Recensione a La svolta ecologica mancata. Dalla crisi petrolifera al Golfo oggi, a cura di Marino Ruzzenenti e Pietro Zanotti, Milano, Jaca Book, 2024.
Qualche giorno fa, un po’ all’ultimo, sono stato invitato dall’assemblea parmigiana di Extinction Rebellion (XR) a tenere una formazione politica per giovani militanti. Ho accettato con piacere, naturalmente: lo scambio giovani militanti della Gen Z è per me molto istruttivo, oltre che soddisfacente. Inoltre, ciò mi ha fornito ulteriori spunti di riflessione: sono contento di trovarmi a scrivere queste righe di presentazione e commento al bel libro curato da Ruzzenenti e Zanotti il giorno dopo questo momento di confronto con una delle principali forze che si oppone alla stretta repressiva che il Paese si trova ad affrontare.
La ragione di questa mia contentezza è presto detta: il libro funziona magnificamente come strumento di trasmissione della memoria tra diverse generazioni di attivismo ecologista. Si potrebbe dire: dalla “primavera ecologica” degli anni Settanta, secondo la felice espressione di Giorgio Nebbia, alla “giustizia climatica” di oggi, rappresentata da Greta Thunberg, la cui parabola – dalle Conferenze delle Parti alle piazze di tutta Europa, dal Palazzo di Vetro dell’ONU alla ex-GKN, fino all’imbarco sulla Freedom Flotilla per fermare il genocidio a Gaza – mostra con chiarezza il potenziale della raccolta di saggi.
Era del resto questo l’intento, esplicitato fin dal titolo, del convegno che sta all’origine del volume: 1973: l’Oil Shock e la svolta ecologica mancata. Una lezione per il presente (Brescia, 7 novembre 2023). Più nello specifico, l’articolo di lancio del convegno, firmato da Ruzzenenti, ospitato da Extraterrestre (settimanale ecologista de Il Manifesto) e ora parzialmente riportato nel risvolto di copertina, inizia così:
“Agire subito!!” è l’appello che accomuna i nuovi movimenti contro il cambiamento climatico. E hanno ragione. Ma se le risposte alle loro richieste tardano a venire, lo scoraggiamento è in agguato. Forse la transizione ecologica, quella vera, è un processo di lunga lena. Forse è un percorso da maratoneti, non da sprinter. E per prepararsi può aiutare la dimensione storica, la consapevolezza che tutto non si può schiacciare sul presente, che la questione ecologica ha una storia lunga, ricca e fertile, e quindi può e deve avere un futuro di lungo periodo, che impegnerà diverse generazioni.
Per rendere al meglio l’annodarsi generazionale di questa ricchezza e di questa fertilità, il volume è diviso in due parti. La prima, intitolata “La Storia”, si compone di tre saggi semplicemente fondamentali. Duccio Basosi colloca l’esplosione dei prezzi del petrolio alla confluenza di “tre crisi più ampie: la crisi del regime della ‘Guerra Fredda’, la crisi del regime fordista nelle sue diverse declinazioni globali e la crisi del regime del colonialismo” (p. 16).
Luigi Piccioni, dal canto suo, insiste sul passaggio di fase rappresentato dal primo oil shock: 1972 vs 1973. “Nel 1972 [la Conferenza ONU di] Stoccolma pose sicuramente le fondamenta di un nuovo global environmentalism istituzionale ma lo fece all’insegna del compromesso, del rifiuto di farsi adeguatamente carico della già evidente crisi ambientale – se non addirittura di un precoce greenwashing”. Per contro, la crisi petrolifera innescata dalla guerra del Kippur “introdusse tre elementi nuovi: un grave ed esteso conflitto sulle risorse energetiche globali; le logiche emergenziali provocate da tale conflitto; e l’emergere di una robusta e aggressiva strategia capitalista di attacco ai capisaldi del compromesso socialdemocratico, cioè il sorgere dell’ondata neoliberista” (p. 32-33).
Da questo punto di vista, vorrei segnalare la convergenza della riflessione di Piccioni con quella, pure notevole, di Andrew Ross: “Non molto tempo dopo la pubblicazione de I limiti dello sviluppo [1972], le norme della fiscalità generale, che avevano assicurato un certo grado di equità sociale all’epoca del patto fordista, sono finite sotto attacco. Riforma delle imposte, austerity fiscale, deregulation e privatizzazione, aggiustamenti strutturali, crollo della sicurezza sul lavoro, sbriciolamento del welfare […] In retrospettiva si può tranquillamente concludere che il messaggio de I limiti dello sviluppo sia stato chiaramente percepito dalle élite, che hanno risposto con l’accaparramento compulsivo di qualsiasi risorsa esse riuscissero a espropriare alla ricchezza comune”1.
Infine, Marino Ruzzenenti porta l’attenzione sul contesto italiano, in cui “la reazione imperialistica alla crisi petrolifera” si legò a una torsione “autoritaria negli assetti istituzionali e di governo”; di conseguenza, “le energie vennero impiegate per piegare il movimento operaio e sindacale […] per ridurre gli spazi democratici e la partecipazione attiva, ovvero per escludere quelle forze indispensabili come protagoniste per la svolta eco-sociale” (p. 48-49) – che appunto risultò “mancata”.
Nella seconda parte, intitolata “L’oggi”, propone quattro diversi scenari per un l’uso politicamente orientato dell’eredità appena richiamata. L’ambito generale, richiamato da Pietro Zanotti nell’Introduzione a questa sezione, è “la trasformazione del modello energetico dipendente da fonti fossili in un modello basato sulle vere rinnovabili” (p. 53).
Il primo orizzonte lo traccia Andrea Fantini, che sottolinea un nervo particolarmente scoperto in tempi di corsa al riarmo: “Una parte significative delle svolte tecnologiche più importanti del Novecento – dai prodotti di sintesi in agricoltura alle rivoluzioni dei trasporti, a quelle dell’elettronica e dell’informatica – è un adattamento e un’estensione nell’economia civile di dispositivi introdotti in epoca di guerra o comunque originati in ambito militare” (p. 62-63). Di fronte al riproporsi di questo argomento – dal cosiddetto ‘Rapporto Draghi’ al recentissimo Clean Industrial Deal della Commissione Europea, c’è sostanziale accordo sul fatto che nel dual use delle innovazioni belliche stia un’occasione importante per la decarbonizzazione – l’autore propone la demercificazione dei settori essenziali attraverso “un’attenta pianificazione” e “un’interruzione della logica autoreferenziale della crescita infinita” (p. 66).
La seconda linea di fuga la percorrono Paola Imperatore e Roberto Saleri. Il loro contributo interroga da un lato il territorio come unità di analisi – attraverso l’articolazione tra processi di accumulazione per spoliazione (per come indagati da David Harvey) e processi di accumulazione per contaminazione (secondo la proposta di Giacomo D’Alisa e Federico Demaria) – mentre dall’altro si focalizza sul caso di Brescia. Con particolare riferimento al ‘Tavolo Basta Veleni’, si riflette nel seguente modo: “Appare quindi utile considerare il mondo dei comitati e dei conflitti ambientali come un luogo nel quale possono nascere nuovi patti federativi tra attori diversi, incentrati attorno ai concetti di cura e sostenibilità, in grado di dare vita a nuove forme di comunità, di produzione e di consumo, che non si disperdano con l’esaurirsi del conflitto” (p. 78).
Il terzo scenario, davvero illuminante, è approntato da Alessandro Montebugnoli e consiste di una critica approfondita del discorso delle auto elettriche. Operando un cambio di paradigma assai significativo – primariamente a fuoco viene messa non l’automobile (elettrica o meno che sia), bensì la forma urbis che ne decreta la centralità, apparentemente inscalfibile – l’autore propone “un completo rovesciamento della gerarchia dei modi di trasporto ereditata dal secolo passato […] in vista del seguente ranking: first, il Trasporto Attivo, gli spostamenti a piedi e in bicicletta; second, il Trasporto Collettivo, nel quale, con un ruolo marginale, si possono anche includere i vari casi nei quali l’uso di un’automobile è condiviso da un numero indeterminato di persone; last and least, il Trasporto Privato, per mezzo di automobili possedute e usate da singoli nuclei familiari. Le quali, certo, sarà bene che siano equipaggiate con motori elettrici, come del resto i mezzi pubblici e le automobili shared” (p. 92-93).
Vale la pena di segnalare la convergenza, piena, tra il ragionamento qui proposto e l’elaborazione del primo piano di reindustrializzazione della ex-GKN di Campi Bisenzio,2 nonché l’ampia sovrapposizione con le premesse dello studio di Fridays for Future sulle potenzialità occupazionali della mobilità pubblica e sostenibile.3
La quarta e ultima pista di ricerca la traccia Mario Agostinelli che, con grande lucidità, parte dal riconoscimento delle difficoltà che l’agenda “climatica” a guida ONU va incontrando negli ultimi anni: il giudizio sulla COP 28 è molto negativo, e “si fa più duro quando si considera che è in corso una guerra culturale che prende di mira proprio le quattro tecnologie di cui abbiamo più bisogno: pannelli solari, turbine eoliche, auto elettriche e pompe di calore” (p. 107). Tuttavia, la chiusa invita alla speranza, in particolare riguardo alle comunità energetiche: “Le condizioni per il cambio di marcia sono assai favorevoli: occorre tener conto che l’energia prodotta localmente assume una priorità rispetto alle importazioni di energia e che, a lungo termine, la sicurezza energetica e la sostenibilità andranno nella stessa direzione” (p. 108).
Si può concordare o meno con questo ottimismo conclusivo; ciò che invece non può essere messo in discussione è l’alto valore di questo volume nel mettere un raffinato strumentario politico-storiografico al servizio delle lotte che, nella nostra quotidianità, danno respiro alla transizione ecologica dal basso.
1 A. Ross, Vita e lavoro nell’epoca del cambiamento climatico, in F. Chicchi – E. Leonardi (a cura di), Lavoro in frantumi, ombre corte, Verona 2011, p. 31.
2https://fondazionefeltrinelli.it/scopri/un-piano-per-il-futuro-della-fabbrica-di-firenze-dallex-gkn-alla-fabbrica-socialmente-integrata/
3https://fridaysforfutureitalia.it/nuova-campagna-lavori-climatici/

