima relazione sulla situazione ambientale del paese
  • La crisi aziendale e lo smantellamento della Tecneco
  • 4. Il difficile avvio delle politiche ambientali, di Francesco Sanna
  • I progetti finalizzati del Cnr
  • La ricerca ambientale nelle principali industrie italiane
  • Gli scienziati prestati alla politica
  • La nascita del Ministero dell’Ambiente
  • Postscritto, di Federico Paolini
  • Indice dei nomi

Nel capitolo 1, su cui mi soffermerò in particolare, Paolini parte dal Secondo Dopoguerra, presentato come contesto in cui gli scienziati erano divenuti

una driving force necessaria per l’affermazione del nuovo sistema socio-economico, un tramite indispensabile tra gli studi teorici e la concreta messa in opera delle innovazioni tecnologiche. Nello spazio pubblico, il racconto della scienza veniva incentrato sulla magnificazione dei progetti internazionali della big science (a cominciare dall’esplorazione dello spazio), delle tecnologie che promettevano di rivoluzionare il lavoro e la vita quotidiana, nonché su tutto ciò che era percepito come progresso. [p. 43]

P. costruisce il capitolo attorno alla rivista “Sapere” assunta quale specchio della comunità scientifica italiana. In particolare l’attenzione si concentra sul periodo ‘70-’80:

nel 1974 iniziò la direzione collettiva di Giulio Alfredo Maccacaro che, come menzionato nell’introduzione, convertì la rivista nel megafono di quella scienza proletaria impegnata a denunciare gli intrecci degli interessi tra gli scienziati e i poteri politico-economici. Nel 1983 ebbe inizio la direzione del fisico Carlo Bernardini che, coadiuvato da un comitato scientifico di alto profilo, riportò “Sapere” sul sentiero di un austero rigore scientifico caratterizzato dalla profondità del pensiero critico e dal rifiuto di qualsiasi irrazionalità. [p. 44]

Prima di narrare la riconquista del Palazzo d’Inverno, P. ci informa che “un primo punto di svolta vi fu nel 1963 quando uscì l’edizione italiana di Primavera silenziosa di Rachel Carson”. L’autore passa in rassegna una serie di articoli apparsi su periodici e quotidiani, notando che “la questione del Ddt approdò sulle pagine di ‘Sapere’ nel settembre 1969”. Quando si dice che “Sapere” è lo specchio della comunità scientifica italiana si deve quindi inferire che il grado di attenzione per le questioni ambientali di rilevanza pubblica, in questa rivista, negli anni Sessanta, era piuttosto basso.

In ogni caso, il lungo dibattito stimolato dal libro della Carson è per P. significativo per tre motivi:

come mai prima di allora, il punto di vista ecologista trovò visibilità nello spazio pubblico spingendo sempre più persone a prendere coscienza dei problemi ambientali; in America, in Italia, come in qualsiasi altro paese in cui fu pubblicato il libro della Carson, gli scienziati si trovarono non solo a dover difendere il loro lavoro, ma a giustificare il ruolo (e la legittimità) della scienza di fronte ad opinioni pubbliche che iniziavano a considerarla responsabile delle nefandezze compiute nei confronti della natura; da quel momento in avanti i mezzi di informazione italiani, in modo particolare i quotidiani, adottarono un atteggiamento quasi fideistico verso quegli scienziati stranieri (in genere americani) che assumevano posizioni catastrofistiche o che avevano un ruolo militante all’interno del movimento ambientalista. A partire dalla pubblicazione di Primavera silenziosa, la stampa periodica concesse largo credito e ampio spazio alle posizioni degli scienziati statunitensi engagé, mentre dedicò assai minore attenzione al lavoro e alle prese di posizione di quelli italiani. [pp. 50-51]

Prima del Ddt, “Sapere” si occupò di neo-maltusianesimo ospitando ben tre articoli (uno direttamente di Paul Ehrlich, autore di The population bomb) dal carattere, nota P., catastrofista e apocalittico, senza che la redazione prendesse alcuna distanza. Ma il neo-maltusianesimo non è che una delle matrici concettuali con cui cominciarono a essere inquadrati i problemi ambientali: ovviamente si tratta di uno degli ingredienti rinvenibili in I limiti allo sviluppo (alla cui ricezione italiana P. dedica parecchio spazio), ma è al contempo uno dei principali bersagli critici della critica di ispirazione marxista, facente capo a Maccacaro e a larga parte del comitato di redazione di “Sapere” (1974-1983).

Viene qui giustamente sottolineata la critica all’ecologia in quanto “imbroglio” (Dario Paccino faceva parte del comitato di redazione), ma P. ripercorre anche la critica, consonante, svolta da Virginio Bettini.

Possiamo chiosare che la sinergia di sensazionalismo esterofilo, catastrofismo mediatico e ideologismo militante stava già aspirando l’ossigeno dallo spazio in cui dovrebbe fiorire una scienza responsabile realista, davvero all’altezza della questione ambientale.

A questo punto, forse per andare a vedere davvero cosa bolliva nella pentola del potere “vero”, quello militare, P. esamina una serie di documenti, visionati e raccolti in formato pdf accedendo ai Nato Archives Online (https://archives.nato.int/committee-on-challenges-of-modern-society-ccms)

Questa la conclusione:

L’aspettativa per il futuro era quella di rafforzare ulteriormente la cooperazione tra l’Alleanza, le Nazioni Unite, l’Oecd e l’Organizzazione mondiale della sanità allo scopo di stabilire degli standard qualitativi internazionali per l’ambiente. La Nato era consapevole di non poter risolvere la crisi ambientale globale da sola, ma, allo stesso tempo, era certa di poter offrire un importante contributo per garantire alle generazioni future un ambiente più dignitoso e una migliore qualità della vita. [p. 89]

Questo excursus va inteso come un’anticipazione di quanto svolto nel capitolo terzo, stavolta non con riferimento non a un attore militare ma a un soggetto economico di prima grandezza come ENI: se si vuole affrontare la crisi ecologica è inevitabile considerare il rapporto sviluppo-ambiente ed è altrettanto inevitabile prendere in esame l’apporto dato dagli attori economici alla questione, pur chiaramente nell’ovvia presenza di interessi espliciti quanto parziali. In fondo, pare suggerire P., il Club di Roma è a buon diritto uno degli attori della “primavera ecologica”: perché non buttare un occhio su quanto fatto da Eni e da Tecneco?

In effetti, avviandosi alla conclusione, non si vede nessuna buona ragione per escludere questi soggetti da un esame storico. Al contrario, una storia della questione ambientale non può prescindere da un’analisi attenta delle strategie e degli effettivi comportamenti di tutti gli attori rilevanti coinvolti, ovviamente a partire dai grandi soggetti economici, e dalla loro concreta interazione con scienziati ed esperti.

Allo stesso modo, risultano senz’altro utili i carotaggi svolti da Sanna negli abissi delle commissioni decennali per l’istituzione di un museo di scienze naturali nazionale che non vedrà mai la luce o negli ingranaggi istituzionali che hanno avviato qualcosa che assomigliasse a una politica per l’ambiente all’altezza della situazione già allora allarmante, per chi non volesse distogliere lo sguardo.

Sperando di non far torto agli autori, quella che emerge alla fine dell’opera non è la storia misconosciuta di una grande fase di consapevolezza ambientale da parte di politica, scienza e industria italiane: quelle che vengono percorse sono piste secondarie, magari di grande potenzialità ma accomunate dal finire, più prima che poi, su un binario morto.

Ora, meritano di essere conosciuti e valorizzati gli scienziati e gli esperti che si impegnarono con passione e competenze in questa imprese importanti e certo non mainstream? Certamente, il pantheon degli scienziati che si sono occupati in modo autentico e disinteressato di crisi ambientale non è tanto grande, va quindi benissimo tirar su un altro muro e aggiungere qualche nome, un fiore lo porterei volentieri anche io. Anzi, finirei con un consiglio.

Come non sarà certo sfuggito ai nostri due vindici della scienza rigorosa e austera, non accecata dal furore ideologico, che l’archivio della Fondazione Micheletti conserva non solo le carte di Giorgio Nebbia, Laura Conti, Dario Paccino e Virginio Bettini, ma anche quelle di Mario Scudo, Giancarlo Pinchera, Paolo Berbenni e alcuni altri. Si tratta di scienziati ed esperti meno esposti politicamente rispetto agli aborriti scienziati-ecologisti, ma non per questo ritenuti meno meritevoli di avere un posto in cui evitare (almeno per un po’) il macero. E’ un estremo tentativo di soccorrere la memoria di questo Paese, impedendo che vengano buttate via le tracce di coloro che hanno lavorato, con le loro competenze scientifiche, con la loro passione politica e con il loro impegno civico, per un’Italia più civile.

Una volta che i due autori, con le differenze del caso, avranno finito la loro rivolta contro questo Paese ostaggio dell’ambientalismo e della storia dell’ambiente a senso unico (come icasticamente confermato dalla nomina del fisico Roberto Cingolani, nominato da Mario Draghi Ministro dell’Ecologia e della Transizione Ecologica, ad AD di Leonardo), vi attendiamo in via Cairoli 9, Brescia.

Ci sarebbe davvero tanto da fare.

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